La Critica

Parole dall’ombra

Una lettura critica delle poesie di Maurizio Grilli

di Angelo Tonelli

Parole dall’ombra, suona il bel titolo della raccolta di Maurizio Grilli appena uscito presso Agorà. Ma dall’ombra di che cosa? E: che luogo è l’ombra? Credo che l’ombra qui sia la postazione in limine tra noúmenon e phainómenon, tra mondo fisico e ascosità dell’essere. E insieme, l’ombra di Grilli è rispetto per la nudità delle cose sottratte allo sguardo di dominazione pseudosolare proprio della téchne e del narcisismo antropocentrico, è luogo di una coscienza subliminale e assorta, essenzialmente contemplante, distaccata con grazia e malinconia. L’elenco delle cose più semplici, in una apparente pantomima minimalista, dischiude la danza dell’ombra, unica realtà dotata di persistenza e moto lieve: Fornello a gas, lavabo / uno straccio sul bracciolo ad asciugare / fermo come l’aria della stanza / che non vedo, che non sento. / Una pentola, una tazza, una posata / e vuote bottiglie accantonate. / Su una pianta dai rami mezzo secchi / implorante alla finestra il sole / un’ombra danza fra le foglie / e danza e danza per ore e ore. / Poi si prende i miei pensieri / e fugge via con il giorno che muore.

Il rapporto tra soggetto e oggetto, in questa prospettiva, si rovescia, perché non è l’uomo a porre domande alla Natura e alle sue forme, ma sono la Natura e le sue forme a porre domande all’uomo, e a sancirne l’azzeramento ontico come unica via di riscatto conoscitivo: Uomini / – dicono le onde – / dite uomini che fate / lì così vicini / a noi che vi culliamo / perché non ci vedete? / Sono forse le guerre o la fame / a farvi piangere? / E allora perché / anche in pace piangete?… Uomini / – dicono le onde – / dite uomini perché / ripetete sempre le stesse cose / e misurate il vero / a palmo a palmo / ma non volete vedere / che tutto è polvere per voi / e non torna?. Le onde, araldi sommessi dell’essere che assume la forma del nulla, invitano ai luoghi del silenzio, evocano neve, quiete: Uomini / – dicono le onde – / dite uomini / ma non vedete? / E’ carico di neve / il vostro cielo / neve per la terra / che ha gran sete / di respiri profondi di silenzio / e di quiete. Ma tutto ciò può facilmente diventare occasione di trionfo per luoghi della sterilità, icone rovesciate di morte – La mia carne si faceva nutrire inerte / il mio corpo era fatto / di grandi membra afflosciate / come alghe senza mare – che però chiedono ristoro al silenzio felpato, contemplante della notte. Ma ben più appagante ristoro proviene dalla magia aionica dell’attimo. Le minime cose vengono fissate nell’eterno, a riscatto dell’essere-in-quanto-negazione-del-nulla: Lucertole si arrampicano questa mattina / sulla tela bianca sopra il mio viso. / Con rari battiti del cuore / rincorrono cose che non vedo. I gechi si snodano veloci / sulla volta bianca accesa dai neon. / Catturano insetti incauti / scattando all’ingiù. E le stelle sono il luogo della compiuta, garantita, permanenza, angeli immensi dell’attimo piccolo: Polvere e sudore ancora sulla pelle / Alberto guarda il cielo / puro di pianeti e di stelle. Alberto trova Andromeda / galassia taciturna e lontana / e la mostra con un sorriso. Ha un bulbo fumoso / Andromeda e tutte le stelle / a spirale intorno. Come non pensare al to nyn, ossia l’ora parmenideo, tanto più che Grilli dichiara dispiegatamente i suoi liberi debiti nei confronti del pensiero del grande Eleate – e, sia detto per mostrare le solide basi su cui fonda la sua poesia – anche di Heidegger, Jaspers.

La poesia dunque come riscatto del nucleo di essere che palpita alla radice delle cose, e che delle cose assume la forma deperibile? Sì, ma senza baldanza, perché in questa danza forse non desiderata, l’io si smarrisce, dondola in uno straniamento gnostico di fronte alle creature oscene della storia umana: Proprio oggi / guardandomi le mani / mi chiedevo / come mai questi occhi / su questa terra. Per fortuna le cose viste-dette dall’ombra lasciano spazio al fantastico, e il vuoto può essere mangiato, purché non si sia tracotantemente umani: Che ragione avrà questo lunedì. / La lepre / vicino alla finestra tipo inglese / ha le orecchie tremolanti / batte i denti bianchi/ guarda occhi grandi / il vuoto / e sembra che lo mangi. / Di tanto in tanto stringe le narici/ piano. / Forse un odore. / Forse un folletto / che le sfiora il naso / con la mano. E ancora, la Bellezza, vista dall’ombra, è silenzio: Poco fa una mosca mangiava di me / sul mio ginocchio / e cerco e cerco / ma non rimane che silenzio / di questa bellezza / che c’è tra me e l’universo.

