La Critica

Arte e design: la clessidra della forma complessa

di Domenico Scudero (*)

 

Sono passati poco più di dieci anni da quando la Biennale del 1990 definiva con assoluta foga la priorità concettuale/segnica dell'oggetto artistico nei confronti del campo significante. La sua determinazione era talmente forte da codificarsi in quanto percorso allusivo della contemporaneità e l'oggetto diveniva il simbolo stesso di un'epoca ultrasegnica, dove la qualità stessa della materia e la sua alterazione in quanto prodotto tecnologico assumeva una valenza talmente simbolica da oscurare qualsiasi altro segnale di artisticità. Poco importa se Koons avesse poi scelto da lì a poco di produrre "il paradiso" attraverso la pittura, che era comunque una pittura tecnologicamente iperreale, o forse post-reale.

In quegli anni tutta l'arte giovane in Italia si esprimeva - la scuola di Via Lazzaro Palazzi, i Piombinesi ed il gruppo di Genova, poi radunato nel Medialismo - attraverso il raffreddamento oggettuale. In ciascuno di questi esempi, ma soprattutto per i Piombinesi le premesse inalienabili dell'oggetto esprimevano già buona parte della stessa ragione d'esistere. Anche guardando altrove la fortissima identità dell'oggetto prevaricava qualsiasi altro soggetto significativo; e questo oggettivismo post-reale era anche un modo altero per osservare il sistema sociale, la sua analisi del profondo attraverso la forma estesa della superficie produttiva, quale appunto è nella logica stessa del design e delle sue applicazioni.

Anche quando l'arte presiedeva una volontà rappresentativa dell'immagine visiva, quale ad esempio la fotografia - Alfredo Jaar, Gunther Forg, Barbara Kruger, per citarne qualcuno - questa volontà si realizzava per mezzo di una sorta di visione pellicolare che quasi riproduceva nei suoi ambiti limitrofi la stessa progettualità che è nel design. Adesso tutto ciò lo chiamiamo postmoderno adulto, poiché ne valutiamo l'estetica nella sua irraggiungibile volubilità d'immagine. Celant aveva dato di questo fenomeno una visione "inespressionista", Bonito Oliva ne discuteva in termini di processualità trasversale, altri, come Barilli - che nella Biennale del '90 era il curatore di Aperto - valutava la ragione dell'oggetto in ordine alle categorie di "caldo" e "freddo".

Naturalmente sono molteplici le categorie circostanziali che ciascuno di noi può approntare, ma nel caso del sistema a cavallo degli anni Novanta la complessità dell'oggetto esprimeva senza ombra di dubbio un raffreddamento progettuale - quale appunto quello da design - e che su Flash Art era divenuto parte integrata del discorso sull'arte attraverso la sezione curata da Giacinto Di Pietrantonio. Il design era l'arte perché l'arte era design in quegli anni. Gli oggetti di produzione erano presi, sottratti ed esposti: quando ciò non avveniva, e lo si vede anche nelle produzioni dei giovani di allora, come Cavenago ad esempio, l'azione artistica correva similmente e parallelamente all'azione progettuale del design.

Tuttavia approntare un discorso sulle valutazioni etiche di un soggetto così fortemente caratterizzato dalla volubilità quale è l'arte contemporanea definisce un percorso che non può essere assoluto. Ma ad un immediato sguardo indietro verso quei pochi anni che ci separano dall'apice del postmodernismo adulto, non può rimanere obsoleta la complessa circostanza che ha di fatto legato arte e design - nelle sue declinazioni più variegate - sino a non poterne più distinguere eccessi o variabili. In una delle mostre particolarmente indicative di quei primi anni Novanta "Un art de la distinction" (Abbaye Saint-André, Centre d'Art Contemporain, Meymac, 1990) l'indifferenza congenita nei confronti della diversità oggettuale e la ricerca di una misura estetica conformata all'ipotesi di un progetto delineato dalla tecnologia risultano essere i valori comuni ad un complesso segnico dell'arte di successo; le sculture di John Armleder e di Guillame Bijl sono sostanzialmente la metafora concreta dell'identità "designed" nell'ipotesi di una estetica del vivere contemporaneo uniformata ai criteri del quotidiano ed in cui la minima alterazione della usufruibilità è il segno dell'invenzione.

Così il tavolo scomposto da Jean-Marc Bustamante o il letto distorto da Robert Gober sono partecipazioni concrete alla vita del progetto del vivere e disegnano l'esasperata appropriazione dai territori del progetto. In quegli anni Ange Leccia espone televisori e Barbara Kruger da pubblicitaria di successo diviene pubblicitaria della sua strategia pubblicitaria in un gioco ossessivo di rimandi compulsivi che oscurano ogni alterità estetica e non uniformata alla ideologia sottesa: la forma tecnologica. Quella ideologia che era già data per defunta nel crollo dei sistemi politici si ridefiniva nei sistemi rappresentativi del potere di cui la tecnologia era ed è snodo fondamentale.

