www.lacritica.net / messaggi.htm |
L'arte
è «game over»?
di Caterina Falomo «Un imperatore cinese domandò un giorno al primo pittore della sua corte di cancellare la cascata che questi aveva dipinto a fresco sul muro del palazzo, perché il rumore dell'acqua gli impediva di dormire» (Régis Debray, Vita e morte dell'immagine, Il Castoro, 1999). La storia dell'imperatore cinese e della cascata, ci dà da pensare: non solo sul significato dell'opera d'arte ma anche sul valore che questa ricopre nell'attuale società tecnologica. Se oggi tutto è arte, allo stesso modo nulla lo è più. Se un quadro esiste oggi, se fa accelerare il battito ad esperti ed appassionati, per molti non è altro che un oggetto da museo, un qualcosa che occupa lo spazio di una parete, o forse addirittura un'entità astratta di cui non si arriverà mai a conoscere il profondo senso sublime. L'arte spaventa, oppure ce la facciamo da noi. Cosa intendo dire con questo? Semplicemente che il significato dell'arte, come momento puramente estetico e privo di necessità significativa, spaventa perché sembra appartenere ad un mondo troppo distante dal nostro, fatto di oggetti facilmente percepibili e riconoscibili e che non richiedono uno sforzo di conoscenza. Eppure l'arte proviene dall'uomo, strana coincidenza. Ma sembra che ci sia un modo, oggi, per essere tutti artisti, un modo molto semplice che non richiede particolare dispendio di tempo e di energie, né di pensiero. Eppure l'arte si afferma da secoli, come il bisogno innato dell'uomo di comunicare sensazioni, pensieri, umori e rumori (si pensi alla cascata), un bisogno che non trova, se non nell'arte, altro modo di esistere e palesarsi. Che ci si voglia sentire degli artisti nel proprio intimo, nel proprio spazio, nei confronti della società (che ci richiede lo sforzo di distinguerci per essere qualcuno) o come ricerca di sé in un mondo troppo pieno di oggetti, soggetti e cianfrusaglie, questo è pienamente legittimo. Eppure il dubbio sorge e disturba l'animo di chi ancora crede che l'arte richieda tempo e la piena presenza del sé, lo studio e l'applicazione, la conoscenza nel senso più lato del termine. Ma ci si può sentire davvero degli artisti acquistando all'edicola sotto casa un kit di pittura, che fornisce pennelli e colori, un cartoncino che riproduce un dipinto famoso (dei fiori in un vaso) dove dei numeri indicano il colore che va passato sopra ognuna delle piccole aree, mentre qualche pagina stampata ci racconta i cenni biografici di colui che a fatica lo realizzò? Il dubbio ci rimane. E ancora: ci si può sentire degli artisti comprando software grafici di alta qualità e dal prezzo poco contenuto, che ci regalano il sogno di essere anche noi degli eccellenti impaginatori e dei realizzatori di prodigiose immagini tridimensionali, che volendo si muovono sotto i nostri occhi al tocco di un mouse? Il dubbio ormai ci toglie il sonno e ci rende nervosi e infastiditi. Come faremo a sentire il profumo di quei fiori e come credere che siamo stati noi a realizzare quegli oggetti in movimento che tanto ci piacciono? L'arte è alla portata di tutti e noi, umili profani che ancora crediamo nel sudore e nella fatica del genio, le gridiamo di andarsene e di ritornare sotto nuove spoglie, ma che non siano quelle di un artificioso video-gioco industriale che ci distoglie dalla realtà stanca della nostra quotidianità, lasciandoci impressa nell'anima la scritta «game over» e la paura che sia tutto finito. Tra l'ingenua figura ideale e la realtà intravista
Penso che visiterò con attenzione il vostro
sito. Ma prima di investirci tempo ed energia, vi chiederei di spiegarmi
una cosa che non ho ancora ben capito. Cos'è, sociologicamente
parlando, un critico d'arte? La mia primitiva idea era che fosse un
"intellettuale" di provenienza variabile, caratterizzato da una forte
curiosità e passione per l'arte, che quindi trova un intrinseco
piacere nel giudicare le espressioni artistiche e dare forma verbale
ai suoi giudizi. Che sarebbe stato contento, se non grato, di trovare
occasioni per esercitare i suoi muscoli, indipendentemente dalla positività
o meno del giudizio nella fattispece. Un amante della discussione,
del confronto anche feroce, ma fieramente indipendente. Nel corso
di svariati anni di navigazione su Internet, di figure simili non
ho trovato traccia. Qualche tempo dopo, parlando dell'eventualità
di un catalogo con il mio gallerista, fa capolino l'orrida (per me)
figura del critico disposto a scriverti i testi, a modico prezzo,
che mica si approfitta degli artisti esordienti. Ecco, tra l'ingenua
figura ideale e la realtà intravista, dove si situa davvero
il critico d'arte? Di cosa vive? Qual'è il suo vero ruolo nel
mercato dell'arte? E' necessariamente inserito in cordate impegnate
in operazioni commerciali? Insomma è davvero possibile un rapporto
a schiena diritta con una tale sottospecie umana (ammesso che la parola
sia davvero dotata di un'intensione sufficiente) oppure ogni approccio
verrà cinicamente catalogato come un tentativo di ottenere
gratis cose che normalmente, in qualche modo, si pagano? Siate sinceri,
se potete.
Cordiali saluti e auguri. Ma occorre un impegno reciproco
Queste domande sembrano muoversi dentro un circolo
vizioso: c'è il desiderio di capire che cos'è oggi
la critica d'arte ma si vorrebbe ricevere una spiegazione "prima
di investire tempo ed energia" nella lettura di una
rivista che tratta in maniera approfondita questo tema, anche se
bisogna dire che lacritica.net
non intende privilegiare il profilo specifico dell'analisi sociologica
ma tenta di affrontare un pensiero critico di più ampio respiro.
La nostra rivista, come si può facilmente constatare, non
ha vincoli diretti né con il mercato dell'arte né
con quello dell'informazione. Possiamo permetterci questo lusso
solo perché la riflessione sull'arte e sulla critica non
è l'unica attività in cui siamo impegnati. Grazie,
comunque, per aver pensato che prima o poi "visiterà
con attenzione il nostro sito".
