Lei è da molti anni che parla della tecnica, ma questo tema quand'è che è nato, cioè quand'è che ci si è accorti della reale potenza della tecnica? Quand'è che qualcuno ha cominciato a parlare della tecnica così come può venire intesa in termini filosofici nello scenario contemporaneo?
Dunque, Heidegger afferma la destinazione dell'uomo contemporaneo alla tecnica. Quello che trovo però carente in Heidegger è che della destinazione c'è solo la parola, cioè resta ambigua in Heidegger la differenza tra la necessità che la società attuale divenga una società tecnologica e che sia guidata dalla tecnica e, invece, la possibilità – la semplice possibilità, come sembra risultare da certi auspici di Heidegger – che il pensiero calcolante sia controllato dal pensiero meditante.
Allora, se l'auspicio non è privo di senso, vuol dire che la dominazione della tecnica è una minaccia ma non una destinazione, se diamo alla parola destinazione il significato forte che secondo me le compete. Da questo punto di vista, il tema della tecnica nella filosofia contemporanea è trattato da tanti, ma forse il riferimento ad Heidegger è quello a noi più prossimo.
Volevo appunto capire questo passaggio dallo strumento allo scopo: è una cosa relativamente contemporanea, oppure una riflessione in questo senso era già stata fatta?
No, ci sono dei grandi precedenti del rovesciamento di mezzo e scopo. È già Aristotele a parlare di crematistica, dove per crematistica intende la produzione della ricchezza che non ha come scopo la vita felice e buona, ma è la produzione della ricchezza che ha come scopo l'incremento della ricchezza, di modo che in questo caso la dimensione economica da mezzo diventa scopo. Questo è un grande precedente del rovesciamento di cui parlano i miei scritti dove la tecnica, però intesa non in senso riduzionistico, semmai dopo ne parliamo, da mezzo diventa scopo.
Un secondo antecedente, secondo me rilevante, è l'eresia ariana, ovvero ciò che dal punto di vista dell'ortodossia cristiana è chiamato eresia ariana, per la quale, come sappiamo, la critica di Ario è che Gesù da mezzo per arrivare a Dio – dove Dio è lo scopo nel tragitto globale dell'uomo – è diventato lo scopo. E infatti nel cristianesimo il centro è un punto cristologico più che teologico. Insomma, la cristologia ha avuto la preminenza sulla teologia, allora anche qui c'è il rovesciamento del mezzo che diventa fine.
L'altro grande rovesciamento, il terzo, è quello di Marx. La tesi di Marx lavora direttamente in relazione a quella di Aristotele quando tratta il processo economico, dove ad esempio si parla del danaro che serve per l'acquisizione dei beni di consumo, e quindi come medio, ossia che serve nel passaggio dalla cessione di un tipo di merce all'acquisizione di un certo altro tipo di merce (per esempio, ti dò il lino e tu mi dai il grano). Attraverso il denaro, se lo scambio non può avvenire immediatamente, dove dunque il denaro è mezzo, avviene un rovesciamento per cui non è che io ti dia lino per consumare grano e tu mi dia grano per vestirti, ma ci serviamo del lino e del grano per aumentare la somma di danaro inizialmente impiegata e allora anche qui l'incremento della quantità di denaro diventa lo scopo del processo economico.
Quando parlo del rovesciamento in cui la tecnica diventa scopo intendo indicare il culmine di questa serie, che potrebbe essere ulteriormente esemplificata, di processi di rovesciamento mezzo-scopo. Un culmine che ha i caratteri a mio avviso della perentorietà, cioè è inevitabile. Allora, diciamo così: data la situazione di conflittualità tra le forze che si servono della tecnica per realizzare i propri scopi specifici, è inevitabile che lo strumento divenga lo scopo primario di queste forze e che gli scopi specifici siano degradati al livello di mezzi, sicché la formula esemplificativa potrebbe essere «non ci serviamo della tecnica, per esempio per promuovere il cristianesimo – perché è chiaro che anche il cristianesimo oggi ha bisogno della tecnica – ma ci serviamo del cristianesimo per promuovere, per incrementare la potenza dell'apparato scientifico tecnologico» o anche «non ci serviamo della tecnica per esercitare una vita buona – espressione aristotelica – ma ci serviamo della vita buona o in sede economica, per far funzionare bene le imprese – quel che si dice l'etica delle imprese – oppure ci serviamo della vita buona per aumentare, daccapo, il volume globale di possibilità tecnologiche a disposizione dell'uomo».
