La Critica

Cosa si nasconde dietro la «Global-art»

di Domenico Scudero
 
 

Fra gli aspetti del nuovo contesto contemporaneo il sistema dell'arte s'impone per una riflessione particolare. Abbiamo visto negli ultimi anni come particolari identità della politica al potere si riflettano per una strategia di crescita sociale con l'azione di sviluppo dell'arte contemporanea. Sono gli anni del postmoderno maturo a riproporre l'uso attualizzato di termini quali Autonomia, Territorio, Tradizioni, Decentramento, opposti al deperimento di ogni significato ideologico, e all'interno di termini quali Globalizzazione, New-Economy, Neocolonialismo; in questi anni di tumultuosa, e spesso inspiegabile crescita economica accompagnata da tracolli epocali, perdita di identità, sommovimenti climatici, la chiusura all'interno di una identità locale, accogliente perché a misura d'uomo, costituisce probabilmente il carattere più evidente e determinante di un'epoca paradossalmente siglata dal concetto di «globalizzazione». Allo stesso modo della politica l'arte si dibatte fra tensione verso una sua propria identità regionale e volontà di rappresentare nel più vasto congresso dei popoli una precisa personalità sovranazionale.

La duplice vocazione che è nell'arte contemporanea, ovvero quella di poter rappresentare la ridondanza di un'autentica specificità regionale in un linguaggio accessibile a tutti, ne hanno fatto una disciplina attraverso la quale gli stati sovrani hanno voluto determinare un proprio peso specifico, farne un simbolo del potere acquisito nel paesaggio della «società delle nazioni». Uno Stato con una sua forte rappresentatività artistica viene visto e osservato con maggiore attenzione di uno che ne sia sprovvisto. L'arte contemporanea diviene sempre più nel corso del postmoderno maturo un veicolo di commercializzazione nazionale proprio come fosse un «logotipo», un enorme spot testimoniale di una identità politico-sociale proiettata in ambito internazionale.

Attraverso l'arte si manifestano apertamente nuove tendenze politiche, nuove identità (1). Se questo implica una necessaria rivalutazione del soggetto «arte» nel novero delle attività fondamentali, dall'altra parte questo ha significato anche un diretto asservimento di quest'arte «prescelta» ai motivi ed alle dinamiche utilizzabili dal sistema di potere in atto. Non si tratta di questioni da poco conto. Quale credibilità di denuncia può avere infatti quest'arte programmaticamente sostenuta dal sistema sociale che essa stessa dovrebbe in qualche modo giudicare, criticare? Il caso emblematico rappresentato da Y.B.As. (Young British Artists) e le numerose vicissitudini di mostre quali «Sensation» la dicono lunga sulle reali relazioni ed i necessari vincoli suggellati da un'arte sostenuta dal sistema sociale, anche se attraverso la libera imprenditoria (2).

L'arte Y.B.As è la migliore rappresentazione di una stretta relazione fra potere politico ed istituzionale e risorse sovversive; purtroppo bisogna pur affermarlo, tutto ciò che viene allestito per conto e con i contributi di un determinato «potere» è una legittimazione del suo controllo e della sua eventuale lungimiranza. Il carattere «dissacrante» di quest'arte è solo un corredo «burlesco» ed accessorio della ben più complessa organizzazione di potere che ne permette l'esecuzione, ne sponsorizza l'esibizione e ne beneficia per il clamore suscitato (3). In ogni caso le relazioni proprie o improprie fra creatività artistica direttamente sostenuta dal potere politico per identificare una determinata identità, sia essa soggetto nazionale o semplicemente regionale, manifestano la possibilità che la disciplina complessa dell'arte sia strumento d'immagine e che il suo diretto controllo sfugga all'arbitrio dell'artista, come ogni semplice responsabilità; anche in questo campo «Sensation» offre numerose deroghe al senso partecipativo di ogni artista nei confronti del proprio lavoro.

 



Maurizio Cattelan & Jens Hoffmann, 6th Caribbean Biennal, 10 -17 nov. 1999


L'idea sostanziale che se ne ricava è che l'artista una volta inserito in un determinato contesto venga spogliato da ogni protocollo di responsabilità successivamente devoluta di volta in volta all'organizzazione, alla società, o al mecenate che ne gestisce il percorso; il fenomeno evidenzia sempre più il significato di un'arte predisposta a svolgere un ruolo d'immagine ad uso e consumo dei grandi poteri. Proprio per questo motivo si è prestata tanta attenzione alle differenti identità regionali; la vetrina proiettiva offerta dalle grandi manifestazioni istituzionali, ed il loro numero crescente, dimostrano ancora una volta l'importanza di rappresentare per ogni sistema politico che voglia avere una sua propria identità una precisa fisionomia «estetica» che serva da veicolo di primo impatto per la successiva verifica nei differenti campi dello scambio politico ed economico.

D'altra parte l'emergenza di una così complessa strategia d'immagine ha costruito nuovi percorsi per nuovi generi d'arte posti a rappresentare non tanto un'ipotesi critica sulle complessità del tempo odierno, ma la pura apparenza immediata di un contesto socio-politico che attraverso quell'identità oggettuale vuole essere giudicato (4). Alla critica d'arte che si pone come scopo quello di individuare le reali emergenze spetta il compito di smascherare i nuovi aspetti dell'accademia «globale» quella ovvero nascosta dietro l'ambigua maschera del regionalismo e della molteplicità dei «punti di vista» per sottolineare invece il più becero e smaccato asservimento alle logiche di potere delle multinazionali ed ai loro interessi di controllo economico a partire dalla gestione dell'informazione e della sua immagine veicolare (5). 