Cordiali saluti e auguri anche da parte nostra. Innamorato del progetto, ma con qualche dubbio... Ometto i complimenti (dico soltanto che mi sono già innamorato del vostro progetto e che lo sforzo di chiarezza si apprezza un po'dappertutto) e vengo subito al sodo. Solo per fornire un appoggio ad una argomentazione di carattere generale, cito l'inizio di uno degli articoli in sommario:: "I movimenti artistici del ventesimo secolo, a cominciare dalle Avanguardie Storiche della prima metà del Novecento e includendo le Neoavanguardie degli anni '60/'70, hanno agito per desacralizzare l'unicum e l'originalità artistica, dando spazio ai processi di costruzione collettiva e spontanea del senso..." Provo una certa difficoltà a dare la mia adesione, a "sospendere l'incredulità", di fronte alle narrazioni di questo tipo, che mirano ad attribuire un senso compiuto e profondo al fenomeno artistico. Non contesto la sostanza di queste letture storiche, non ne avrei competenza, esprimo soltanto un residuo di diffidenza, che mi deriva anche dalla mia propria prassi artistica. Il dubbio, detto in soldoni, deriva dal rapporto esistente tra il grande numero di artisti praticanti che rimangono pressoché anonimi ed il ristretto novero di coloro che "fanno" l'arte, così come viene raccontata dalle tante narrative di questo tipo. C'è un problema di fondo, ineliminabile: per dare forma a queste narrative il numero dei protagonisti deve rimanere limitato, pena il dissolvimento dell'analisi nella mera statistica. Per dare "profondità" al racconto, occorre infatti entrare a fondo nelle psicologie e nelle storie personali dei protagonisti, ricercando le connessioni tra le loro costellazioni psichiche e culturali ed uno "spirito del tempo" che in fondo si pretende di saper individuare. E' chiaro che non si può riservare una simile esasperata attenzione a tutti quanti, ciò a prescindere dalla validità, autenticità, valore poetico ecc. delle loro esperienze artistiche (che d'altronde, se non si guarda, è impossibile stimare.) Quel novero, pur ammettendo tranquillamente recuperi e scoperte postume, complessivamente deve per forza rimanere ristretto. Ma cosa determina i protagonisti di queste storie? Una "necessità" storico-filosofica forse? Le scintille astratte che si sprigionano al contatto tra gli universi concettuali di un Heidegger e di un Benjamin? Secondo me no. E' una questione di potere. Un potere distribuito tra i diversi attori del gioco, ma un potere che annovera tra le sue funzioni essenziali quella di escludere. Non sto accusando, non c'è una volontà malvagia dietro a questa esclusione, semmai una necessità di fondo, una regola essenziale al fine della possibile individuazione di "sensi" storici generali. Però da un confronto disinteressato, operato al meglio delle mie forze "ermeneutiche", tra le opere di tanti e tanti artisti praticamente anonimi (ed è stata Internet a darmi davvero l'idea di quanti ce ne siano al mondo) e quelle delle attuali "star", sono arrivato alla convinzione che non vi è davvero quella differenza qualitativa che le grandi o piccole narrative vorrebbero far credere. Rimango convinto che il gioco, in parte aleatorio in parte ferreamente determinato, dei vari poteri avrebbe potuto benissimo far prevalere altri personaggi, individuare altre correnti, e quindi determinare narrative del tutto differenti (non sto dicendo migliori, non nutro risentimenti da cosca perdente, o almeno lo spero). Forse, per quadrare il cerchio, dovrei dar credito ad una funzione selettiva, "darwiniana", dell'attuale sistema dell'arte. Francamente ciò mi appare assolutamente inverosimile, stante il banale legame tra "wirkung" dell'opera e leve del potere mediatico. Dato quest'ultimo, e la sovrastruttura specializzata nel suo utilizzo, l'opera è diventata quasi un pretesto ininfluente (serve forse elencare qualche prova?) Ho l'impressione che molti aspetti del fenomeno, per i quali si ricercano contorsionistiche spiegazioni concettuali, siano in realtà legati a dinamiche assai più terrene. Mi interesserebbe molto capire se e come voi riuscite a superare questa obiezione, che io non intendo come distruttiva ma relativizzante sì. In fondo essa ruba un po' di gusto al gioco, quindi se riuscite a smontarla, decostruirla, ridicolizzarla, mi fate un favore. Mentre mi accingo ad inviare questo messaggio, mi attanagliano i dubbi. Non sarà questo mio cianciare sul potere una circonvoluta manifestazione di indolenza, non avevo davvero temi più interessanti sui quali discutere? Ma se comincio così poi non muovo neanche un passo, proviamo allora a vedere cosa succede! Cordiali saluti P.B. L'opera come evento collettivo non è una novità Considero le tue osservazioni molto stimolanti e mi ha fatto piacere che un certo tipo di argomentazioni siano state associate proprio al mio testo...questo perche' mi sono resa conto che paradossalmente hai interpretato le mie frasi attribuendogli una connotazione che e' esattamente l'opposto del significato che io volevo veicolare. Pero' nello stesso tempo hai perfettamente ragione....e questo deriva dal fatto che la scrittura ha una duplice valenza: puo' a volte esprimere molto piu' delle parole e a volte dimostrarsi un mezzo parziale, spesso fonte di incomprensione (e questo fenomeno nella Rete appare molto evidente). Viste le mie parole al di fuori del loro contesto e nella loro "assolutezza" possono realmente sembrare una visione parziale della realta', un'analisi apportata solo sugli artisti che il "potere" (come tu lo chiami) ha voluto tramandarci...effettivamente si tende a parlare sempre e solo di quelli...sicuramente ci saranno stati fenomeni altrettanto complessi che sono rimasti in ombra...condivido le tue considerazioni pienamente. Pero' ti chiedo di rileggere il mio testo e di riflettere sul motivo per cui io ho voluto far partire la mia analisi da un parziale frammento della realta'...e proprio da quello, non da altri. Il mio progetto vuole dimostrare proprio che non esiste un'idea di arte congestionata, che il concetto di artista puo' allargarsi a molti aspetti della vita quotidiana, che l'entita' museale puo' espandersi aldila' dei propri quattro muri, andando ad abbracciare una collettivita' piu' estesa. Questo puo' verificarsi, e gia' in effetti e' realta', se viene messo in pratica un libero utilizzo delle tecnologie e dei nuovi media per sviluppare e fecondare la nostra creativita', cercando di andare oltre il concetto di originalita' artistica, artista creatore, opere uniche con copyright inattaccabile. Le nuove tecnologie sono viste quindi come serbatoio di nuovi contenuti e nuove idee e non come mezzo per convalidare e perpetuare gli assetti sociali ed economici cristallizzati. Nel mio testo, il rimando iniziale alle avanguardie e alle neoavanguardie era pensato proprio per far capire che l'opera come evento collettivo e processuale non e' una novita' dell'attuale societa' informatizzata, ma un obiettivo di molti altri artisti del passato che hanno agito proprio per eliminare l'idea di arte mercificata e di artista divinizzato. In questo senso l'arte diventa sperimentazione che tutti possono mettere in atto, contrariamente a quanto le logiche di potere vogliono perpetuare, e cioe' l'idea di pochi artisti "eletti". Ovviamente l'istituzione artistica continuera' a legittimare solo l'operato di pochi, ma questa e' purtroppo una realta' e sarebbe ingenuo pensare il contrario...Meno ingenuo e' magari provare a dimostrare che esistono tanti altri canali che possono essere percorsi al di fuori di quello istituzionale e che l'obiettivo del "fare arte" non e' necessariamente quello di far parlare di se' o rimanere nella storia...dei pochi. La nostra societa' sta gia' dimostrando questo e forse non sarebbe male se le istituzioni artistiche cercassero di stare al passo con i tempi, investendo anche nelle nuove tecnologie cominciando a percepire una visione dell'arte piu' allargata, fruibile da piu' persone e da piu' persone determinata (basta pensare il successo di siti come Napster, in cui l'opera musicale diviene fonte di scambio, di relazione, di contaminazione, contro l'idea dell'opera originale e immacolata...) Ma qui ritorniamo alle tue osservazioni sulle logiche di potere... Saluti Cercasi spazi virtuali per un confronto... Mi chiamo Fabio Ventura, seguo da un po' di tempo la vostra rivista on line, vorrei aprire con voi e con altri interlocutori un dibattito sul tema: esistono spazi virtuali dove sia possibile mostrare e discutere delle proprie ricerche artistiche? Dove sia possibile un confronto. Io da qualche mese ho inserito una serie di lavori in rete, progettati esplicitamente per essere fruiti on line, ma trovo difficoltà a individuare e invitare critici e artisti che operano prettamente sull'argomento della web art. Cordiali saluti www.micanet.net/biozorro/player.htm Il cerchio non è una curva Siamo abituati a vedere il cerchio come la massima espressione della linea curva, curva per eccellenza. Ciò è vero solo in parte e risulta chiaro se pensiamo al cerchio come all'ultima figura piana ottenibile tracciando linee rette e non come a una figura che nasce dalla rotazione