La Critica

Per un dizionario ri-guardante il cinema

6 voci oltre lo specchio

di Martina De Fabrizio

Il seguente lavoro su di un corpus abbastanza ampio di testi filmici non ha la pretesa di collocarsi sulla scia della tradizione dell'analisi semiotica, testuale o strutturale. L'intento è quello di lasciarsi andare al "piacere dell'analisi" [Jacques Aumont, Michel Marie, "L'analisi del film", p.279], concedersi il "lusso" della ri-flessione e della re-visione in una società in cui il gesto "normale" è quello di gettar via l'oggetto dopo averlo consumato (Barthes). A muovere l'analisi (se così può definirsi) è il desiderio di provar-si che si è in grado di "ridurre" il film, di avere una presa intellettuale su di esso, di "venirne a capo", di spiegarne il fascino. Senza mai separare il regime narrativo-discorsivo da quello propriamente visivo, il livello connotativo da quello denotativo, la forma dal contenuto, si è cercato di farli interagire e di provarne la tenuta nel loro rapporto reciproco. Un particolare contributo viene dalle riflessioni di Genette sul concetto di "focalizzazione" e dallo studio di Benveniste sulle "marche formali dell'enunciazione". Ciò che più interessa, in questa sede, è la relazione intercorrente tra "figurazione" e "rappresentazione" (Marin), tra embrayage e debrayage: tutti dispositivi che interpellano in prima istanza lo spettatore. Crediamo che il coinvolgimento del fruitore (tra desiderio di identificazione e pulsione scopica e voyeuristica) in un processo attivo di visione costituisca la fondamentale risorsa di quei film "disnarrativi, paranarrativi o metanarrativi", dotati di forte carica eversiva e ironica.

Sei voci oltre lo specchio

Sei le voci di questo mini-dizionario che, lungi dall' essere un testo esaustivo, si propone di procedere per spunti, riflessioni e suggestioni. Sei sono le voci, così come sei erano i personaggi in cerca di autore di Pirandello, in quanto l'autorialità è proprio una di quelle categorie che la nostra attuale società postmoderna scardina alla radice. L'aura benjaminiana, ancora tanto cara al decadentismo come a tutte le avanguardie storiche e artistiche, con la nascita del cinema, abbandona per sempre l'autore. "Il cinema è arte della fabbrica", scrive Abruzzese [Alberto Abruzzese, "Forme estetiche e società di massa", p. 87. Sortie d'usine] ne è la prova.

In troppi si sono interrogati sul significato ultimo del termine postmoderno, ma la realtà è che non c'è alcuna risposta da trovare, nessun punto d'approdo da fissare. Postmoderno è un concetto che, nella sua stessa etimologia, presuppone la contraddizione. "Moderno" viene dal latino "modo", ossia "ora, in quest'attimo, attualmente". Dunque successivo a qualcosa che ancora è, ma in cui non ci si riconosce più. Non ci si propone di tentare delle letture, ma soltanto di mettere in campo uno sguardo che cerchi, a tentoni, percorsi possibili. Sei voci, ma tra di loro ibride e contaminate. Molti i temi affrontati, menzionati o soltanto sfiorati e accarezzati. Una dichiarazione d'amore per le identità frantumate e dis-orientate e per il cinema che di tale frammentarietà ha fatto il suo oggetto privilegiato, introducendola fin dentro la scrittura filmica. Amore verso quel cinema che è arte dell'allucinazione paradossale. Ad occhi aperti.

Déjà vu

"Il mondo non è irreale (se lo fosse potrei esprimerlo: esiste un'arte dell'irreale che è tra le più alte), ma de-reale: il reale lo ha abbandonato, cosicché io non ho più alcun senso (alcun paradigma) a mia disposizione..."

