L'Europa si è ammalata di tropicalismo. Finalmente. Laddove nulla
hanno potuto nel corso dei secoli i ciclici e continui flussi migratori
e il turismo esotico-di-massa; prodotti culturali importati, imposti e
impostisi; programmi ministeriali antirazzisti e multiculturalisti; la
rivoluzione climatica di inizio millennio, in un'estate, potè.
Si tratta della più virulenta, castratoria (nel senso che per fortuna
ci rende impotenti) e inarrestabile malattia che abbia mai unito a tal
punto l'Europa. Uno speciale tipo di morbo che attacca tutto l'Occidente
metonimico consacrato al profitto.
Una sorta di tacito, fattivo e ineluttabile "koan" che alita su questa
paradisiaca regione del mondo con una domanda inchiodante: come muta in
un paese sviluppato (quello europeo tutto, beninteso) il coefficiente di
produzione di tutti i settori sotto la morsa di questo impertinente clima
tropicale?
In attesa che la risposta si manifesti chissà dove come e quando,
i flussi di vita inarrestabili, con tutta la loro gamma di manifestazioni,
realizzazioni, articolazioni giocate su tutta la loro scala di intensità,
vengono fissati via via - proprio nel loro atto di fluire - in un ridotto
florilegio - "cose tropicali", appunto - senza altro criterio di scelta
che la disponibilità del loro accadere.
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