di un punto intorno a un altro punto. Si evidenzia così che il cerchio è qualcosa di più di una curva chiusa. In sintesi: partendo dalla prima figura geometrica (il triangolo), passando per quadrato, pentagono ecc. arriviamo al cerchio. Ovviamente man mano che aumenta il numero di lati ne diminuisce la lunghezza fino a raggiungere la dimensione del punto. Avremo un cerchio, che evidentemente non è la rotazione di un punto, ma è l'ultima figura a linee rette che possiamo tracciare sul piano. Visto da questa angolazione, possiamo dire che il cerchio non è la massima espressione della linea curva, anzi, è il top delle figure piane rettilinee. Tuttavia la riflessione inversa si potrebbe applicare alla curva. Se noi tracciamo liberamente una linea curva, a più curve, più o meno ampie, avremo una linea che non segue un particolare procedimento logico e predeterminato. Eppure potremmo sostituire alla linea in questione tante parti di cerchi a differenti raggi di curvatura. Grazie a questo modo di vedere possiamo dire che la linea curva non esiste se non come parte di cerchio, e se il cerchio è anche l'ultima figura retta possiamo anche sostenere che le linee curve non sono che la massima espressione delle rette. Le linee pertanto si distinguono non per essere rette o curve, ma per la direzione e il moto dei punti che le compongono. E' il percorso tracciato dal punto a determinare la tipologia della linea. Gaetano Marinò Sul concetto di qualità tra marketing e critica d'arte... Gentili Signori, vi chiedo aiuto. Mi chiamo Gianluca Lisi, e sono un consulente di marketing di Firenze. Sono alle prese di una serie di riflessioni riguardanti la qualità. Cosa significa "qualità"? Come produrre "qualità"? Come indirizzare gli imprenditori verso la "qualità"? Sembra facile. "Dare al mercato ciò che desidera": è il messaggio fondamentale del marketing. Ma non funziona più. Anzi, non ha mai funzionato. Soltanto le imprese sanno cosa può potenzialmente essere realizzato. In primo luogo perchè dovrebbero pensare a ciò notte e giorno. In secondo luogo perchè il pubblico non ha la minima idea di ciò che la tecnica può arrivare a realizzare. Nei dieci anni in cui la Chrisler ha lavorato per realizzare la prima auto monovolume non è mai arrivata una lettera di una casalinga chiedendo un qualcosa che assomigliasse a una monovolume. Per forza, non esisteva. Parlo di innovazione. Per l'esistente ci sono gli ingegneri e L'ISO 9001. A parte i prodotti a valutazione assolutamente soggettiva (moda, per es.) Dunque, la definizione di ciò che rende "di qualità" un prodotto o un servizio spetta alle figure imprenditoriali (imprenditore o managers, stilisti e designers). Che c'entra l'estetica? Un imprenditore, per produrre qualità, deve chiedersi come le cose dovrebbero essere. Deve compiere un'immersione nel mondo delle idee. Di come la realtà vorrebbe che fosse. E c'entra anche l'etica. Rimanere fedeli alla propria visione. Non lasciarsi condizionare dal pubblico. Addirittura. Glenn Gould. E' lui che mi ha spinto a rivolgermi a voi. Ogni artefice è, o deve essere, un artista. A questo punto la mia sensazione: ogni imprenditore deve considerarsi un'artista. Creare un mondo migliore, il mondo ideale. Però c'è di mezzo la soggettività. Provate a valutare la creatività di Tom Ford in contrapposizione a quella di John Galliano. Serve la critica dell'arte. Io penso che sia utile. Faccio un esempio, sperando vi interessiate di vino: il movimento Slow Food ed il sentire del Gambero Rosso è romantico. Si valuta il grado di rappresentatività del vino rispetto al territorio, alla cultura, alla tradizione. Veronelli è romantico (cosa conta in un vino? "La terra, la terra, la terra...). Maroni è neo-classico, quando fissa i parametri dell'equazione con cui valutare la qualità di un vino. Dunque: secondo me, dobbiamo valutare le marche con criteri derivati dalla critica dell'arte. Per esempio: tutta la moda è romantica, a parte Gianfranco Ferrè, forse. Yves Saint Laurent ha studiato i costumi russi, quelli africani. Il tema dei popoli. Boeing è neo-classica. "Pensare al volo, sempre". Prometeica, addirittura. Spero di avervi provocato a sufficienza. Aspetto con ansia una vostra teoria che fonda marketing e critica estetica. Grazie per la vostra attenzione. Gianluca Lisi Sì, l'estetica e l'etica riguardano ogni «agente-senziente»... Gentile e competente lettore, il tema del rapporto tra riflessione estetica e teorie del marketing ci sembra di particolare interesse. Metteremo in rete appena possibile qualche approfondimento su questo tema. Per ora sarebbe forse un po' prematuro e persino presuntuoso da parte nostra aggiungere qualche osservazione estemporanea alla ben ponderata scaletta tematica che Lei ci ha proposto. Possiamo intanto solo constatare che una teoria "che fonda marketing e critica" Lei la sta già cominciando ad elaborare a partire da ottimi argomenti. Se ogni "agente-senziente" è per definizione in grado sia di "istituire" qualcosa di nuovo, sia di "recepire" dati ambientali e bisogni altrui, non si vede perché, in linea di principio, una teoria del marketing non possa aspirare alle medesime condizioni di base, senza cioè ridursi ad un solo aspetto del problema (ovvero - come Lei giustamente sottolinea - limitarsi a ripetere il ritornello "dare al mercato ciò che desidera"). Certo, quando si parla di "qualità", o addirittura di "qualità assoluta", c'è sempre il rischio della nominalizzazione in agguato. Ma si tratta di un rischio che dobbiamo comunque correre, perché altro è cadere in quella che gli studiosi della «scuola di Palo Alto» hanno definito "sindrome da utopia", altro è considerare criticamente necessaria una qualche "utopia regolativa" per darsi motivazioni sufficientemente forti e credibili. Del resto, la nostra rivista è appunto nata sotto il segno di una sfida di questo tipo. Aspettiamo dunque altri contributi su questo tema dai lettori. Un cordiale saluto Un «Quaderno di critica d'arte»... Vi segnalo il mio 'Quaderno di critica d'arte': Nel quaderno raccolgo, mese per mese, anche i capitoli del mio libro inedito Prìncipi dell'esilio, dedicato a tutto ciò che forse è stato sottovalutato o dimenticato. Complimenti per la vostra importante presenza nel Web. Giorgio Guarnieri Assillato da un dilemma: assegnazione o attribuzione? l'arte mi ha sempre interessato sia dal punto di vista culturale che professionale. Sono autore di alcune pubblicazioni d'arte fra cui "La Gerarchia angelica nell'iconografica pittorica sacra in Sicilia", ed. Lussografica - Caltanissetta, 2000. Eppure, dopo tanti anni di studi e ricerche, sono assillato da un enigma circa il criterio di attribuzione di un'opera d'arte non firmata e della quale non esiste alcuna documentazione d'archivio ad un determinato artista. In poche parole: si può assegnare con certezza una pittura o una scultura antica, per esempio del XV secolo, solo per intuizione personale? In casi del genere non sarebbe più opportuno formulare una attribuzione anzicché una assegnazione? Al riguardo il parere di molti, anche di esperti d'arte, è contrastante e a volte confusionale. Mi piacerebbe ricevere da voci autorevoli, storici dell'arte, critici, ecc. il loro pensiero in merito. Grazie per l'attenzione. Le ragioni critiche di una certezza impossibile È bene anzitutto chiarire che non è possibile stabilire per l'arte e le opere d'arte criteri di certezza assoluta, sia per motivi strettamente storico-critici, sia perché le stesse metodologie scientifiche, ovviamente, non consentono l'approdo a verità definitive. Inoltre, la storia dell'arte non si limita ad analizzare la singola opera d'arte e, secondo considerazioni di ordine meramente formale, attribuirla al tale artista o scuola. Lo studio delle opere d'arte parte sempre dal contesto culturale che le esprime, dalla situazione storica, dalla società nella quale nascono. Sono quindi di grande aiuto discipline quali l'iconologia, che studia il senso e il significato delle immagini, ovvero i contenuti di cui esse sono portatrici. La Primavera o la nascita di Venere di Botticelli risulterebbero sicuramente impoverite se non le relazionassimo all'ambiente neoplatonico fiorentino nel quale nacquero, così come perderemmo la forza eversiva delle mitologie dell'ultimo Tiziano per Filippo II se ci limitassimo a una lettura esclusivamente formale. Pertanto, è bene distinguere tra pratica dell'expertise - più vicina al mercato antiquario - e storia dell'arte. Solo con l'ausilio di più strumenti critici è possibile avvicinarsi a un'opera. È ovvio poi che, se riguardo a un'opera esiste una ricca documentazione - le famose fonti - è facile stabilirne la paternità, come abitualmente accade. Se invece mancano i documenti, grazie a questa impostazione metodologica, è possibile inserirle comunque in un contesto culturale. Lo studio si arricchirà in ogni caso, perché è importante sottolineare che l'attribuzione o l'assegnazione di un'opera non deve essere il fine ultimo nell'analisi critica, ma solo un tassello che può contribuire a una maggiore conoscenza della cultura che la esprime. Alessandra Cigala Come interpretate la figura di «McLu»?