Roland Barthes

[Roland Barthes, "Frammenti di un discorso amoroso"]

"L'unica realtà di cui siamo sicuri è la rappresentazione, cioè l'immagine, cioè la non-realtà"

Edgar Morin

[Edgar Morin, "Il cinema o l'uomo immaginario"]

L'Ouroboros, il serpente arrotolato in cerchio che morde con la bocca la propria coda, sta a rappresentazione della totalità che tiene insieme gli opposti, dell'androginia primordiale, dell'unità perduta e cercata da noi esseri attraversati da specchi [Alfonso Lentini, "Piccolo inventario degli specchi", p. 27]. Come l'Ouroboros, il serpente-gioiello di Femme Fatale avvolge nelle sue spire sogno e realtà, armonizzati insieme in un mondo "altro". Il sogno, quello della protagonista, ma anche quello del cinema, è magia capace di confondere vero e falso. De Palma orchestra un film sul tema del doppio, dallo sdoppiamento dei personaggi al rispecchiamento che della realtà fanno cinema e fotografia. Déjà vu. Due scene di Femme Fatale si svolgono sullo sfondo di un poster pubblicitario su cui campeggia in bella vista questa scritta. Déjà vu: ossia già visto, già noto, già guardato. Eppure non ancora vissuto, almeno non vissuto così. O, forse, vissuto due volte: in realtà e poi in sogno. O viceversa. Ma dov'è la realtà? Dove il sogno? Laura sta guardando La fiamma del peccato, di Billy Wilder, e il suo volto si riflette sul teleschermo: è contemporaneamente dentro e fuori dal film. "Io sono guasta dentro", dice Barbara Stanwych. Laura pronuncerà la medesima frase, ma sembrerà di ascoltarla per la prima volta. Già sentita. Già vista. Déjà vu. Prima vede Double Indemnity, poi lo rivive. Sogna una scena, poi - di nuovo - la rivive. Come il cinema nei confronti della vita: un sogno già sognato, un incontro già vissuto, una scena già vista, eppure sempre rinnovata (potere della citazione benjaminiana).

Déjà vu.

Déjà vu è una falla nel sistema Matrix. Ma cos'è Matrix? Morpheus spiega a Neo che Matrix è una "neurosimulazione interattiva". Simulazione. Finzione. Sogno. Mondi Paralleli. Neo sta sognando. "Wake up, Neo. The Matrix has you...The Matrix follow the white rabbit. Knok Knok Neo". Siamo ancora nel suo sogno? E dove lo porterà il bianconiglio? Se Matrix è una simulazione, se è "ovunque intorno a noi, è il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità", allora dov'è la verità? E' forse quello scenario post-apocalittico da incubo(-incubatrice)? Neo si risveglia in un bozzolo(-utero), immerso in una sostanza vischiosa(-amniotica). E' questa la realtà? Gli uomini sono stati ridotti a batterie umane, mentre i loro avatar, " immagini-residue di sé", abitano Matrix. Una pillola rossa, ed eccoti oltre lo specchio, al di là del tuo mondo, Alice. "Una bimba di nome Alice sta fissando uno specchio. Che bello poterlo attraversare! Prova uno strano piacere Alice ad immaginare come potrebbe essere il mondo dentro lo specchio: la Casa dello specchio... Facciamo finta che il vetro sia morbido come un velo e che si possa attraversare! E' a questo punto che lo specchio comincia davvero a dissolversi in una nebbia d'argento, un imene invitante: e Alice vi salta dentro" [Ibidem, p.13].

Neo si riflette in uno specchio che gli rimanda la sua immagine distorta, o meglio spezzata, in frantumi. Come per frammenti si può cercare di costruire la storia, il film. Frammentaria è la realtà. La chiarezza non è di questo mondo. L'unità dell'essere è un'utopia. E' sogno. Ecco che lo specchio si ricompone e Neo è di nuovo tutt'intero. Ma... primissimo piano di un suo occhio che si apre. Eravamo in sogno (?). La completezza non è per questo mondo. Non c'è più possibilità per letture univoche. Non c'è più nessuna soglia da varcare per uscire dalla finzione (The Truman Show) dal momento che finzione e realtà hanno deciso di fondersi insieme e di rinnegare le ripartizioni binarie: è la rovina simmeliana che ha preso il posto del frammento. E' l'ossimoro che dichiara guerra alla metonimia [Franco Speroni, "La rovina in Scena"].

Doppio

S come sdoppiamento.

S come Spider.