Ancora a proposito della tecnica, lei dice che la tecnica è il supremo strumento di salvezza a disposizione dell'uomo. Che genere di salvezza, cioè in che senso "la salvezza", qual è la salvezza dell'uomo oggi?
Con il tramonto del tipo di sapienza che domina la tradizione, cioè la sapienza epistemico-filosofica, o meglio "epistemico metafisico teologico filosofica", dove la salvezza significa l'accordo dell'uomo col principio della totalità dell'essere e quindi, perlopiù, la salvezza è una salvezza ultramondana – vedi ad esempio Platone in merito alla sorte dell'anima, o il tema della salvezza dell'anima nelle sue varie formulazioni fino a Hegel – la salvezza non tanto come immortalità dell'anima individuale, ma come immortalità del principio trascendentale che c'è in ogni uomo. Ma oggi, col tramonto di quel tipo di visione, la salvezza appare di carattere assolutamente mondano: ora il tema è la sopravvivenza dei popoli in un mondo sempre più pericoloso, sempre più affollato, sempre più affamato, sempre più conflittuale nelle sue parti e tra le sue parti. Allora la salvezza è, innanzi tutto, lo strumento che consente di sopravvivere. E che lo consente a coloro che oggi sono i gestori della tecnica, cioè i popoli ricchi che hanno acquisito e intendono mantenere il privilegio di gestire e di amministrare il potenziale tecnologico.
Detto questo, non basta chiedersi che tipo di salvezza perseguiamo (che è quello di cui abbiamo finora parlato), si tratta piuttosto di capire – e questo è pregiudiziale rispetto a quanto detto or ora – che la tecnica di cui parlo non è la tecnica tecnicisticamente intesa, o scientisticamente intesa, macchinisticamante intesa, matematicistica e riduzionistica. Ecco, la tecnica di cui parlo, e che è destinata al dominio, nel senso della destinazione di cui parlavamo nella prima domanda, è la tecnica che ascolta sempre di più il risultato essenziale della filosofia degli ultimi duecento anni. È la tecnica in sintesi con questo risultato. E che cos'è dunque questo risultato? È l'accertamento, da parte della filosofia degli ultimi duecento anni (e qui per esemplificare citiamo Nietzsche, ma prima di Nietzsche e forse ancora più potentemente Leopardi, e dopo, altrettanto potentemente, se non ancora di più, Giovanni Gentile...) – accertamento, dicevo, del risultato essenziale della filosofia contemporanea: la coscienza espressa in modo incontrovertibile, ovvero coscienza inevitabile, che quell'ordinamento di cui abbiamo parlato prima, che domina la tradizione occidentale e che ha al suo centro Dio, ebbene, quell'ordinamento è impossibile.
Non può esserci alcun Dio immutabile – per esempio, così si esprime Zarathustra – perché se esistesse un Dio creatore all'uomo non resterebbe più nulla da creare. Ma l'uomo è evidentemente creatore, cioè è evidentemente principio del divenire, dunque il concetto di un Dio creatore è il concetto di una impossibilità, perché renderebbe impossibile proprio quel divenire che per tutta la cultura e la civiltà dell'Occidente è l'evidenza assoluta. Ecco, mostrare l'impossibilità di Dio significa: mostrare che non esiste alcun limite assoluto all'agire dell'uomo e, dunque, a quella forma suprema dell'agire che è la tecnica. Quando la tecnica incomincia ad ascoltare questa voce che le dice «tu non hai limiti», la tecnica acquisisce una potenza essenzialmente superiore a quella che ad essa compete in quanto sia ancora intesa come una tecnica inscritta nei parametri della tradizione occidentale, cioè in in quanto tecnica che deve tener conto dei limiti (vedi per esempio i limiti che il cattolicesimo stabilisce nei confronti della fecondazione artificiale e della manipolazione genetica).