IL MEZZO E' IL MESSAGGIO! Non c'è contenuto che non sia influenzato dalle forme con le quali viene confezionato. Avete mai sentito parlare del principio di Heisemberg? «La presenza dell'osservatore influenza il fenomeno da misurare». Pensiamo ad esempio al «Grande Fratello». Questo "contenuto" viene divulgato attraverso la TV e Internet, media freddi che richiedono la partecipazione di un pubblico caldo che deve colmare gli spazi vuoti, che si identifica con i protagonisti e che telefona per modificare l'esito del gioco. Il GF è nato come "strumento di misura" in grado di testare la società e in particolare il mondo dei giovani; tuttavia la presenza delle telecamere altera il "fenomeno" fornendo "informazioni" artefatte e non spontanee. Con l'arrivo del GF in Italia si è discusso molto della grande rivoluzione determinata dalla TV verità. Ma come ha affermato Popper in Cattiva Maestra Televisione, la TV verità non esiste e ciò che è emerso realmente non è stato l'occhio oggettivo e vigile della TV, ma il SUO Punto di Vista. Quindi la "comunità" che si è formata all'interno di questa "casa di vetro" ha messo in mostra il suo aspetto più falso, quello costruito per l'occasione. In effetti i media, così come aveva già affermato Mclu con il suo slogan, tendono a presentare una realtà mediata, essi hanno la possibilità di creare eventi o pseudoeventi. Al capitolo "Giornali" si afferma: «...i moderni ghost writers, le telescriventi e i servizi d'agenzia creano un mondo inconsistente di pseudoavvenimenti [...] Oggi i capi di uffici guardano il giornale come il pittore guarda la sua tavolozza e i suoi tubetti di pigmento; dalle infinite risorse degli avvenimenti a disposizione si può trarre una varietà infinita di controllati effetti a mosaico». Chissà, però, se quest'ultimo principio sia valso anche per la stesura degli «Strumenti». Più volte mi sono persa tra le pagine di questa "bibbia massmediologica" andando alla ricerca di un inizio tra una miriade di affermazioni, a mio avviso bizzarre (basta pensare alla teoria delle "estensioni", al principio distintivo tra "media caldi e freddi" o addirittura alla relazione tra macchina da scrivere e telefono), e tra tante citazioni di personaggi sconosciuti come il generale David Sarnoff: perché McLu non condivide la sua affermazione considerandola «voce dell'attuale sonnambulismo». Tutto ciò a volte suscita in me l'impressione che queste stravaganti idee siano state considerate "slogan sintetici ed efficaci" più perché rappresentano l'eccezione all'interno di un panorama "omologato" di una società bloccata, che non per la loro effettiva consistenza. Quello di definire McLu "profeta" è, a mio giudizio, un espediente che ricorda l'alibi semantico di "grasso" (« grasso è un aggettivo che non piace alle persone che lo sono realmente e che pertanto tendono a farlo diventare "grosso", attraverso una degradazione vocalica: grosso ha infatti una accezione più positiva poiché implica l'idea di forza e di potenza», di G. Pontiggia) ideato dai suoi discepoli che, non riuscendo a inserire il maestro in un contesto organico da studioso, hanno cercato di offuscare il giudizio negativo di "artista" attribuitogli dagli accademici. Ho maturato questa "impressione" su questo personaggio imponente del mondo delle comunicazioni di massa dopo uno studio abbastanza approfondito, ma nonostante tutto non sento di avere "chiuso il caso" e per questo mi piacerebbe molto sapere come altri interpretano la figura di McLu e il mio stesso pensiero. Mariella Salvo La sibilla, il poeta e il profeta Wittgenstein amava uno stile "oracolare", una combinazione di domande spiazzanti e risposte sibilline. Poi, di tanto in tanto, un lampo, uno squarcio, una proposizione del tipo soggetto verbo e predicato, banale, troppo banale, per esserlo veramente. Heidegger era un poeta dell'etimologia che forzava fino a far dire alla parola ciò che la parola da se stessa non sarebbe stata capace di dire. A questo punto il linguaggio diviene evocativo, simbolico, rivelativo. Ma ogni s-velamento è anche un nascondimento. Il linguaggio di Heidegger si richiude su se stesso, il sentiero si interrompe. McLuhan prediligeva uno stile profetico ma non era un "profeta". Il suo stile è connessione, sinapsi, rinvio, sinestesia, pirotecnia della parola e del concetto. Il linguaggio oscilla in continuazione tra metaforicità e la letteralità. Se il testo wittgesteiniano resta in attesa di una risposta, e quello di Heidegger s-vela e vela al tempo stesso, quello di McLuhan resta un'opera aperta da completare, da collegare. Tuttavia ci sono anche dei punti di contatto. McLuhan scrive per associazioni tra concetti, eventi o sistemi sensoriali, Wittgenstein d'altra parte sosteneva che la filosofia è vedere connessioni, ma la ricerca etimologica non cerca propio "nuove connessioni"? Heidegger tematizza i sentieri interrotti della riflessione, né wittgestein né McLuhan erano avvezzi ad esposizioni sistematiche e definitive. In tutti e tre i casi uno stile di scrittura
estremamente originale, riflette un modo di
procedere del pensiero. Riccardo Santilli Delimitazioni territoriali? Ogni operazione estetica comporta una produzione di forme, anche nel caso degli orientamenti aleatori o concettuali. Il punto è: nel momento in cui si dà credito solo ad alcune opere, si attua una selezione in un universo di proposte; nascendo tale selezione da un assunto critico, come è possibile omogeneizzare i diversi criteri di giudizio che opere diversissime rivendicano? Non s'impone forse una delimitazione territoriale? Ad esempio, la pittura è un campo di opzioni sì multiformi, ma pur sempre limitate dal mezzo e dal supporto. Non è a ciò che viene risolto attraverso mezzi pittorici, che dovremmo guardare per giudicare un quadro e non alle intenzioni e ai proclami dell'artista? Stefano Iatosti Rischiamo forse la pigrizia percettiva? Trovo la vostra iniziativa importante per cercare di risolvere un pò di problemi e tanti perchè. Sono delle brevi domande-riflessioni, nate durante alcune letture fatte da un designer, fra poco architetto, ma appassionatissimo alle connessioni delle tematiche filosofiche con l'architettura. Questultima intesa come serbatoio permanente delle metafore del linguaggio filosofico, ma anche intesa come pura relazione delluomo con il mondo che lo circonda (seconda pelle, con tutte le implicazioni che vi si innescano). E possibile che una continua esposizione ai nuovi messaggi di una comunicazione pervasiva a tutti i livelli ci porti ad una possibile condizione di sparizione-allontanamento, ossia a vivere una situazione che, parafrasando Philip K. Dick, ci renda sospesi, in balia di correnti di ragionamento anche fuori dalla realtà? La velocità alla quale siamo es-posti (trasformazioni culturali e tecnologiche ) può de-realizzare la nostra dimensione al punto che chi controlla i mezzi di comunicazione ha, sì, un potere, ma anch'esso instabile e frammentario come la realtà che ha creato per definirsi? Si può allora definire la nostra epoca come il tempo della persistenza retinica? Laccidente, inteso come istante dellesperienza, sta forse prevalendo sulla contemplazione possibile? Se loggetto è abbandonato per una sua immagine virtuale, allora losservazione è mediata e contribuisce ad un pericolosissimo non lavoro o meglio ad una pigrizia percettiva che è privata del contatto materiale? Il tanto declamato nomadismo inteso come fonte di ricchezza e confronto di civiltà, non si risolverà forse in un incontro indifferente tra