In che misura il suo essere direttrice del Multimedia Art Centre di Mosca ha influito sulle sue scelte curatoriali per il Padiglione russo alla 52. Biennale di Venezia?
Sviblova: Devo dire che ho avuto molto poco tempo per organizzare questo padiglione. Sono stata nominata a dicembre, quando tutti avevano già impegni per il prossimo anno e mezzo-due. Ho avuto bisogno di sei mesi per mettere a punto questo progetto, perché il contributo del governo non è riuscito a coprire tutti i costi. Ho voluto proporre un gruppo di artisti che guarda alla realtà di oggi. È costituito da persone che si sono interrogate su cosa significhi trovare un’identità in un mondo in cui siamo realmente dominati dai media, la televisione può apparire il potere più forte su di noi e soggiogarci, ma Internet mostra la realtà; una recente indagine in America ha riportato che quest’anno meno persone hanno visto la televisione di quante si siano collegate a Internet. Così noi vediamo la realtà attraverso due schermi: quello televisivo e quello del computer. Il mondo ha iniziato a essere globale e non esiste che una parola: realtà. Una parola che vale per noi e per quelli che vivono in Africa. Così, ho proposto agli artisti di riflettere su cosa vuol dire trovare un’identità in questo mondo.
La struttura del padiglione si divide in due spazi. Ho proposto una riflessione sulla televisione al piano superiore, che noi possiamo chiamare il “paradiso”, e una riflessione sul mondo virtuale al piano terra, in qualche modo l’”inferno”. L’artista più giovane del gruppo - ha ventisei anni - ha dato vita a un progetto speciale per la facciata del padiglione, che gli dà il nome (perché rischiava di rimanere senza), un progetto su Internet: Click I hope. Perché io penso che, proprio per la difficile realtà che viviamo oggi, abbiamo bisogno di un’arte che non ci proponga tanto l’ironia, o che faccia riferimento a quello che è accaduto nel contesto artistico degli ultimi venticinque anni. Abbiamo bisogno di proposte di nuovi orizzonti, perché il mondo del ventunesimo secolo ospita tutte le visioni artistiche, e non solo i conflitti religiosi né i conflitti nazionali, che forse guardano al passato. Ma chi si chiede il perché di quello che accade oggi? Perduto il nostro orizzonte comune, al di fuori di noi, oltre il nostro nuovo orizzonte c’è una nuova realtà.
La prima installazione Shower è dedicata a Nam June Paik. Più di quaranta anni fa è stato il primo artista a riflettere su cosa abbia significato il fenomeno televisivo per la cultura umana. Ed è stato solo l’inizio. In questi anni sono stati fatti così tanti lavori e ora sembrano non dirci niente. La doccia, installata al primo piano del padiglione, è piastrellata con più di duecento schermi connessi con più di mille canali televisivi internazionali, che si pongono su di noi in una posizione di dominio. Ci sono due pulsanti, come nelle docce, e come noi in queste possiamo passare dall’acqua calda all’acqua fredda, qui possiamo cambiare le notizie: catastrofiche, sulla natura, sportive, porno, pubblicità. Ma tu non puoi fermare la doccia, ci resti sotto e provi una sensazione fisica di pressione, è la televisione che lava i nostri cervelli.
Ecco quello che oggi noi possiamo dire: la televisione è diventata la doccia che lava i nostri cervelli ogni giorno, ogni notte. Poi andiamo in un altro spazio. Abbiamo bisogno di uno spazio che operi un taglio con tutto questo, di uno spazio e di un tempo per la meditazione. Vediamo Wave di Ponomarev, è un’onda di acqua vera, non l’onda della comunicazione. C’è un tunnel di 12 metri, noi vediamo sullo schermo la testa dell’artista che respira, fa: fff... ed è allora che l’onda inizia il suo movimento, fino a mostrarci l’uscita del padiglione russo, focalizzata su un bel punto di vista: la laguna. Possiamo vedere l’orizzonte reale, possiamo vedere il cielo reale, la vera acqua. Ed è importante, perché dietro lo schermo vediamo ciò che spesso viene dimenticato: la natura. La natura è all’inizio della nostra vita ed è la condizione più importante per sentire la pienezza del proprio essere.
Andando nella stanza seguente vediamo le finestre del padiglione russo chiuse da cinque grandi schermi: è un progetto sulla storia della televisione, ma non dimentica la realtà di Venezia, quello che c’è di naturale a Venezia, che è bello a Venezia, che è forte a Venezia, che è forte nella nostra vita. E un’acqua reale lava via le immagini televisive che scorrono sugli schermi con i tergicristalli, in modo da mostrarci l’orizzonte, ripreso da una telecamera collocata sul balcone del padiglione russo. Vediamo il nostro orizzonte. Deve essere l’arte a poterci mostrare l’orizzonte e un artista ce lo ricorda: «ogni potere per essere liberatorio deve lavare i nostri occhi e farci vedere il mondo con gli occhi puri del mattino», è una frase del famoso artista del XX secolo Alexander Rodchenko. Così, quest’opera ci mostra che noi possiamo avere gli occhi puri del mattino.