Quindi, lei mi ha domandato che cos'è questa «salvezza». Ebbene, essa è sì la «salvezza mondana», però è la salvezza in cui la potenzialità estrema della tecnica deriva alla tecnica dalla sua unione – che è in fieri, intendiamoci – con questo risultato essenziale che chiamo peraltro il sottosuolo della filosofia contemporanea, perché gli stessi grandi protagonisti della filosofia contemporanea raramente si rendono conto della potenza con cui essi hanno a che fare. La potenza filosofica, intendo.
Mi riallaccio al tema del nichilismo. Il nichilismo, quindi la suprema follia dell'Occidente, come lei lo ha definito, la nientificazione di tutte le cose, il pensare e il vivere tutte le cose come se fossero niente. Quella follia, dunque, che sembra poter "produrre-distruggere" tutte le cose nel senso per così dire più "consumistico" del termine. Lei intravede una qualche luce in fondo a questa oscura situazione, ovvero la possibilità che vi sia un nuovo inizio di civiltà intesa magari con la C maiuscola? Sembra che, date le premesse, si stia un po' scivolando verso il basso, ad esempio per quanto riguarda la qualità della cultura... ha mai pensato, ragionato intorno a questa possibilità?
Dunque, innanzi tutto lasciamo stare il consumismo, perché il consumismo è un aspetto molto derivato rispetto al livello in cui si trova il nichilismo, nel senso indicato nel mio discorso che non è il senso che Nietzsche dà al nichilismo, non è il senso che Heidegger dà al nichilismo, tantomeno è il senso che Jacobi dà al nichilismo.
No, non è vero che il nostro tempo è una decadenza. È la rigorizzazione estrema delle premesse costituite dalla filosofia greca. Una volta che la filosofia parte in quel modo, e cioè in quel modo grandioso ma insieme gravido di conseguenze che possono presentarsi in luce negativa, ma comunque grandioso, allora la forma più rigorosa dell'esser greci è la civiltà della tecnica. Quindi non si va discendendo, si va salendo come rigore... certo questo bisognerebbe approfondirlo.
Allora qual è questo modo iniziale? È quello di legare il senso delle cose a queste parole-chiave, grandi, ormai diventate ovvie, ma piene di enigmi, che sono essere e nulla, legare le cose – quindi la nascita, la morte, il mangiare, l'amore, l'uccidere – al senso dell'essere, ebbene: altro è morire davanti al nulla sapendo che si va nel nulla (e questo incominciano a farlo i greci), altro è morire senza sapere alcunché del nulla. Ecco quindi l'intera serie di significati e di opere dell'Occidente che ad un certo momento viene avvolta da questa rete ontologica. E tutte le cose, in primo luogo le cose del mondo, appaiono come caduche, temporali, provvisoriamente emergenti dal nulla. E poi, con la filosofia del nostro tempo, con quei duecento anni di cui le parlavo prima, si arriva appunto a dire che, essendo morto Dio, ogni eterno, ogni verità, tutto è diveniente. Allora, se tutto è diveniente, l'unico valore in campo è la potenza con cui si controlla il divenire. Questa potenza è la tecnica perché, se non esiste una verità assoluta, c'è la subordinazione alla tecnica da parte di quelle forze della tradizione che invece ancora in modo più o meno diretto sono legate al riconoscimento del divino e della verità assoluta.