individui dallaspetto simile alle figure umane dipinte da Munch: sagome esili, scure, dalla faccia pallida o verdastra, con occhi a spillo inespressivi e immobili. E il flusso di gente che scorreva oltre la vetrina del caffè, nel racconto di Edgar Allan Poe - in luomo della folla - non aveva forse già in sé lembrione dellurto indifferente che nasconde al proprio interno il limite o la stessa fine delle relazioni sociali in una città. Gli shock descritti da Walter Benjamin in Baudelaire e Parigi, possono allora essere intesi come preludio allindifferenza e ad una sorta di pigrizia nell'appropriarsi della realtà, ovvero un rifiuto della dimensione che si vive proprio nelle nostre brulicanti città, tanto conformi quanto manifestatamente mute? Vi ringrazio dellattenzione e delle vostre eventuali risposte. Paolo Marzano L'esperimento «Videonet» Ciao a tutti gli amici di LaCritica, volevo comunicarvi che l'esperimento Videonet è concluso. In questi tre mesi più utenti hanno partecipato attivamente al progetto, creando dei frames per il video. In sintesi hanno scaricato una particolare immagine dal sito www.esperimentovideonet.com, modificandola a proprio piacimento e rispedendola al sito di partenza. Tutti i frames ricevuti sono stati impiegati per realizzare Videonet che potete vedere e scaricare dal sito http://www.esperimentovideonet.com, libero da ogni diritto d'autore. ciao a presto «Qualcosa di pubblico e di operativo» Ciao Enrico, rispondo in forma di lettera a quanto hai pubblicato perché scrivo a caldo e, principalmente, senza rivedere i contenuti. Se dovesse scapparmi qualche citazione selvaggia e non controllata vorrai perdonarmi. Sono naturalmente completamente d’accordo con te con qualche piccolo scarto di punto di vista che forse può essere utile approfondire. Chiaro che il contributo non sarà articolato ma risponderà a una logica impressionista di stimolo – risposta. Cominciamo: cominciamo col lasciare fuori da ogni discorso sensato i giornalisti. Vivono in una logica altra completamente formalizzata e autoreferenziale della rappresentazione del mondo, quasi una catena che non offre alternative (sintesi oggettiva del fatto, commento, valutazione delle conseguenze, possibili antecedenti storici, commento degli esperti o dei politici). Il tutto sotto la protezione di due divinità oracolari, ANSA e CNN, su cui fonda tutto il ragionamento. Persino linguaggi formalizzati come la matematica sono meno claustrofobici e hanno qualche possibilità in più di descrivere la realtà. Parce sepultos, quindi. E` bella comunque l’immagine dell’analogico fatto di atomi grassi e pesanti, sudato, nutrito in maniera disordinata da McDonald’s , rappresentante di una subcultura, tuta di vinile modello albanese, volgare e quindi condannato in eterno a trasportare il faccione di Mara Venier contrapposta all’immagine di un digitale snello, leggermente lampadato, modello di fitness, giacca blu, cravattone giallo e passo elastico nelle scarpe arancioni squadrate su progetto di geometra. Te lo immagini proprio, il digitale dico, che colla sua Smart passa nelle corsie preferenziali degli autobus e arriva prima (Alice, Fastweb e il seducente Hic Sunt Leones dell’UMTS…). Bello, ma sappiamo tutti che non è così. A proposito di rappresentabilità del mondo, così leviamo l’argomento di torno, direi che il percorso didattico (almeno per quello che riguarda l’Occidente) può prevedere Gorgia, Cartesio, (solo per me) Hobbes e poi arriviamo al bivio tra Wittgenstein e Heidegger. Qui ognuno si sceglie la sua via. Il condimento a piacere. C’è comunque qualcosa di vero nell’arrivare prima come attitudine del digitale. Ma è vero esattamente nel senso contrario di quello che ci viene proposto. Digitare svelto, presti digitare, presuppone una manualità, con frequentazione dei manuali, che rimanda comunque ad una resistenza del materiale che, aggiornata, non è concettualmente lontana dal pestarsi le dita con mazza e scalpello sul marmo. In fondo il lavoro di Man Ray ci dice questo. La differenza semmai è nel fatto che una volta appresa la tecnica della serigrafia o della litografia, l’hai appresa più o meno per sempre. I software invece vengono aggiornati di continuo senza darti il tempo di esplorarli completamente. Lo scarto più significativo rispetto al rapporto con le tecnologie è che all’epoca di Klein l’immersione era possibile, così come in tutte le pratiche performative (che come sai sono e saranno il mio vissuto); oggi è impensabile un’opera che non presupponga l’immersività a qualsiasi titolo o mezzo perseguita. Senza scomodare la storia delle pratiche sinestetiche o Pignotti basti pensare a come è organizzato oggi l’impianto audio di una buona sala cinematografica. Sono geneticamente schierato con te: bisogna riconsiderare i sensi, magari ripercorrendo al contrario il percorso cartesiano, e le possibilità di esperire la realtà come punto nodale, come centro da cui ri-flettere, flettere nuovamente il materiale sensibile che ci viene offerto. Non interessa che sia chimico, elettrico o di sintesi; mi interessa che sia comunque materiale e che produca un impatto (programmabile) sui sensi.Qui però si apre un fronte cruciale: la progettazione di un atto performativo o di una qualsiasi sollecitazione sensoriale di uno spettatore o anche solo di un atto comunicativo presuppone una rappresentazione del mondo che fonda un punto di vista. Questo è un atto che, non c’è via di fuga, presuppone una assunzione di responsabilità etica in particolare in una epoca di pervasività dei mezzi e nel particolare momento storico, non ultima la guerra in Iraq. A meno che non ci si rifugi in una metafisica dell’arte. Mi piacerebbe riprendere la discussione su quanto detto con quelli della mia generazione, che questi problemi se li sono già posti, e con le nuove generazioni magari arrivando anche a qualcosa di pubblico e di operativo. Credo che sia il caso di fare qualcosa prima che Bonito Oliva o Maurizio Costanzo dichiarino Bruno Vespa il più grande artista italiano vivente. Un abbraccio Luigi Ciorciolini Sono forse troppo ottimista? Ciao Luigi, il mio testo voleva essere solo un modesto tentativo di comprendere l’intera casistica delle arti all’interno della categoria dell’impronta. Una categoria che può risultare fin troppo vasta e onnicomprensiva. Me ne rendo conto. Si può arrivare, ad esempio, al punto limite di includere nel campo teorico del “fotografico” anche l’abbronzatura estiva del rag. Fantozzi, dato che indubbiamente la pelle può essere considerata una sorta di pellicola sensibile alla luce. Ma bisogna tener presente che questo tentativo di comprensione può avvenire a sua volta con l’uso creativo di certi strumenti che, per così dire, sono fatti della stessa sostanza del referente indagato: alludo in primo luogo alla scrittura, nonché alle sue ulteriori estensioni tecnologiche (fotografia, video, immagine digitale ecc.). Tra l’altro, per quanto mi riguarda, non escludo affatto la possibilità di far ricorso direttamente alla “scrittura fotografica” per proseguire questo tipo di analisi. "Performativo", in questo senso, per me è già anche l’atto critico di chi intraprende una simile ricerca che non può certo limitarsi solo all'aspetto teorico. Spero che il mio approccio per così dire “materialista” alla comunicazione digitale non venga preso per un ritorno ad una specie di determinismo meccanico: quando parlo di contiguità fisica non intendo certo riportare la comunicazione ad una causalità lineare tipo “stimolo-risposta”, come se lo squillo