Spider è doppio. E' insieme adulto e bambino, presente e passato, o forse futuro e presente. Coincide nelle stesse inquadrature dell'ultimo film di Cronenberg la presenza, fisica e visibile, del soggetto ricordante e dell'oggetto ricordato. Dice Cronenberg in un'intervista a Matteo Columbo ["David Cronenberg: la memoria e l'identità", Duel, n.101, p. 30]: "la memoria non è mai un atto oggettivo. E' un atto che coinvolge molto l'emotività e il desiderio creativo, è qualcosa che è costantemente ri-detta, ri-montata e ri-scritta. E, dato che la memoria è l'identità (non c'è identità senza memoria), Spider è un artista della propria identità, che ri-crea in continuazione se stesso". Siamo distanti da un "Combatti per sapere chi sei" (pessima sponsorizzazione di un film che così bene ha saputo personificare pulsioni contrastanti) [David Fincher, Fight Club, 1999]. L'aut...aut... dell'epoca moderna cede il passo all' et...et... del postmoderno: la logica dell'esclusione e della scelta cede il passo all'inclusione e alla compresenza, alla contaminazione.

Spider è il ragno che tesse in forma di ragnatela passato, presente e futuro. Non vi è spazio per il percorso lineare: la ragnatela è la (non-)forma che permette ogni direzione, ogni interpretazione. Non a caso il film si apre con la rappresentazione di quelle macchie su di un muro dalla valenza reattiva di un test di Rorschach: evidenza e allusività, oggettività e interpretazione soggettiva di un fenomeno si mescolano.   Cronenberg ci chiama all'interno del suo

film-ragnatela. Spider avviluppa lo spettatore nella rete che lui stesso ha costruito. Ciò che si vede è ciò che si vuole vedere. La superficie del reale sembra intatta, ma è nell'occhio che guarda che il cambiamento è avvenuto. Il cinema si è sempre servito dal flashback come strumento privilegiato per conferire autenticità al ricordo, in quanto prodotto dell'intima relazione tra l'uno (chi ricorda) e il proprio patrimonio mnemonico. Già Kubrick o Tarantino (Rapina a mano armata, Pulp Fiction) immaginavano un soggetto esterno al racconto - lo spettatore? Il film stesso? - impegnato a ricordare frammenti e disporli in maniera cronologicamente disordinata. Qui, però, è l'idea stessa di tempo ad essere scardinata. E' un cinema che si concentra sulla lettura di passato e presente come piani temporali non scissi, come elementi coappartenenti. Scrive Deleuze: "L'immagine deve essere presente e passata, ancora presente e già passata, contemporaneamente, nello stesso tempo. Se non fosse già passata e presente al tempo stesso, il presente non passerebbe mai. Il passato non succede al presente che non è più, coesiste con il presente che è stato". I due momenti temporali coesistono nella stessa immagine, nello stesso luogo: è il cronotopo di Susan Sontag [Susan Sontag, "L'amante del vulcano"]. Spider spia i suoi ricordi e trasforma la sua memoria in oggetto scopico che si sistema fuori dal nostro corpo, che si da come ambiente totalizzante, acquario totale nel quale si muovono, dis-ordinati, cervello e cinema. Spider è con-fusione postmoderna, sofferto approdo di un lungo percorso del cinema che si interroga sulla tematica del doppio: nel 1959 uno psichiatra si sdoppiava in un mostro che era la summa di tutte le pulsioni più malvagie e perverse dell'animo umano e avrebbe pagato con la morte la sua "ubris" (Il testamento del mostro). Poi Blade Runner, nel 1985, inscena un universo in cui non è più così semplice distinguere l'uomo dal replicante (si veda la versione con montaggio e finale originali di Ridley Scott: il sogno dell'unicorno è emblematico in tal senso). Per arrivare infine a Cronenberg che, già nel 1988, pensa un film come Inseparabili, morboso horror chirurgico in cui l'uno vive in funzione dell'altro, ma uno e altro sono ormai termini intercambiabili: la logica che separa i mondi del noi e dell' altro da sé ha fatto Crash.

Narciso

Ovidio, nelle sue Metamorfosi, ci racconta che Narciso vivrà soltanto

"si se non noverit".

