Non è sempre necessario che accada qualcosa. A volte basta cambiare prospettiva per dischiudere una nuova visione delle cose. Ma sappiamo che proprio la cosiddetta “prospettiva” è in qualche modo una pura illusione ottica, benché fondata sulle presunte certezze matematiche di una scienza della rappresentazione. La prospettiva è infatti una visione artificiale ottenuta immobilizzando l’occhio dell’osservatore, costringendolo con ingegnosi espedienti a scorgere una profondità reale dove c’e solo, per così dire, una tavoletta dipinta, proprio come nella celebre dimostrazione pubblica brunelleschiana evocata nei libri di storia dell’arte. Si è discusso a lungo sulla correttezza degli argomenti con cui Panofsky, nel suo fortunato saggio del 1927, ha sostenuto la tesi della “Prospettiva come forma simbolica”. Anche la più puntuale confutazione “geometrica”, però, non può eludere il problema di fondo: la fisiologia della visione umana non basta a spiegare il valore simbolico “inaugurale e fondante” che la scoperta delle leggi prospettiche ha avuto non solo nella cultura rinascimentale bensì nel costituirsi di quella stessa visione moderna del mondo che ancora oggi persiste in varie forme, ad esempio negli attuali discorsi sul fenomeno della “globalizzazione”.
Per poter apparire così il “mondo” deve prima essere trasposto in figura con appositi strumenti tecnologici che si suppongono in grado di mostrarcelo nella sua interezza, come fosse appunto divenuto un “globo” totalmente illuminato e dunque privo di parti nascoste. Ma siamo sicuri che ciò che oggi si mostra in Google Earth sia proprio il mondo e non una semplice mappa terrestre - per quanto dettagliata - tra le tante possibili? L’arte del ‘900 lungi dall’aver messo da parte del tutto la rappresentazione prospettica ne ha persino esteso le potenzialità mimetiche con l’inclusione del movimento tra i fattori espressivi fondamentali grazie soprattutto al cinema e alle tecniche di animazione.
Così, se la prospettiva può essere rifiutata o guardata da alcuni artisti con sospetto, in quanto ritenuta una mera “illusione ottica”, agli inizi del secolo scorso con il Futurismo comincia una nuova fase che oggi potremmo in modo analogo liquidare con una battuta parlando di un’altrettanto persistente “illusione cinetica”: il cinema ha potuto indurre negli spettatori l’illusione del movimento, com’è noto, con una serie di fotogrammi “statici” (o con molti disegni realizzati a mano nel caso di un film di animazione). Per quanto ci si possa fidare dei nostri sensi - d’altronde non c’è conoscenza possibile senza questo preliminare atto di fede - bisogna constatare che questi talora risultano ingannevoli anche nella visione “dal vivo” o quando siamo alle prese con oggetti tutt’altro che statici.
Già Aristotele notò il curioso “effetto postumo” che può prodursi nell’osservare il rapido scorrere dell’acqua in una cascata. E forse non è un caso che oggi il programma informatico più diffuso nell’ambito del Motion Design, si chiami proprio “After Effects”. La struttura di questo programma è emblematica di un modalità operativa ormai consolidata: una serie di progressivi “annidamenti” a scatole cinesi dove un progetto include una o più composizioni, le quali possono comprendere molti livelli sovrapposti; ciascun livello può a sua volta contenere numerosi effetti; ogni effetto può essere regolato con un certo numero di parametri; tali parametri sono liberamente modificabili in un punto qualsiasi della linea temporale; il punto dove i valori cambiano assume quindi il significato di un “quadro chiave” (keyframe) che definisce un “evento”. La chiave, appunto, di ciò che deve accadere in quell’istante determinato.
Passando bruscamente dal dettaglio tecnico al contesto culturale, potremmo chiederci: cosa accade di rilevante nelle tendenze del Graphic Design contemporaneo? L’aspetto più appariscente è che l’estetica del movimento ha coinvolto da tempo anche la dimensione per definizione “statica” della stampa tipografica: in questi anni la grafica si è spesso trasformata in tipografia cinetica: sia in termini del tutto espliciti (nei nuovi media), sia in forma puramente allegorica e quasi “neofuturista” (nei media tradizionali, dove anche gli artefatti grafici destinati alla stampa tendono spesso a mimare il dinamismo tipico dei prodotti multimediali con l’intento palese di suscitare emozioni più che di sollecitare le facoltà cognitive del “lettore”).
Siamo verosimilmente alle prese con un ennesimo International Style privo di frontiere culturali o geografiche, dove ad esempio le grandi reti televisive mondiali finiscono tutte per adottare il medesimo linguaggio videografico. D’altronde, i telegiornali della CNN o di Al Jazeera usano lo stesso medium “espressivo”, per cui è comprensibile che sul fronte della comunicazione non verbale finiscano per inviarci messaggi molto simili. Si usano schemi collaudati di audiovisione rapida che privilegiano le modalità coreografiche in relazione al ritmo sonoro rispetto alle logiche narrative di matrice letteraria. Si predilige il frammento, la piccola “soglia paratestuale” rispetto ai grandi testi articolati e compiuti. Strategie dis-narrative, o forse metanarrative, dunque, proprio come lo sono quelle indagate nell’articolo di Martina De Fabrizio dedicato al cinema.
In ogni caso, sembra quasi che tutto ciò che intendiamo comunicare bisogna oggi esprimerlo con una serie di lampi abbaglianti e suggestivi più che con pacati argomenti logici. Si può persino raccontare una storia, magari ricorrendo a sequenze in apparenza caotiche di bagliori e rumori, purché nei rigidi limiti temporali di uno spot o di una sigla TV. Per convincersi della potenza - ma anche del grado di omologazione - di questi linguaggi veloci si possono visionare i più recenti “showreels” di Motion Graphics ( http://www.motionographer.com/ ). Così può capitare di assistere da spettatori distratti alla scena in cui il pianeta Terra esplode e si polverizza in 18 secondi. Evento speciale per un istante qualunque. Keyframe inserito dall’animatore in un punto preciso della linea del tempo. Sorta di assuefazione paradossale all'inattendibile: in realtà - forse anche a causa di questo agevole ricorso a repertori di effetti prefabbricati - non accade proprio nulla, se è vero che merita propriamente il nome di evento solo ciò che oltrepassa le nostre ordinarie capacità di previsione.
Vale comunque la pena di riflettere sui nuovi “formati videografici” e sulle relative implicazioni teoriche di questi onnipresenti schemi di audiovisone rapida - effetti postumi dell’arte digitale - con un adeguato corredo di strumenti critici, nonché formativi, che è sperabile siano altrettanto aggiornati ed efficaci, ossia all’altezza del difficile compito di analizzare o concepire “oggetti animati” sempre più mobili e sfuggenti.
Roma, 10 Marzo 2007