del telefonino comportasse automaticamente una forza fisica capace di obbligarmi a rispondere alla chiamata. Ritengo che perfino nel caso degli automatismi psichici freudiani, insomma, siamo pur sempre noi, con la nostra personale “energia” – capace di vincere o meno una eventuale inerzia primaverile (o magari una incipiente pigrizia senile) – ad alzare il braccio e a premere il pulsante. Ma il dato di fatto da cui partire è che la suoneria del cellulare deve prima connettersi fisicamente col mio nervo acustico affinchè io possa interpretare quel suono come indice di un "messaggio in arrivo" o prendere una qualche decisione in merito. Sarà una banalità, ma un designer che dimentichi questo aspetto concreto non vedo come possa progettare sensatamente anche una cosiddetta “interfaccia virtuale”. Prendiamo il caso più macroscopico di “impronta”, quello con cui in genere si trova a che fare lo storico dell’arte: per quanto Heidegger, in un suo famoso testo sull’argomento, si preoccupi di sottolineare che lo Stoss, ovvero l’Urto che la grande opera d’arte sembra in grado di provocare ad ampio raggio, non consista nel produrre effetti pratici quantificabili, dobbiamo ammettere che un urto incapace, per così dire, di lasciare concretamente il segno da qualche parte sarebbe come minimo un urto “mancato” o del quale nessuno sarebbe in grado di accorgersi. La storia dell’arte è fatta bensì di opere che hanno avuto una qualche incidenza effettiva – e come tale documentabile – nella “cultura materiale” del proprio momento storico. Talvolta, come sappiamo, tale influenza può addirittura continuare a verificarsi, seppure con alterne vicende di “fortuna critica”, per un lungo periodo di tempo. La tua preoccupazione dunque, caro Luigi, circa la possibilità che qualcuno dichiari “artistico” un programma televisivo molto seguito dal pubblico, potrebbe certo avere un sua ragionevole fondatezza. Tuttavia ritengo poco probabile che un dibattito televisivo sul “sonoro fatto del giorno” possa lasciare impronte significative e durature nell’intero “palinsesto” culturale del nostro tempo. Sono forse troppo ottimista? A presto Enrico Cocuccioni «Troppo vicino e troppo lontano» Ciao Enrico, riprendo ancora il filo di ragionamento con te sperando che il dialogo possa servire da stimolo e quindi si allarghi ad altri. Come al solito il rigore del tuo ragionamento mette in crisi l’affastellamento di pensieri che mi distingue. Per altro mi sono reso conto di aver saltato nella foga dello scrivere il passaggio che mi stava più a cuore. Dislessia? Età e stanchezza? Comunque lo riprendo adesso sperando di riuscire a chiarirmi. Quando parlavo dei giornalisti non volevo essere critico oltre misura o inutilmente. Intendevo che in tutte le reti di tutto il mondo si sono avute solo due modalità comunicative: l’inviato sul posto che mi faceva vedere la bomba cadere in diretta ma poi, per limiti oggettivi, non poteva dirmi altro e lo studio che non riusciva a contenere la comunicazione al punto che tutta la scenografia veniva occupata da una carta geografica che andava da Israele al Pakistan. Troppo vicino o troppo lontano. Rispetto a questo avvenimento la modalità della comunicazione, per limiti oggettivi, mi ha lasciato un senso di vuoto. Ora il problema non è evidentemente quello di un “linguaggio“ che non lascia impronte ma quello di tutti gli altri linguaggi compreso quello dell’arte, che per definizione cerca di lasciare tracce, che non si sentono motivati a ragionare sulla guerra. E non vorrei che a parlarne fossero solo i critici, che per definizione devono mantenere la “distanza critica”, ma anche chi fa, comunque abbia piacere definirsi, che nell’opera è immerso e coinvolto in modalità che critica e pubblico non potranno mai vivere. Vorrei veramente sentire cosa ne pensano tutti coloro con cui abbiamo condiviso lunghe passeggiate e ragionamenti a cuore aperto e vorrei sapere cosa ne pensano i più giovani. E vorrei verificare se davvero la modalità che non lascia traccia è la migliore per confrontarsi con la guerra e se devo restare sempre in bilico tra un troppo vicino e un troppo lontano. Un abbraccio Luigi Ciorciolini Polemos: Guerra. E gli altri linguaggi? Ciao Luigi, a questo punto il significato del tuo "appello" mi sembra molto chiaro, anche se il problema che poni richiama qui fatalmente in causa la severa sentenza del noto frammento di Eraclito: «Polemos è di tutte le cose padre, di tutte re, e gli uni rivela dei e gli altri uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi». Si tratta allora per noi di comprendere se esistono oggi alternative praticabili non soltanto alla "guerra in sé" — visto che comunque questa realtà continua ad esserci — ma anche in termini di possibilità comunicative diverse da ricercarsi nei linguaggi che la "parlano", o meglio la interpretano, la giustificano, la promuovono o la raccontano in questo o quel modo. In fondo la guerra è già di per sé anche una drammatica messa in scena della distruttività umana e della potenza tecnologica, ma pure chi non è direttamente coinvolto negli eventi bellici non può non sentirsi toccato, in qualche modo, dai devastanti effetti sistemici che si prolungano necessariamente fino alla dimensione (solo in apparenza neutrale, ininfluente e quindi "inoffensiva") di quello sguardo mediatico patinato che raddoppia l'immagine di tali eventi — o meglio ne "inquadra" solo certi aspetti e non altri — e ne diffonde la rappresentazione in diretta televisiva su scala planetaria. Tale scenario, dunque, può definirsi anche oggi come un conflitto mondiale in atto, sia pure con un evidente slittamento di senso rispetto alla definizione storica di quanto è accaduto nella prima metà del secolo scorso. Mi aspetto allora che sul piano operativo il tuo intervento in questo forum si traduca presto nella messa a punto di un incontro (penso che tu abbia in mente qualcosa come un brainstorming) aperto a tutti coloro che sono interessati a confrontarsi proprio su questo tema da te suggerito: «Troppo vicino e troppo lontano. Gli altri linguaggi e la guerra». A presto Enrico Cocuccioni dir(s)te
vigencia - vergine distancia (appunti per una poetica
della distanza)
La poetica della distanza è l'arte dell'indiretto applicata a tutto: a tutti gli aspetti della vita e a tutte le forme d'arte. E' un esperimento lungo: un buon genere - longitudinale - di esercizio etico: dura tutta la vita e permea tutti gli aspetti di essa; dura tutta la vita del mondo e ne permea tutti gli aspetti. E' una forma di educazione - autoeducazione - al non-toccare direttamente, al non-intervenire direttamente, al non-parlare direttamente, al prendere-le-distanze per puntare su una vicinanza di qualità, prossimità-di-cuori (distanza intima, se si vuole). Influenza la politica, le leggi di mercato, i rapporti amorosi di tutti i generi, i linguaggi, le arti. Si ferma sulla soglia del dicibile e NON dice - non direttamente: gira intorno. E' l'arte della sottr-azione lungimirante laddove viene provocato lo sterile (e miope) esercizio della presenza che è esercizio dell'azione dialettica - di opposti che si fronteggiano. Per "esercitare" la poetica della distanza, si abiti l'arte a vene aperte, si viva in-levare facendo cadere (tenendola sospesa) la "nota" più in là; si viva con tutti i sensi (compresi quelli dell'anima) all'erta e si arrivi stanchi e pieni alla fine di una giornata; si "sogni forte" tutta notte tutte le notti. Si ami incondizionatamente senza voler-possedere: oggetti, soggetti. Li si contempli, li