Spostandosi al pianterreno, ci si presenta un’altro contesto rispetto al primo piano. Qui si propone una riflessione degli artisti su quale sia il significato della vita e del mondo virtuale, sullo stato di una seconda realtà, che domani molto probabilmente si rivelerà una realtà più forte della televisione. Nella videoinstallazione di Andrej Bartenev, Connection Lost/Field of Lonely Hearts, vediamo delle sfere di LED che girano come giocattoli cangianti dentro uno specchio che le contiene, dando luogo a un’installazione molto bella che ci offre lo spunto per una meditazione. Sembra un’immagine da discoteca, perché la tecnologia dei LED molto spesso è usata per la pubblicità delle discoteche, ma c’è qualcosa dentro: all’interno di ognuna di queste sfere risiede un cuore che pulsa solitario, è un contatto umano. Ma intorno gira la frase “connection lost” (“connessione perduta”), simile a quella che appare sullo schermo del nostro computer e che dice: “connection lost” (“connessione perduta”). Mette in evidenza lo stato di dipendenza dal computer, noi ci sentiamo come handicappati quando la “connessione è perduta”.
Questo sentire il mondo in contatto, vivere connessi si rivela davvero un’illusione, proprio come in una grande discoteca, dove centinaia di persone vanno per stare insieme, tutti danzano, però in realtà ognuno balla da solo. Così, questa bella installazione è una metafora anche di quello strano sentimento che ci prende, ci rivela come questa nuova realtà possa essere pericolosa per noi, abbia diversi aspetti e possa porci molti problemi, almeno così sentiamo. Un senso di perdita che si manifesta anche qui alla Biennale, fra gli artisti e i gruppi presenti, presi da quest’idea del sentire e pensare insieme, immaginare che qualcosa accadrà; ma potrebbe rivelarsi un’illusione e, se la proviamo, sperando in una realtà virtuale, davvero il “paradiso” può trasformarsi in un nuovo “inferno”.
Vediamo poi la nuova installazione Last Riot del gruppo AES+F, realizzata con un’animazione tridimensionale; è la storia di un gruppo di adolescenti, che risaltano per un glamour da pubblicità, sono vestiti molto bene, si muovono con movimenti molto fashion, perché sono davvero dei modelli, ragazzi reclutati da un’agenzia di moda. Questa è la nuova realtà. Perché: cosa vuol dire nuova realtà? I nostri ragazzi ora non vogliono più andare nelle migliori scuole, ma preferiscono le agenzie di moda, abbiamo dei robot, dei bei robot. Loro sanno come vestirsi, come pensare, come muoversi e sanno che la cosa più importante è il combattimento, perché la guerra è la sola cosa che vedono nei computer game. I bambini trascorrono oggi più tempo al computer, con questi computer game, dove bisogna uccidere, piuttosto che con i propri genitori o con tutti i propri amici.
Così, come sarà la generazione futura? Gli artisti e i media hanno la visione di una generazione post-apocalittica, perché questa generazione mediatica ha l’illusione che il paradiso sia nell’apocalisse. In questo spettacolo post-apocalittico i ragazzi combattono fra loro, non sappiamo per quale ragione, in un mondo che è un ambiente costruito combinando tra loro frammenti di computer game, una guerra che porta a una distruzione illustrata attraverso l’uso della citazione. Ma i ragazzi rimangono sempre vivi, portano avanti il combattimento come gli dei dell’Olimpo della mitologia greca, perché non c’è sangue, non c’è contatto reale, né una morte reale. In questo modo perfino la bellezza dà un futuro all’inferno: gli artisti, usando la musica di Wagner, ci mostrano la nuova realtà, mettondola in relazione con la pittura di Caravaggio, con la mitologia greca, con la mitologia biblica - ci sono riferimenti alla deposizione di Cristo, alla storia di Narciso... - ma è una still life esangue, come a dire che questa nuova realtà viene presa da una vita morta, da un amore morto. Sembra apparirci come sullo schermo del computer, uno schermo televisivo sul quale osserviamo crollare le rocce, come i soldati, ma in realtà non vediamo davvero la morte e la distruzione dietro lo schermo. Così gli artisti ci dicono: “Fai attenzione! Pensa, senti e probabilmente si può trovare una via d’uscita”.
Poi usciamo fuori, dove sulla facciata del padiglione possiamo vedere il progetto Click I hope, opera dell’artista più giovane partecipante alla 52. Biennale di Venezia, Julia Milner. C’è uno schermo connesso a tutta la comunità di Internet e su di esso vediamo muoversi la frase click I hope, tradotta in cinquanta lingue; la gente può cliccare su questa frase, ma non sappiamo per quale motivo né per quale lingua clicchi, normalmente le persone cliccano sulla propria lingua o sulla lingua che sta arrivando. La lingua è il primo segno di identità, non la nazionalità né il paese, ma proprio la lingua. L’espressione I hope (“io spero”) è propria a ogni lingua e cultura, è la presentazione dei nostri desideri, delle nostre immagini vitali ed è una protezione allo stesso tempo. La gente clicca e noi vediamo come la frase dia una risposta di feedback, iniziando a pulsare, contemporaneamente è possibile vedere un contatore locale che ci fa sapere quante persone hanno attivato le varie lingue fino a questo momento, e c’è inoltre un contatore globale che ci mostra quante persone hanno partecipato. In tre giorni, da quando è stata aperta la mostra, ci sono state più di 409 persone - sto leggendo adesso - che hanno partecipato.
È una metafora della nostra accumulazione di speranze, il mondo ha bisogno di speranza, il nostro paese - la Russia - ha bisogno di speranza, ognuno di noi ha bisogno di speranza. E io penso che sia meglio che la gente clicchi hope piuttosto che clicchi kill. Così, clicchiamo hope!
Venezia, 9 Giugno 2007