[Ovidio, "Le Metamorfosi"]

  Di fronte al riflesso della sua persona nell'acqua, Narciso "si innamora di un' illusione che non ha corpo, pensando che sia corpo quello che non è altro che onda" [Ovidio, "Le metamorfosi"]. Stupore e attrazione lo colgono. E' innamorato di se stesso; "è contemporaneamente soggetto e oggetto del desiderio". Un'ombra, una falsa immagine, un tenue riflesso eccitano i suoi occhi. Narciso e il suo doppio. Narciso è il suo doppio.   Di fronte all'evidenza di ciò "il giovane, macerato dall'amore, si dissolve, bruciando lentamente del fuoco nascosto" [Ovidio, "Le metamorfosi"]. Desiderio di possesso totale e ossessione di annullamento completo. Volontà di dominio sulla carne e di dissolvenza nel riflesso. Scissione tra passione dell'assenza e bisogno di presenza. Quanto più ci si avvicina alla propria immagine riflessa, tanto più ci si allontana da sé. E' il "video-corridor" di Bruce Nauman, video-installazione del 1970: un corridoio lungo e buio, una telecamera ed uno schermo alle due estremità del corridoio. Quanto più ci si avvicina allo schermo per scorgere la propria immagine ripresa in tempo reale dalla telecamera, tanto più ci si allontana dalla telecamera stessa e la propria immagine ne risulta sfuocata e lontana. Volere se stessi fino al punto di annullarsi. "Me stessa, dovrei arrivare a me stessa, ma cosa significa me stessa?... mestessa: ioaltra, semmai. Mestessa è solo uno tra i tanti personaggi che gli altri mi hanno trapiantato dentro", scrive al suo diario la Carolina di Occhi sulla Graticola (Tiziano Scarpa). Narciso sopravvivrà soltanto se non conoscerà se stesso. Conoscere se stesso significa saper identificare la propria esistenza, "assistere ad essa"; implica la capacità di riflettere sul proprio stare al mondo. La scoperta di sé in uno stagno, così come nel simulacro seriale del proprio corpo, può essere fatale. Narciso muore dal dolore di non poter avere sé stesso, la sua immagine riflessa non gli appartiene. Gli abissi del suo inconscio gli sfuggono irrimediabilmente. Lo studente di Praga vende il suo doppio speculare in cambio di denaro. Mercificandosi perde il controllo di se stesso. Ormai appartiene al Mercato e alle sue leggi. La morte è ancora il prezzo da pagare per potersi riappropriare di sé. Il Ladro/Cristo de La Montagna Sacra urla l'orrore di se stesso riprodotto in serie, si ribella al Mercato (della Chiesa) distruggendo la merce. Vendersi significa perdersi. L'utopia di appartenersi uccide.

Occhio

"Una volta Chuang-Tzu sognò di essere una farfalla che svolazzava felice e ignara di essere Chuang-Tzu. Quando si svegliò, si accorse con stupore di essere Chuang-Tzu. Non seppe più allora se era Chuang-Tzu che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Chuang-Tzu"

Alfonso Lentini

[Alfonso Lentini, "Piccolo inventario degli specchi", p.108]

Eyes Wide Shut!

Occhi aperti sbarrati. Occhi spalancatamene chiusi. Ennesimo ossimoro kubrickiano. Occhi talmente spalancati da richiudersi nella cecità, nella negazione della visione. A proposito di visto-non visto. Occhi chiusi, quindi ciechi, perché impossibilitati a vedere. Ma cosa c'è da vedere? Un sogno che sa di realtà e una realtà dallo scarso realismo. Uno sguardo allo specchio. Il nome della Kidman è Alice. Il suo sguardo attraversa lo specchio, ponte di comunicazione tra due

non-mondi: doppio sogno. Veglia e sogno sono due interfacce, due lati della stessa membrana. Il ponte che mette in contatto due sponde di un fiume è sospeso sull'acqua, ha in sé qualcosa di instabile, fragile, mercuriale. E poi la maschera, metafora di una rivelazione negata, è la coscienza che si rivela solo a se stessa, tautologicamente. Non c'è timore di smentita perché non c'è termine di confronto. Rivelazione senza verità.