si adori, li si descriva (a tutti e a loro stessi) minuziosamente come a un cieco, li si tocchi come un cieco tocca le cose - come unica forma di conoscenza. Azione solo come forma di adorazione-conoscenza. E se un oggetto o un soggetto "ci chiama", essere pronti ad agire-adorando-descrivendo: non si possiede se non essendo posseduti dall'oggetto-desiderante-adorato. E laddove "desideriamo" (un oggetto, un soggetto) aspettiamo che questo ci rivolga anche un solo sguardo di "chiamata" prima di iniziare l'azione adorante (sorvegliarsi mentre si passa all'azione). Si ami tutto, incondizionatamente, cioè senza "interesse" ed esercizio di potere, per conoscere se stessi, per riappropriarsi di sè - del mondo. La conoscenza è questa straordinaria condanna ad amare tutto. Senza amore non c'è vera conoscenza. Su questo, e sull'impossibilità a raggiungere quella conoscenza-amore, tante barche si sono spezzate (come dice quel poeta) e tante, a ritmi vertiginosi - esponenziali - si spezzano ancora. Sapete amare la mappa di un punto del mondo come qualcosa che ha da farvi un lungo racconto su voi stessi? Sapete farvi accendere i pensieri dalla mappa di un punto del mondo come qualcosa che interroga su come risolvere il monopolio o la speculazione sui canali di comunicazione? Sapete percepire tutti i ponti (più o meno splendidi) che in una giornata si costruiscono e si disintegrano (tempo di vita: la durata di una telefonata a una persona cara) sopra oceani tra un continente e l'altro? Sapete immaginarli e adorarli? Riuscite a sentire il palpito di tutti i cuori spaventati per una guerra, per ogni genere di violenza; palpito di cuori che ruggiscono per le ingiustizie e le prevaricazioni? Sapete sentire i lamenti di morte e di disperazione di chi non ha, invece, la forza di ruggire? Ne venite tramortiti ogni giorno? Sapete ogni giorno riprendervi perchè avete speranza sulle sorti del mondo? Sapete amare le sorti dell'essere umano al punto di voler denunciare l'Effimero su cui si reggono i sistemi economici che ricattano il mondo intero con le loro leggi che dichiarano - sedicenti - inalienabili, incontrovertibili, categoriche? Sapete voler rompere il gioco? Sapete volerlo fare con la poetica della distanza? Sapete tenere un discorso no-stop aprendo tutte le parentesi che il discorso stesso apre: un discorso implosivo e percio' stesso esplosivo? Sapete resistere alla tentazione di dare ordine al discorso? Sapete sottrarvi dall'esercitare potere con il discorso? Sapete amare le città come corpi da toccare, accarezzare fino in profondità? Sapete destinare loro soltanto gesti di forza adorante, solo dopo che con tutte le loro evocazioni si abbandonano a voi? Sapete rimanere estasiati e immobili (solo fuori) osservando un bimbo che, giocando a palla, si accorge per la prima volta della sua ombra e in silenziosa concentrazione inizia una strana danza di "studio" che dura quarti d'ora? Sapete voler riproporre, a tutti, all'infinito, una simile estasi? ... Poetica della distanza per ridurre le distanze. E' distanza dall'azione prevaricante e violenta, ottusa, sbrigativa e arrogante, ricattatoria e castrante. Distanza dal voler possedere a tutti i costi...Distanza dal giudizio e dall'affermazione acerrima e conclusiva. Vicinanza, sì, e prossimità con il vibrare degli esseri e delle cose. Vibrare che è bellezza, anyway. La qualità e lo spessore dei rapporti paga sempre, conviene investirci: il tempo del cuore trascorso in conversazioni, corrispondenze, adorazioni, approfondimenti, studi, coinvolgimenti, ansie e ardori sorvegliati, passioni consapevoli,... senza il ricatto della velocità-denaro; è pratica della poetica della distanza. Poetica, materiale e tecnica dell'arte della distanza. Sapete amare l'integrità necessaria a ciascuno di noi per entrare nel mondo? Sapete entrare nel mondo coinvolgendovi fino in fondo - con-fondendovi col mondo e ... conservare e difendere la vostra integrità? Scendere negli abissi delle cose e delle persone, con le cose e le persone, e risalire tutti (cose e persone) vergini alla superficie, lo sapete? Ponte 0.1 teru-teru Tropicalismos L'Europa si è ammalata di tropicalismo. Finalmente. Laddove nulla hanno potuto nel corso dei secoli i ciclici e continui flussi migratori e il turismo esotico-di-massa; prodotti culturali importati, imposti e impostisi; programmi ministeriali antirazzisti e multiculturalisti; la rivoluzione climatica di inizio millennio, in un'estate, potè. Si tratta della più virulenta, castratoria (nel senso che per fortuna ci rende impotenti) e inarrestabile malattia che abbia mai unito a tal punto l'Europa. Uno speciale tipo di morbo che attacca tutto l'Occidente metonimico consacrato al profitto. Una sorta di tacito, fattivo e ineluttabile "koan" che alita su questa paradisiaca regione del mondo con una domanda inchiodante: come muta in un paese sviluppato (quello europeo tutto, beninteso) il coefficiente di produzione di tutti i settori sotto la morsa di questo impertinente clima tropicale? In attesa che la risposta si manifesti chissà dove come e quando, i flussi di vita inarrestabili, con tutta la loro gamma di manifestazioni, realizzazioni, articolazioni giocate su tutta la loro scala di intensità, vengono fissati via via - proprio nel loro atto di fluire - in un ridotto florilegio - "cose tropicali", appunto - senza altro criterio di scelta che la disponibilità del loro accadere. La critica e la lingua Sacrosanta è la lingua semplice *. Lo è per ogni tipo di prosa. Frasi brevi, parole piane sono adatte ad esprimere qualsiasi pensiero, per complesso che sia. In particolare, la chiarezza è tassativa per la critica, la cui ragion d’essere è di far luce e non di offuscare. Se l’argomento è difficile, lo si articola in segmenti facili, come dal precetto di Cartesio. Modulato così, gli si dà il chiaro-scuro d’esempi e, parimenti, d’immagini, onorando così la tradizione occidentale, evocata da Massimo Cacciari nell’intervista di Caterina Falomo, pubblicata su La Critica. Certo, scrivere chiaro stanca. Ma è il prezzo da pagare per non affaticare il lettore ed evitare che accenda la TV anche più spesso d’oggi. Sicuro, la prosa piana non giova alle teorie scalcinate, alle argomentazioni furbesche, o alla statistica senza numeri, per non parlar dell’aria fritta. Da pittore** ritengo che il procedimento di produzione dell’opera d’arte consista appunto nella distillazione del complesso in forme elementari, le quali suggeriscono, a chi guarda, quello che c’era a monte dell’opera. La parte esecutiva è la più semplice, secondo il detto cinese “Quando c’è l’idea, occorre poco pennello”. Quando c’è l’idea non occorrono tante parole e, soprattutto, paroloni. Auguri per il vostro lavoro. Molte sono le sfide, a parte quella istituzionale di separare i fiori dalle ortiche. Temi d’estetica si collegano alla cultura generale ed alla sociologia, al mercato, ad architettura ed arredo, alla diffusione mediante il web, e così via. Dunque, buona fortuna. Cordialmente Vittorio Masoni * Sulla diffusione della lingua funzionale in Italia ho scritto
“Scrivere chiaro” e “Imparare a scrivere”, pubblicati
dall’Editore Franco Angeli (Milano) in varie edizioni dal 1972
in poi. La Tempesta di Giorgione Ho visto la tempesta di Giorgione a Venezia. Osservato
a lungo, ho scoperto non un dipinto ma quasi un romanzo avvincente ed
erotico. Perchè il bambino non è in grembo alla mamma
ma seduto a terra? Perchè la donna ci guarda distraendoci, cosa
vuole nasconderci? Pechè la donna è nuda tranne le spalle?
