Ogni mattina la piazza era là,
bella nella sua vuotezza, di nuovo ancora vergine, libera, avvolta dall'aria
fresca - se è possibile di questi tempi - che precede di poco lo
spuntare del sole da dietro i due campanili della chiesa là in alto.
Fa bene vederla così la piazza. L'ampiezza
di respiro che genera la sua visione mattutina e verginale è l'ampiezza
del suo stesso respiro. Lo sa chi la osserva ogni giorno sostenere l'avido,
estasiato, esponenziale, predatorio, distratto, riverente, superficiale,
consumistico, appassionato ...alito di moltitudine globale che giunge sulle
sue rive. Non lo sa chi la vede per un'unica volta nella sua vita.
Lo sa chi ha la
memoria del processo.
Processo di fricamento/sfregamento/lambimento quotidiano. Lo sa chi
è cosciente del progressivo riempimento della piazza e del parossistico
formicolio che la estenuerà tutto il giorno e parte della notte.
Lo sa chi la rivede ogni mattina e può prenderne forza prima di
infilare il tunnel sub-metropolitano per andare a lavoro. E chi se ne avvolge
mentre legge il giornale la mattina, chi vi trova forza e ispirazione per
iniziare una giornata frenetica, chi gode della sua quiete, dell'ampio
spazio di cielo che ritaglia, dei suoni ancora riconoscibili - del suo
originario tappeto sonoro.
Lo sa chi la attraversa in punta di piedi
come carezzandola perchè non si svegli troppo presto e troppo bruscamente.
Inchiodata dalla sua petrosità di marmi
e di architetture, prigioniera della sua statica bellezza, questa piazza
opera la sua ineluttabile e narcissica vendetta costringendo visitatori
da tutto il mondo ad arrivare fino a lei. E' così potente il richiamo
della sua bellezza! Come una sirena essa sparge il suo canto in tutti gli
angoli del mondo. E da tutti gli angoli del mondo arriva ogni giorno l'ondata
del mercato del turismo mondiale che la strapazza, e che realizza insieme
la sua condanna e la sua benedizione.
Non aveva mai colto prima d'allora - prima
di quei suoi quotidiani passaggi mattutini d'estate - che la sensazione
di sofferenza empatica che provava per la piazza, che era il frutto di
un'impropria identificazione con essa - ammirata e vilipesa allo stesso
tempo - fosse invece una fonte di piccole gioie quotidiane di cui avrebbe
potuto approfittare.
Si era sempre
soffermato soltanto sulla differenza tra le mattine virginali e i pomeriggi
dissoluti, della sua piazza: di come fosse sua (e di se stessa) la mattina,
e di come non gli appartenesse più (e non si appartenesse più)
via via che lo scorrere delle ore la comprometteva con tutti.
Perciò
il suo rapporto con lei disegnava un percorso di compimento negativo giornaliero:
iniziava con le mattine piene di promesse di felicità e si concludeva
ogni pomeriggio quando la trovava guastata dalle rapinerie coatte
e continuate.
E il giorno dopo, tutto si ripeteva di nuovo.
Soffriva inoltre - ma questo era un dettaglio
- di dover passare tra la folla fotografante, camminando ingobbito e zigzagante,
un po' per cortesia e senso di ospitalità verso lo straniero, un
po' per non finire in qualche scatto affrettato e maldestro.
Oltretutto questa
era diventata una sua ossessione immaginante: quando tornava ogni
pomeriggio dal lavoro, per qualche minuto si sorprendeva in una fervida
attività in cui elaborava strane storie legate agli album di fotografie
di viaggio. All'inizio si limitava a ridere di se stesso all'idea che la
sua immagine saltasse fuori magari scomposta (con un naso in primo piano
o una smorfia di scusa) al momento del rituale, carico di aspettative e
curiosità, che è il ritiro delle foto di viaggio quando ormai
l'ex-turista è di nuovo avvolto nella quiete rassicurante della
propria città. Immaginava di capitare nelle mani di qualche smazzatore
di fotografie giapponese che magari si era fermato in qualche strada di
Tokio a guardare i suoi bottini di viaggio, roso dalla curiosità
ma senza lasciarlo trasparire; oppure, immaginava di finire (virtualmente)
in una città della California e di venire gettato nel cestino della
spazzatura magari dopo un'esclamazione di raccapriccio What is that?! E
tutto finiva lì.
Ma col passare
dei giorni cresceva questo lavorio immaginante, cresceva su se stesso come
accade coi sogni ricorrenti che prendono spunto dalle "trame precedenti"
per diventare scatole cinesi complicatissime in cui le vecchie epifanie
vengono irrimediabilmente spiazzate da sempre nuove.
I suoi flash-over
assumevano i contorni di veri e propri sequel: immaginava per esempio che
un fortuito evento radunasse insieme tutti gli ex-turisti che avevano conservato
nel loro album di foto quella in cui appariva lui. Immaginava che, insieme,
questi si sarebbero appassionati in una caccia all'intruso (lui, nelle loro
fotografie), e che presto o tardi l'avrebbero rintracciato. Aveva addirittura
pensato alla creazione di un nuovo supereroe dei cartoni animati: l'uomo
"intrappolato" nelle foto si animava quando qualcuno dei suoi "protetti"
sparsi dovunque nel mondo, si trovava in difficoltà: usciva personificato
dalla foto, svolgeva il suo compito salvatore, per ritornare di celluloide,
con arrendevole tormento, una volta assolto il compito.
Una nuova consapevolezza
prese, però improvvisamente il posto delle sue vaneggianti trame.
Una consapevolezza che divenne subito pratica virtuosa e soprattutto generosa
di emozioni. Infatti, capì d'un tratto quale fosse il suo ruolo
(e la sua fortuna) in quel processo.
Gli capitò un giorno, al
botteghino dei biglietti, davanti ai tornelli della metropolitana: due
ragazzi stranieri che lo precedevano chiedevano informazioni su come raggiungere
la "sua piazza", proprio così. Senza neanche pensarci un istante
si occupò di indicare loro la strada: bastava che lo seguissero,
che scendessero alla sua stessa fermata e che di nuovo lo seguissero. Fu
così che quel giorno percorse il tunnel submetropolitano insieme
a quei ragazzi sconosciuti - un pò a distanza per non risultare
invadente - in attesa di indicare loro quel luogo delle meraviglie per
il quale avevano intrapreso il viaggio. Quel che avvenne poi fu la lezione
d'arte più efficace alla quale avesse mai partecipato. I due rimasero
a bocca aperta, estasiati dalla visione della piazza, non si parlavano
più: naso in su con lo sguardo rivolto alla prospettiva in fuga
verso l'alto sulle alzate della scalinata e poi su su fino ai campanili
gemelli; muti, occhi spalancati, beati.
Quello dei ragazzi
era lo stesso guardare e lo stesso sentire che lui provava nel guardare
loro. Assistere in presa diretta a quella rivelazione doppia: la loro,
di fronte alla piazza e la sua, di fronte alla loro, gli fece cambiare
di colpo la mente, il cuore, lo sguardo. Era diventato nuovo. La sua pomeridiana-compromessa-piazza
regalava estasi e, se ne si era capaci, doppie.
Ciò che fece
il nostro supereroe in tutti i suoi giorni seguenti non è così
difficile da immaginare, no?
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