Se Alex di Arancia Meccanica, posto di fronte al ritratto-riflesso di sé che la sua società gli forniva, era condannato ad una visione a tutti i costi, ad un occhio spalancato e quasi sanguinante, adesso la visione è "ad occhi chiusi". Ridiventa possibile vedere solo smettendo di guardare, di guardarsi.

"Can you see?"

"Riesci a vedere?" Chiede insistentemente la precog ad Anderton-Cruise di Minority Report. Il più abile funzionario della polizia Precrimine, colui che scruta nel futuro, il cui sguardo va oltre il presente e oltre la contingenza spaziale, non sa rispondere alla domanda se sia in grado di vedere : lui è cieco. Ascolta la Sinfonia n. 8 di Schubert (l'Incompiuta) e dopo il lavoro assume una droga chiamata Clarity. Ma imparare a vedere, cambiare punto di vista, implica che i suoi occhi, da predatori che erano, diventino prede. E' necessario allora strapparli, sostituirli. Sanguinano perché sono la chiave di accesso per un mondo che ci vuole ciechi. Ancora Eyes Wide Shut. Ancora un paradosso kubr(d)ickiano. Agatha deve far sì che l'occhio di Anderton cambi di segno (di senso). L'occhio diviene mezzo salvifico: soltanto adesso Anderton riesce a vedere, re nel paese dei ciechi.   

"Anche gli occhi sono specchi, grossi specchietti mobili azzurri nei quali ci si vede riflessi su uno sfondo turchino come in un cielo felice, come in acque irresistibili" [Alfonso Lentini, ibidem].

Di acqua parla Deleuze a proposito della scuola francese: "ciò che la scuola francese trovava nell'acqua, era la promessa o l'indicazione di un altro stato di percezione: una percezione più che umana, una percezione che non era più tagliata sui solidi, che non aveva più il solido per oggetto, per condizione, per ambiente. Una percezione più sottile e più vasta, una percezione molecolare, propria di un cineocchio " [Gilles Deleuze, "L'immagine-movimento", pp. 100-101]. Parlando di occhi-specchio è impossibile non pensare ai fotogrammi in cui Vertov riprende, con la sua macchina da presa, un occhio che si riflette nell'obiettivo. L'occhio è nelle cose, la percezione si è trasferita nelle cose. Il cineocchio, l'occhio non-umano, viene così a compensare una delle più grandi deficienze dell'occhio umano: la sua immobilità, la sua percezione fondata su di un punto di vista privilegiato. Se "la coscienza-cinepresa" della scuola francese "diventava un reuma, perché si attualizzava in una percezione fluente e perveniva così a una determinazione materiale, a una materia-flusso" [Gilles Deleuze, "Immagine-movimento", p. 105], il kinoglaz di Vertov si spinge al di là del flusso, alla percezione gassosa, definita dal libero percorso di ogni molecola della materia. "Non possiamo rendere migliori i nostri occhi... ma possiamo perfezionare ininterrottamente la macchina da presa": se questa era l'utopia vertoviana del cinema moderno, il cinema contemporaneo non ci crede più. Non crede più che il semplice guardare un'immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell'immagine viene mostrato. Fine di un ciclo, fine della fiducia nell'onnipotenza dello sguardo, ma senza la provocazione e lo choc di Un chien andalou, dove Buñuel metteva in campo una lama di rasoio per farle recidere l'occhio, per ferire il suo conformismo e inondarlo di luce. Oggi il cinema riempie le sue storie di personaggi che vogliono fare a meno degli occhi (da La montagna sacra a Nirvana ), che non si fidano più della vista,   che scelgono di "non voler vedere" [Gianni Canova, "L'alieno e il pipistrello", p. 38] e optano per la cecità e se la procurano da sé.

Sguardo

"Lo sguardo non subisce, ma attiva l'immagine del proprio desiderio; appare là dove la soggettività dell'essere è presente senza tuttavia soggiacere immediatamente all'oggettività del mondo sociale. Appare là dove sono le forme di espressività emotiva non condizionate dai linguaggi storici a cercare un senso "

[Alberto Abruzzese, "Essere Moda" in "Communifashion", cit., p. 43].