Ora, qui sto dicendo: se si parte dai greci si arriva alla civiltà della tecnica. La civiltà della tecnica si conclude con quello che si può chiamare, senza tema di essere utopici, il paradiso della tecnica. Questa nostra è la situazione intermedia in cui c'è lo scontro tra popoli ricchi e privilegiati e popoli poveri. Il paradiso della tecnica è quello in cui i bisogni fondamentali dell'uomo sono soddisfatti, però sono soddisfatti con una logica che è la logica ipotetico-deduttiva della scienza e quindi la felicità del paradiso della tecnica è una felicità ipotetica, e quindi il paradiso è ipotetico. E un paradiso ipotetico è un inferno. Allora, in questo senso, se c'è una progressiva rigorizzazione del passo iniziale, non c'è una decadenza, non c'è un impoverimento, un indebolimento concettuale, anzi c'è un potenziamento concettuale che però porta alla tragedia. Porta appunto alla forma estrema del tragico: proprio il momento in cui l'uomo riesce a risolvere tutti i suoi bisogni, a possedere il massimo della felicità, è il momento stesso in cui dubita della sicurezza irrevocabile della propria felicità. Lei sa che quando si è felici si teme massimamente di perdere la felicità. Ecco, quello allora è il momento tragico. Ma anche il momento in cui si apre la possibilità di accostarsi a un nuovo senso della verità.
Ora, da decenni, ahimè, vado mostrando che questo quadro in cui il protagonista è l'Occidente – perché ormai l'Occidente ha invaso il pianeta – questo quadro può essere qualificato come la storia dell'errore, la storia della follia, solo in quanto già da sempre la non follia appare. Quindi, non è che l'uomo sia semplicemente nel liquido nero della follia, o nell'ombra della follia: l'uomo è nell'ombra della follia in quanto già da sempre è nella luce della non follia, solo che il linguaggio non testimonia la non follia. L'uomo è l'apparire eterno della non follia, e cioè è l'apparire eterno del risolvimento della totalità delle contraddizioni che costituiscono la follia. In questo senso si può dire – è una frase che uso nei miei scritti – che noi siamo la Gioia. Quindi, diciamo: è all'interno dell'apparire della nostra eternità, e della gioia in cui noi consistiamo, che l'Occidente può essere qualificato come follia. L'eternità di cui qui si parla, però, non ha nulla a che vedere con l'eternità di un Dio e degli dei della tradizione che trattengono per sé l'eternità, e lasciano al mondo e all'uomo la caducità. Questa è la caratteristica soprattutto del Dio cristiano e del Dio metafisico-teologico, ma anche degli dei pregreci (i quali sono comunque dei privilegiati rispetto all'uomo: hanno un'eternità che l'uomo non possiede). No, l'eternità di cui qui si parla non è quella. E, naturalmente, tutto questo discorso rimane un mito fintanto che – ecco, attenzione, questo è il punto più importante – fintanto che non si vede il fondamento di queste cose, poiché se queste non hanno un carattere filosofico, rimangono appunto "storie": sono soltanto miti, semplici racconti. Si fa filosofia – e quindi il nostro non è un incontro filosofico – si fa propriamente filosofia, insomma, solo in quanto si vede il fondamento di ciò che si dice, perché altrimenti si tratta piuttosto di religione, di fede, di mito, di racconto o metaracconto...
Questo significa che stiamo lasciando da parte proprio quel che rende "filosofico" ciò di cui stiamo parlando. E questo va messo adeguatamente in rilievo. Ecco allora che l'eternità di cui vado parlando richiede un cambio di prospettiva: la Tragedia è, appunto, all'interno della Gioia...