La riflessione eleatico-heideggeriana di Grilli si declina come poesia pura, che però non disdegna l’incontro con i luoghi dell’immaginario kafkiano. Citerei, come sintesi della sapienza espressa in poesia da Grilli, il testo dove egli dichiara apertamente il privilegio della propria postazione d’ombra (che in realtà è conoscenza, come la cecità iniziatica di Edipo): Dal di qui / dove la cosa è ancora cosa / ho visto uomini / tenere in mano bambole / fabbricate nel terrore / di scoprirsi passanti e basta. Il guizzo sapienziale è folgorante, anche se taglia il poietés fuori dal consorzio dei ”dormienti”, per usare un termine caro a Eraclito: Ma l’essere li guarda / loro che non sanno più / che cosa è cosa / che vivono fra parentesi / perché la morte c’è fuori / che aspetta. Anche loro. / Ciechi come Edipo / prima di accecarsi. / Incapaci di silenzio. / Io, altri e le cose / che si dicono da sole / li guardiamo. / Tutti passeremo, / ma loro non l’avranno saputo. Luce è vedere al buio: Banchi di pesci / sfrecciano / leggeri / dorsi d’argento. / Altri boccheggiano / stupidi / fra cielo e abisso. / Pochi sopportano / piatti / i neri fondali / in cui si vede al buio. Contemplare dall’ombra libera dalla solitudine: separato dalle moltitudini omologate, il poietés incontra le stelle, garanti celesti della sua vita animica (Quando lassù le stelle / chiudono gli occhi / allora anche l’uomo muore), gli dei (Punte rosse sulle ali / i mulini ruotano maestosi, soli, / in cima alle colline. Grandi come dei), il divino-come-Silenzio (Ma ciò che più mi fa sospirare / è il grande silenzio / che come un dio / sembra regnare / su case, su strade, / regioni e paesi / sì che solo / chiara mi giunge / la voce del mare). Da questa postazione poieticosapienziale, Grilli non può che tracciare una diagnosi lucida e terrifi- cante della (in-)civiltà d’Occidente, che ha tradito l’Essere, il Silenzio, le stelle, Dio, gli Dei, le cose: Sui campi arati senza papavero / e senza volpe / non cresce il grano / e non credere di continuare / a vivere solo perché / sono altri a cadere / povero uomo d’occidente / senza più un cielo / che si fa bello per te. Di fronte alla hybris e alla cecità dei miserabili padroni del mondo la poesia si inarca nell’invettiva, che tenta di agire, di arrestare la corsa suicida dei pochi che governano il pianeta in nome dei molti inebetiti: Loro parlano / e i tetti si popolano / di paraboliche. / Loro parlano / e i cimiteri d’auto scoppiano / le strade scoppiano d’auto. / Loro parlano / e poi stanno telegenici / in pompa e fra bandiere / di stato. / Loro parlano / e le case sono piene / di inutile / e rovinano frane/ sulle città. / Loro parlano / e i corpi svaniscono / di anoressia, di allergia. / Loro, / padroni del denaro, / padroni di dio, / si parlano / di democrazia, ci iniettano dittatura. / Loro parlano / e danno luce e colore / alla nostra immaturità. Ma dell’invettiva Grilli sembra riconoscere l’impotenza. E allora volge alla preghiera, che assume il tono paradossale di invocazione all’Ascensore, che è desacralizzato simbolo gnostico di elevazione, e dunque indicazione di un tragitto possibile, e insieme cosa, ovvero non-umano: Ascensore, ascensore / fatto di legno, di maglie di ferro / di funi e di un motore / guardami tu, povero me / costretto a parlare a te / perché anche là fuori / ci sono solo rotelle, ingranaggi / e macchine e motori / e zombi e uomini / con la testa all’ingiù / e tu ci ricordi / che ci sarai / anche quando noi / non ci saremo più.

Così, tra sperimentazioni neoavanguardistiche e più frequenti recuperi di una versificazione ben radicata nel Novecento, che non rinuncia neppure alla rima baciata o a certe chiusure a effetto, tra riecheggiate formule parmenidee e riverberi heideggeriani, tra squarci di eternità e icastiche descrizioni della vita così come è, la poesia di Grilli ci conduce per un sentiero insieme quotidiano e sapienziale di rara raffinatezza e intensità.

Lerici, Maggio 2004