Speculare, ri-flettere: parole che alludono alla facoltà di pensare, di pensar-si. E' il di-vertimento metafisico dell'essere. Guardare dall'esterno ciò che avviene all'interno. Attraverso la percezione dell'identità scopro l'alterità, il diverso, il plurale. Altri specchi. Ma è vero anche il contrario: nell'occhio dell'altro percepisco me stesso. "Esse est percipi, essere è essere percepiti". "Almeno una percezione sussisterà finché vivremo, quella più tremenda, quella di sé attraverso se stesso" [Gilles Deleuze, "L'immagine-movimento", cit., p. 86]. Ecco allora Beckett e Buster Keaton letti da Deleuze: gioco di citazioni, di rimandi, di riflessi. La filosofia di Beckett si riflette in questa sua opera cinematografica, Film, ossia Il Film, Il Cinema. Perché cos'altro è il cinema se non un occhio, una visione monoculare. La telecamera rincorre lo sguardo del protagonista, può guardare solo quando percezione soggettiva e oggettiva si siano azzerate, soltanto quando tutti gli occhi e gli oggetti-specchio siano stati coperti. La telecamera è il doppio del protagonista, lo possiede soltanto quand' egli, in sogno, rinuncia a possedere se stesso. Il risveglio è terrore, è percezione di sé attraverso se stesso, è immagine-affezione [Gilles Deleuze, ibidem].

Perseo riesce ad uccidere Medusa grazie ad uno specchio. Guarda senza guardare, trova una nuova posizione, obliqua rispetto al mostro, attua una strategia imprevedibile. Mette in atto una visione diagonale, trasversale: solo così riesce a vincere!

Scrive Perniola: "Vincere l'avversario senza venire a contrasto, assumendone l'aspetto, appropriandosi delle sue ragioni, prendendo il suo posto. C'è un modo di combattere il proprio nemico molto meno pericoloso e incerto nel suo svolgimento e molto più effettivo e radicale nei suoi risultati [...] esso consiste nello spogliarlo della sua identità, trasformandosi in una copia indiscernibile da lui [...] Chi si mette al posto del suo nemico, sfuma, cancella, abolisce la sua identità, apre uno spazio di indeterminazione e di differenze indiscernibili. Infatti l'assenza di origine, di identità, di autoctonia, unita alla molteplicità delle relazioni, dei rapporti, delle influenze, non soltanto permette gli accostamenti, gli innesti, le combinazioni più svariate, ma più profondamente attribuisce alla mescolanza un rilievo e una funzione essenziale, una dimensione autonoma che la differenzia dal mero disordine e arbitrio" [Mario Perniola, "Transiti", pp. 15 sgg.]. Rapportarsi in maniera efficace e strategica all'altro da sé implica l'adozione di uno sguardo capace di attraversare i punti di passaggio, di transitare oltre le forme e le identità. Uno sguardo capace di Passing [Anna Camaiti Hostert, "Passing"]. Il mito della frontiera, tanto caro al cinema delle origini, adottato dal genere di fantascienza per dar luogo a conflitti intergalattici tra un "noi" ben definito e un "loro" che possono essere gli alieni o i comunisti rossi (blob è il fluido rosso che uccide), viene ora fatto proprio da un cinema che parla di identità fluide, multiple, ibride. Scene italoamericane [Anna Camaiti Hostert, "Passing"] sono quelle di un Tarantino, di uno Scorsese, di un De Palma che hanno sempre dimostrato di conoscere sin troppo bene la possibilità di uno sguardo altro, disappartenente. Raising Cain. To raise: allevare, far crescere; ma anche scompigliare, spostare l'identità, far crescere l'altro in sé. Vivono nel film, in scompigliata compresenza,   ogni possibile identità, ogni possibile piano della realtà, ogni possibile immagine. Come in Dalì, gli orologi si liquefanno e, con loro, lo statuto di identità immaginale della finzione, in un meta-embrayage percettivo. Il lago dove affondano e riemergono i corpi è un lago-specchio del tempo, dove Narciso si con-fonde con il suo doppio virtuale. Allevare dentro di sé l'altro, l'alterità come opposizione alla mistificante "identità" fissata e imposta dalla società: è Edward Norton che incontra Brad Pitt, allucinazione (auto-)distruttiva di sé, materializzazione della pulsione al system-fight. E' il Taxi Driver di Martin Scorsese che attraversa la notte della propria anima. De Niro-Bickle è davanti ad uno specchio, prova ad estrarre la pistola e si rivolge alla sua immagine interpellandola (difficile non pensare al recente La 25° ora, di Spike Lee); il suo occhio è continuamente dislocato nello specchietto retrovisore del Taxi: è la deriva dell'identità. Realtà e finzione fanno cortocircuito.