Perchè la donna stupenda morbida calda indica il giovane? Potrei
continuare ma non potendo mi fermo convintissima che Giorgione abbia
assistito a questa TENTAZIONE, infatti la donna guarda l'artista. Cordialmente Televisione, magico cubo di Rubik Gli ultimi accadimenti mondiali che ci pervengono dai mezzi di comunicazione, ci offrono quello che per la maggior parte della storia, questi sistemi emittenti, hanno offerto; il meglio di una morte continua e di un lutto dilazionato. Una mancata cultura del vedere e delle immagini, con il loro funzionamento mentale e psicologico, producono disastri incommensurabili. Nell’intricato e complesso mondo dell’interpretazione e delle relazioni della realtà di ognuno di noi, queste immagini kamicaze, trovano il loro ambito elettivo. La carica empatica, unico valore ‘umano’ da difendere, di cui nessuno parla perché affrontare questo discorso vorrebbe dire diminuire il 90% dei palinsesti televisivi (carichi di violenza gratuita,ma pagata a caro prezzo) viene sottointeso e indifferentemente disatteso. Cosa succede allora? Il potere di un centro oculare che scandaglia il video (abituati ormai a saggiare il centro del ridondante quadrato dello schermo) prepara scene da vivere a distanza azzerandone l’esperienza diretta, questo ne sensibilizza la carica empatica conseguente al fatto di non usare gli altri sensi ‘diretti’, per cui la visione diventa prova e realtà data, collegata direttamente alla mente. Ormai troppe telecamere indugiano sulla miseria umana, oltrepassando limiti televisivi invalicabili per ovvie ed elementari regole di mercato contro il rispetto per l’individuo. Immagini deplorevoli inanellate da montaggi e sequenze per cui la tragedia umana ‘rimbalza’ da inquadratura ad inquadratura, fagocitando gli indici di ascolto, in un circolo perverso che porterà la tragedia ad aumentare il suo orrorifico messaggio per essere così fascinosamente ammirata in diretta o in perenne replica e amplificandone così l’onda l’urto emozionale. Abbiamo attualizzato concetti che J.Baudrillard, K.Popper, P.Virilio, O. Stone, P. Lévy, ma anche W.Benjamin, e tanti altri hanno profetizzato come osservatori dell’evoluzione della comunicazione. Purtroppo la situazione generale non è delle più favorevoli in quanto, non conoscendo o non volendo approfondire argomenti percettivi e relazionali umani, la televisione si ritrova come un oggetto di cui non conosciamo le importanti possibilità; qualcuno dice che è come avere la lampada di Aladino, oppure come il monolite di 2001 Odissea nello spazio; a me piace pensare più all’esempio della scimmia a cui è stato dato il cubo di Rubik. Nell’indecisione, e siccome la posta in gioco è altissima intanto (indaghiamo cos’è nascosto dietro la parola empatia) per “sopravvivere, LEGGIAMO”, certo alla nostra velocità e soprattutto con la nostra immaginazione. Paolo Marzano Brera non è mai stata così cinica Gentile Direttore, Il quartiere di Brera era noto in tutto il mondo perchè ospitava giovani artisti senza una lira, nei solai, nelle cantine e anche nei bar e nei ristoranti, dove i proprietari offrivano generosamente bevute e pasti in cambio-quadri. Oggi se un giovane artista fa una simile proposta di baratto, viene deriso, sbeffeggiato e invitato a pagare in contanti. Se non li ha, si guardi bene dal frequentare i locali. Il quartiere di Brera, con l'assalto dei nuovi barbari, cioè di coloro per i quali conta solo il profitto ed il tornaconto, si è trasformato in un volgare mercato dove si rispetta solo il denaro. Una volta si respirava l'arte ovunque. Oggi, la musica, la poesia, la pittura sono merce sconosciuta; dal momento che non rendono la si tiene alla larga, addirittura la si osteggia e la si combatte. Dove sono andati a finire i tempi della Breara ospitale, simpatica e sopratutto umana? Tutti gli artisti ricordano con nostalgia e affetto due esempi storici di quella Brera civilissima: il ristorante delle pie Sorelle Pirovini e il bar Giamaica della generosa Mamma Lina. Purtroppo aveva ragione il pittore Piero Manzoni, vissuto e morto a Brera, il quale spesso mi ripeteva: "Con certa gente non vale creare opere d'arte, ma solo e soltanto "scatolette di merda". Grato per lo spazio e il tempo concessomi, cordialmente, Baritono Giuseppe Zecchillo Non solo il calcio, anche il sistema dell'arte è da riformare Il recente scandalo nel mondo del calcio offre l'occasione per una riflessione su altri sistemi "malati" della nostra società. Meccanismi analoghi sono ad esempio riscontrabili nell'attuale sistema dell'arte contemporanea. Da tempo si sa - ma quasi nessuno ne parla - che pochi gruppi di potere, spesso incompetenti e senza alcun titolo se non quello del denaro, decidono ormai cosa sia arte e cosa no. Rete di distribuzione di questo processo sono le cosiddette Grandi gallerie, Fondazioni ecc. Viene così spacciata per arte una produzione spesso priva di vera ricerca e contenuti (oggetti di plastica, installazioni solo per ricchi collezionisti ecc.) in un processo di mercificazione che va a discapito dei veri contenuti dell'arte e del pubblico. Collezionisti, gallerie ed artisti diventano vittime, forzatamente consenzienti, di un processo di falsificazione e mistificazione culturale e mediatica. Indipendentemente da profondità di messaggi e ricerca, oggi diventa arte ciò che fa scandalo o che rientra nelle linee dettate dall'alto.Vengono sponsorizzati artisti e linee di produzione spesso uniformi, prive di vera innovazione e di contenuti, le cui opere vengono vendute a volte a prezzi superiori a quelle dei grandi maestri storici. Gli artisti, i pochi critici d'arte e gallerie che non si adeguano, rimangono fuori dal grande mercato. Penso che le istituzioni pubbliche, siano le uniche a poter intervenire per sottrarre almeno in parte al privato il monopolio del mercato e tentare di risanare il degrado sopra descritto. Come? Ad esempio, istituendo commissione di esperti che, valutando con trasparenza, competenza e serietà il patrimonio artistico contemporaneo del territorio, selezionino gli artisti davvero meritevoli offrendo loro occasioni e promozioni di livello. Si potrebbero creare fiere e spazi espositivi di valenza internazionale, nuovi artisti e tendenze da proporre al pubblico in alternativa a quelle monopolizzate da gruppi e gallerie private. Potrebbe essere l'inizio di un nuovo processo di valorizzaione dell'arte vera. Angelo Mazzoleni, artista [Copertina] [Sommario] [Archivio] [Colophon] [Corrispondenza @] |