Lei mi chiede se tutto andrà a finire male in questo quadro. No, la tragedia all'interno della gioia è vista – l'immagine è di Jung – come una tempesta che si vede stando sulla corona dei monti che circondano la valle in cui essa si scatena. Allora, noi siamo senza saperlo questo star sopra la tempesta. Un'altra frase che pronuncio frequentemente e che qui ripeto volentieri anche a lei, è che noi siamo dei re che credono di essere dei mendicanti. O, ancora, dei... stavo per dire dei «divini» ma mi correggo subito, perché il concetto di Dio in relazione a questo senso dell'eternità è troppo poco. «Dio è troppo poco»: è la critica che il sottoscritto muove al cristianesimo. E questa, diciamolo chiaramente, non è una critica anch'essa riduzionistica che dica «ah, Dio... sogno reale a questo mondo...». No, è il contrario: Dio è l'espressione di un atteggiamento essenzialmente pessimistico. Ma noi non abbiamo bisogno di un salvatore perché siamo già da sempre salvi. Però è quel nostro essere – e questo è il terzo concetto di salvezza che è venuto fuori: quello della tradizione, quello mondano e questo supremo – per cui noi non abbiamo bisogno di essere salvati dal nulla, perché voler salvare l'uomo dal nulla, oltre ad essere quell'errore essenziale che qui non possiamo mostrare per i motivi detti prima, è anche l'omicidio originario, perché pensare che l'uomo è polvere, che ha bisogno di essere tratto fuori dal nulla, ossia "creato", e che poi ridiventerà polvere ritornando nel nulla, e che quindi occorrerà un salvatore che gli dia la grazia di diventare corpo glorioso risorto... (questa è l'esemplificazione cristiana, ma si potrebbe dire qualcosa di analogo per tutte le altre religioni).
Ebbene, tutto questo discorso prima riduce l'uomo a nulla, ossia pensa l'uomo stesso come nulla (questo è appunto l'omicidio originario che mette l'uomo nel sepolcro nel nulla), dopodiché arriva il salvatore che magari è quello stesso che ha posto l'uomo nel sepolcro, il quale tira fuori l'uomo dal sepolcro, ma tira fuori un cadavere che ha bisogno di essere appunto salvato, nutrito, coltivato, protetto... Ecco, quindi basta aprire un po' i miei libri per vedere come la storia della tragedia – e cioè dell'orrore, e cioè dell'errore – è all'interno di una dimensione che non ha nessuno di questi caratteri, nessuno di questi tratti presunti, ma è la dimensione di questo diverso senso dell'eternità, per cui ogni stato del mondo è eterno: non l'eternità privilegiata – ripeto – di un Dio rispetto al mondo... ma quella che compete a questo stesso istante. In questo istante c'è lei, ci sono io, c'è questa stanza, c'è il chiarore del giorno, ci sono le prime stelle, le galassie... Questo istante, con tutta l'infinità di determinazioni che contiene. Ecco, questo è un eterno.
E basta che io alzi una mano perché appaia un istante già connotato e colorato diversamente. E anche questo istante è eterno e, diciamolo tra parentesi, dal punto di vista della tesi dell'eternità di ogni istante del mondo si ha qui una curiosa vicinanza con la teoria della relatività. Solo che le due teorie hanno logiche essenzialmente diverse, quindi è una parentela spuria. Però per chi si ferma alle tesi – e noi ci stiamo fermando alle tesi – sappiamo che la teoria della relatività (anche se si riferisce soltanto agli stati crono-topo-quadridimensionali) Einstein la esprimeva dicendo che non c'è una differenza tra il presente che è, il futuro che non è ancora, e il passato che non è più, ma presente passato e futuro hanno lo stesso statuto ontologico: sono. Un discepolo di Hilbert, il matematico Weil, diceva appunto «il mondo è, non accade». Però queste sono le consonanze di tesi che vanno mostrate a coloro che possono stupirsi della tesi in quanto tale, senza sapere che si stupiscono in modo analogo a quello in cui potevano stupirsi, ai tempi di Copernico e Galileo, coloro che si sentivano dire che il sole sta fermo mentre loro lo vedevano invece muoversi.
Un'ultima domanda riguarda il saggio dal titolo “Il grido” che sta nel suo libro «Il Parricidio mancato», in cui lei parla della musica e dell'esistenza di una scissione tra musica e società. Lei ha detto appunto che la musica diventa una evasione provvisoria dai nostri problemi reali...
Dico che quando è intesa in modo inadeguato è intesa così.