Sogno

Caro istante ti vedo

In questa tenda di bruma che indietreggia

Dove non dovrò più calpestare quelle lunghe soglie mobili

E vivrò il tempo di una porta

Che si apre e si chiude

[Samuel Beckett]

"No hay banda". Non c'è l'orchestra. "Tutto è registrato". "Tutto è illusione". "Silenzio".

Con la parola "silencio" si chiude Mulholland Drive. Partire dalla fine di un film che fine non ha, perché non ha un inizio, né una meta. Scardina il discorso lineare della narrazione. E' un testo che vive del suo stesso percorso, un percorso virtuale, che siamo chiamati a completare, interpretare, inventare noi stessi. E' una spirale. E' il nastro di Moebius. Inizio e fine si (s)piegano in circolo, sovrapposti e sfasati, alludendo all'impossibilità di qualsiasi conclusione. Silenzio, dunque, spazio alla visione e al naufragio di senso cui essa ci invita. David Lynch conferma la sua attrazione verso il sogno (doppio sogno), in quanto dimensione altra, altro da sé; perché il sogno e il cinema hanno in comune il loro modus operandi: ricomposizione di frammenti di vita secondo un ordine diverso da quello del loro svolgimento.

Tra realtà e "de-realtà" si aprono "cunicoli" in grado di mettere in collegamento universi distinti o parti lontane, parallele e divergenti allo stesso tempo, del medesimo universo. Come tra l'uno e i molti John Malkovich, un passaggio segreto mette in comunicazione identità e universi. Il sogno è una soglia semiaperta tra l'insondabilità dell'inconscio profondo e la "consapevolezza" che la sfera del reale rivendica per sé. Come la porta di Duchamp, la Porte: 11, rue Larrey, casa sua a Parigi che, se apre chiude e se chiude apre. La soglia è metafora di un dispositivo che rende impossibile e arbitraria ogni bipartizione tra un dentro e un fuori, tra un'apertura e una chiusura. E' un ibrido spaesante e perennemente mutante. Misteriosamente compare nella borsetta di Betty (o Rita? O Camilla? O Diane?.. i nomi sono come significanti in cerca di adozione) una scatola blu, nella quale la m.d.p. viene improvvisamente risucchiata, come in un buco nero. E' "l'istante kairologico della scoperta, della catastrofe, dell'epifania" [Luisa Valeriani, "Dentro la trasfigurazione"].   La scatola magica tras-forma, si apre e si chiude: è una forma intransitiva, un processo riflessivo che non trova dimora in alcuna dimensione data, che non può sostare. Non vi è luogo che si possa abitare né tempo in cui riposare. Non   metamorfosi da/a, ma dispositivo trasfigurativo-riflessivo, corpo trasformantesi. "La verità esplode, e il suo frantumarsi crea le segmentazioni di Chronos" [Luisa Valeriani, ibidem].   Il tempo di Lynch è un ambiente, in cui i personaggi rintracciano percorsi per direzioni insospettabili, per moltiplicazioni di senso e di sensi. Nella sua stessa struttura (intreccio vs fabula) il film si apre a percorsi laterali lasciati "fuori campo", ma comunque in grado di far acquisire una struttura centrifuga al racconto: anacronie e sfasamenti temporali, flashback e flashforward sono gli strumenti della "mente che cancella" (Eraserhead), che rompe i nessi, piuttosto che consolidarli.