Il codice a barre quale simbolo sacrale dei nuovi mercati dipinto da Pierre Cornette de Saint-Cyr non avrebbe tuttavia retto a lungo l'apoteosi di questo nuovo "impero" degli oggetti di consumo del mercato globalizzato. Già in Post-human (1994) la ricomposizione di un ordine del corpo, sebbene fosse un corpo munito di innumerevoli ed iperboliche protesi costituisce il movimento inverso del pendolo; se infatti l'oggetto "designed" albeggia ancora, il frantumarsi del moloch estetico del postmoderno adulto è nel lacerarsi del progetto fra contenuto e contenitore. Se in Post-human questa dicotomia fra forma e funzione, fra estetica ed etica risulta solamente accennanta è con l'apparire degli YBA's (Young British Artists) che l'arte comincerà a declinare l'invito suadente del prodotto: lo sguardo dissacrante di queste giovani generazioni viene simboleggiato dall'oggetto "animale" tagliato e ingabbiato da Damien Hirst nel contenitore di formalina dal profilo hi-tech. Un richiamo immediato al volto nascosto di quella tecnologia che solo pochi anni prima imponeva il suo sguardo severo cancellando le smagliature delle carni, la decadenza della forma umana, troppo umana.

In questo scarto di tempo il significato stesso di progetto hi-tech è stato sconvolto; in buona parte per l'avvio della tecnologia digitale che acquista un suo peso sociale a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Alla successiva deificazione del mito di Internet quale panacea per i mali del mondo subentra la consapevolezza di una eccessiva credulità nei confronti della ripetizione - ed in un certo modo quindi nel prodotto progettuale -, qual è appunto la differenza, la diversità, il limite come orizzonte veritiero dei programmi umani e delle sue ipotetiche protesi in via di perfezionamento: cos'è infatti la memoria elettronica se non l'ipotetica ripetizione attivata per ripercorrere un tracciato labirintico e numerico?

E se la ripetizione è la base tecnologica della recente funzione formale elettronica allora ciò che fa la differenza è ciò che caratterizza in questa ripetizione l'agire umano, umanizzato, distorto. L'arte contemporanea non si dilegua dal mondo della tecnologia e del "progetto" ma ne acquisisce piuttosto i movimenti anteriori al suo formalizzarsi, ovvero si fa indagine sul lavorio cerebrale, o acquisizione di indagine sui lavori di gruppo, di squadra o anche di impresa. Il ragazzino gigantesco di Mueck che sembra fissarci sgomento poiché ancora inconsapevole della sua forza "superiore" da uomo di un futuro maggiormente consapevole, non deve farci dimenticare la dissacrazione sarcastica e giullaresca di Cattelan.

Il mito della perfezione artistica non sembra risiedere più nella fucina dell'elettronica quanto invece nella stessa identità dell'uomo, o meglio della donna, ritratta da Vanessa Beecroft. Questa complicità fra arte e vita si realizza negli appunti di Grigely ma anche nel plumbeo universo di Josef Dabernig, nei cui frammenti video, assurdi e totalizzanti nel bianco e nero rarefatti, vediamo naufragare la perfezione del mondo estetico, con la conseguente sottolineatura dell'imperfezione dell'esserci. I paesaggi e la vita reale d'altra parte non sembrano ormai colpirci ed emozionarci più di tanto e così abbiamo la necessità di elaborarli, per renderli ossessivi e inquietanti come solo i sogni remoti sanno essere, o anche le immagini e le installazioni di Nathalie Grenzhaeuser e Liza May Post.

In ciascuno di questi casi l'estetica del mondo sembra svanire, come se non avesse più alcun significato il suo essere cosa definita da quella forma, poiché appunto la sua particolare dedizione è quella di testimoniare un esistere eticamente oggettuale del mondo. Un esistere che è nell'analisi dell'antecedente, quasi che l'arte avesse compiuto il percorso di clonazione del mondo produttivo e ricadesse indietro nell'agire interno della sua forma, come nel caso delle note installazioni post-reali di Sarah Sze in cui il disfacimento dell'immagine lapidaria della tecnologia avviene attraverso lo svisceramento dei canali comunicativi; essa ci pone in rapporto stringente con la virtualità dandoci di questa la visione notturna che è appunto sguardo interno, circospetto sulle relazioni di forma e contenuto che si contendono il dominio del reale; qui il filo elettrico, lo spinotto, il microchip, sono certamente luoghi interni alla fiction dell'immaterialità.

La post-realtà dell'arte e della forma, la fiction immateriale si concludono con lo smascheramento lì dove il microscopio della ricerca tecnologica decide i labirinti relazionali che danno origine ai percorsi di memoria e di funzione nella macchina del presente, in vista già di un futuro in cui la progettualità risulti essere consapevole del suo peso specifico, ovvero di ciò che negli anni dell'apoteosi virtuale avevamo dimenticato: di quella radice reale che è anche nell'esasperata tecnologia dell'elettronica, il peso specifico di un file, la sua impossibile riduzione ad oggetto, ma allo stesso tempo la sua irriducibile consistenza materiale.

Roma, 30 Aprile 2003

(*)Un estratto di questo scritto è stato pubblicato su "Diid", Gangemi Editore, Roma 2003.


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