Ecco, volevo capire di più questo concetto...
Quando non si capisce niente della musica allora la si intende in questo modo. Quando non si capisce niente dell'arte – e non capire niente vuol dire: quando si ignora la genesi dell'arte – allora la si intende come evasione provvisoria. Invece l'arte, come la poesia, come la musica, sono qualcosa di essenziale perché, e qui ritorniamo al tema di prima: se i greci pensano che le cose sono caduche e temporali e quindi finite e quindi provvisorie... «qual è il bene maggiore dell'uomo» chiedeva il Re Mida al Sileno? Risposta, «non essere, non essere mai nato». Prima non vuole rispondere, ride e dice: «stirpe infelice, il bene maggiore è non essere, non essere mai nato», e siccome questo, ormai sei nato e non puoi ottenerlo, il bene maggiore è per te finire il più presto possibile. Il greco è in questa dimensione tragica, è la nascita della tragedia che poi culmina in quella tragedia di cui parlavamo prima a proposito del paradiso della tecnica. Allora, qual è l'effetto di una relazione in cui tutte le cose sono poste in relazione al nulla?
Prima ci siamo chiesti: che cosa vuol dire morire di fronte al nulla? È una morte felice rispetto a quella di chi la intendeva, prima dei greci, come un lungo viaggio... è forse una morte più felice? No, allora il senso greco del divenire produce l'angoscia estrema. E quando si giunge al terrore estremo... Occorre tener presente che quando, nel tradurre Aristotele, si dice che la filosofia nasce dalla meraviglia si traduce male quel testo. Infatti thauma non va tradotto con meraviglia, perchè thauma vuol dire semmai angosciato terrore. Quindi la filosofia nasce piuttosto dal terrore, dalla paura. Anche Nietzsche afferma che la filosofia nasce dalla paura, ma non fa che riproporre quello che già dicevano Platone e Aristotele. Ora se, come dicevamo prima, il divenire genera angoscia, l'angoscia genera la volontà di salvarsi dal terrore. Salvarsi appunto dal dolore e dall'angoscia.
Quando noi usiamo la parola poesia, occorre ricordare che tale parola viene dal greco poiesis, e poiesis vuol dire produzione. Inizialmente, dunque, la poesia è lo strumento col quale l'uomo intende salvarsi dal pericolo, dall'angoscia, dal dolore, quindi essa è tutt'altro che un fatto puramente culturale, intellettuale, accademico, ossia espressione di un lusso sovrabbondante e in sostanza inutile. Proprio questa è l'interpretazione che vede l'arte nelle sue forme che ormai sembrano aver perduto il contatto con la festa arcaica, dove l'uomo raccoglie invece l'insieme dei rimedi per combattere il dolore. E li raccoglie all'interno di un luogo dove i singoli cantano all'unisono. Sappiamo infatti che in molte popolazioni primitive la festa incomincia con un urlo disarmonico che va progressivamente componendosi fino a diventare un unisono.
Quando nella festa arcaica l'urlo disarmonico diventa un unisono, incomincia ciò che chiamiamo musica, cioè l'accordo su una identità che però non è certo priva di significato, proprio in quanto si fa festa per prendere posizione rispetto ai pericoli della vita. Allora la festa che cos'è? È sì, creare il grido, il quale rispecchia i vari modi in cui l'uomo grida quando combatte, uccide, fa l'amore, si sacrifica, nasce, muore... Ma la rievocazione di tutte queste forme del grido è la costruzione dell'immagine, soprattutto di quell'immagine sonora che unifica le disarmonie, cioè i vari modi differenziantisi in cui si reagisce di fronte al pericolo della realtà: dal grido originario ecco che poi, un poco alla volta, vengono fuori anche quelle forme della cultura umana che sono il mito, la musica in senso stretto, la sapienza... Dalla festa, al cui centro sta certamente il grido, viene dunque la diaspora del mito, della sapienza tecnico-sapienziale e così via...
Brescia, 11 Giugno 2004