"Io vivo il mondo - l'altro mondo - come un'isteria generalizzata"

Roland Barthes

[Roland Barthes, "Frammenti di un discorso amoroso"]

Cinema, ipnosi e psicanalisi sono legati da un sottile legame: il potere dello sguardo. L'ipnotizzatore procede attraverso un potere di suggestione: la sua è un'arte del contatto. Percezione del contatto con l'altro.   Estesia. Percezione che si fa propriocezione. Contatto senza contagio. E se il cinema si basa su ciò che la luce mostra, è pur vero che ciò che appare diventa sistematicamente evanescente. Evapora. Isteria e finzione. Le isteriche non si ricordano di nulla, non raccontano nulla: recitano (non rappresentando nessuna scena realmente vissuta) ruoli o personalità multiple, identificandosi con un altro io. Abbandono totale e soppressione del soggetto. Al di là di ogni memoria. Al di là di ogni soggetto. Come i suoi personaggi, il film Mulholland Drive diventa isterico: nel suo penetrare all'interno di superfici riflettenti, in questo suo gioco di doppi, nelle dissolvenze incrociate come stati di evaporazione, nelle sovrimpressioni, nelle diverse gradazioni di tono della fotografia. Nell'ipnosi a cui si sottopone l'isterica tutto può esistere allo stesso momento, tutto è: ripetizioni, simulazioni, illusioni. Le scatole cinesi (blu) dell'esistenza non possono condurre ad alcuna certezza. L'unica certezza è l'assenza di ogni certezza.

Da Attraverso lo specchio :

"Ora sta sognando", disse Tweedledee:

"E cosa pensi che stia sognando?". Alice rispose: "nessuno lo può sapere". "Perché? Sogna te! - esclamò Tweedledee, battendo le mani in aria con trionfo - E se smettesse di sognarti, dove pensi che ti troveresti?".

"Dove sono adesso, naturalmente", disse Alice. "Assolutamente no! Tu non saresti in nessun luogo. Perché tu sei semplicemente una specie di cosa nel suo sogno!" ribattè Tweedledee sprezzantemente.

Roma, 9 Marzo 2007

 

Filmografia:

 

1895 - Sortie d'usine - Lumière;

1913 - Lo studente di Praga - Stellan Rye;

1929 - Un chien andalou - Luis Buñuel;

1929 - L'uomo con la macchina da presa - Dziga Vertov;

1941 - Quarto potere - Orson Welles;

1955 - Rapina a mano armata - Stanley Kurick;

1959 - Il testamento del mostro - Jean Renoir;

1964 - Film - Buster Keaton;

1971 - Arancia meccanica - Stanley Kubrick;

1973 - La montagna sacra - Alexandro Jodorowsky;

1976 - Taxi Driver - Martin Scorsese;

1982 - Blade Runner - Ridley Scott;

1992 - Doppia personalità - Brian De Palma;

1994 - Pulp Fiction - Quentin Tarantino;

1997 - Nirvana - Gabriele Salvatores;     

1998 - The Truman Show - Peter Weir;

1999 - Essere John Malkovich - Spike Jonze;

1999 - Fight Club - David Fincher;

1999 - Eyes Wide Shut - Stanley Kubrick;

1999 - Matrix - Andy e Larry Wachowski;

2001 - Mulholland Drive - David Lynch;

2003 - Femme Fatale - Brian De P alma;

2003 - Spider - David Cronenberg;

2003 - Minority Report - Steven Spielberg;

2003 - La Venticinquesima Ora - Spike Lee.

Bibliografia:

 

Abruzzese Alberto, 2001 [1973], Forme estetiche e società di massa, Marsilio Editori, Venezia;

Abruzzese Alberto, Barile Nello (a cura di), 2001, Communifashion, Sassella Editore, Roma;

Aumont Jacques, Marie Michel, 1996 [1988], L'analisi del film, Bulzoni Editore, Roma;

Barthes Roland, 2001 [1977], Frammenti di un discorso amoroso, Giulio Einaudi Editore, Torino;

Camaiti Hostert Anna, 2002, Sentire il cinema, Edizioni Cadmo, Fiesole (Firenze);

Camaiti Hostert Anna e Tamburri Anthony Julian (a cura di), 2002,

Scene italoamericane, Luca Sossella Editore, Roma;

Canova Gianni, 2001 [2000], L'alieno e il pipistrello, Studi Bompiani, Milano;

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