 

Roma 14 aprile 2001


Note

(1) «Sensation» presentata a Londra e poi successivamente proposta a New York presso il Brooklyn Museum risulta essere una delle operazioni emblematiche e controverse dei rapporti fra arte e potere negli anni Novanta.

(2) Si veda Jacopo Benci, «Immagini del vuoto», in Opening n.33-34, Roma 1998. «La mostra "Sensation" — scrive Benci — è l'ennesima consacrazione di un gruppo di artisti residenti a Londra e denominati "Young British Artists" YBAs o "Britpack" emersi a partire dal 1988 e via via acquistati dall'onnipotente Charles Saatchi. (...). Un utile complemento del catalogo della mostra è il volume di Johnnie Shand-Kydd, Spit Fire. Fotograph from the Art World London 1996 - 1997, Thames & Hudson/Violette Editions, London 1998. (...). L'(auto)compiacimento di queste fotografie è a tal punto eccessivo che insieme rattrista e diverte; forse l'unico vero interesse di questo libro sta nel suo essere una ahimé perfetta manifestazione di quell'era del vuoto acutamente descritta da Gilles Lipovetsky».

(3) Si veda ad esempio il percorso di Maurizio Cattelan il quale dimostra sempre più che è possibile produrre opere «critiche» solo dall'interno del potere e con il suo beneplacito: poiché l'unico scopo del sistema dell'arte è quello di produrre «denaro» simbolico l'idea critica che è interna al suo discorso è un utile accessorio, del tutto secondario, in visione dell'utilizzo funzionale dell'oggetto in quanto rappresentazione della lungimiranza del potere; la volontà del Berlusconi politico di far organizzare una mostra con i manifesti «truccati» della sua campagna elettorale è una lampante conferma di come il sistema di potere oggi si manifesti attraverso l'eliminazione di ogni segno critico acquisendolo come proprio.

(4) Quale figura rappresenta meglio l'idea dell'Arte della Globalizzazione, un'arte quindi fondata sul meticciato dei linguaggi, sulla comunicazione totale, sulla «diversità», di quella espressa dalla cosiddetta Biennale dei Carabi? Un evento «sapientemente orchestrato» di cui si sono resi protagonisti Olafur Eliasson, Douglas Gordon, Mariko Mori, Chris Ofili, Gabriel Orozco, Elisabeth Peyton, Tobias Rehberger, Pipilotti Rist, Wolfgang Tillmans, Rirkrit Tiravanija, Vanessa Beecroft, curata da Maurizio Cattelan e Jens Hoffmann. L'«evento straordinario» della Biennale dei Caraibi di cui «tutto il mondo dell'arte internazionale che conta, parla (...)»(Giancarlo Politi, Flash Art 219 p.51), ci offre anche l'opportunità per riflettere sulla condizione reale dell'arte contemporanea, sulla sua viscerale ipocrisia: quest'arte così politicamente corretta, giusta, perfetta perché realizzatasi pienamente nel mercato, gaudente nel suo esercizio dell'esserci è talmente in linea con i "desideri" del mondo da riuscire persino a fare del proprio narcisismo e divertimento un'opera d'arte, nel grande rispetto e nell'ammirazione dei potentati artistici.

In realtà quest'arte apparecchiata ai capricci di un mercato insalubre è lo specchio fedele di un potere fondato sulla sopraffazione bestiale, in cui il successo dei soldi è l'unico metro di valore. Dopo la Biennale dei Caraibi offerta come una «vacanza premio» ai meritevoli, il regime della società «aziendale» potrebbe imporre fra il plauso dei potentati e di cotanta critica d'arte una giusta "selezione" punitiva verso coloro che non ne condividono le condizioni d'esercizio. Si veda Alison M. Gingeras, A sociology Without Truth, Parkett 59, 2000.

(5) In un modo più approfondito si potrebbe senz'altro sostenere che proprio l'esercizio critico sia alla base dell'opposizione alle dinamiche di potere manifestate attraverso l'immagine dell'arte; si ricorderà che l'analisi sull'opera concettuale, espressa da Joseph Kosuth nel suo L'arte dopo la filosofia, USA, 69, ed. it. Costa & Noland, Genova, 1987, si è sviluppata a partire dalla consapevolezza della strumentalizzazione dell'arte Minimal e dell'Environment sostenute dai Trust e dalle multinazionali. Il percorso critico dell'arte si è poi affievolito per divenire negli ultimi anni un fardello inutile e superfluo usato solo dall'ipocrisia della cosiddetta arte politicamente corretta, protesa solo all'affermazione di un proprio ruolo nel sistema economico dell'arte brandendo come argomento di ogni sua difesa l'idea totalitaria secondo cui nessuno al mondo può desiderare d'essere diversamente di chi ha soldi, fama e successo. Si veda anche Lucy R. Lippard, Six Years: The dematerialization of the art object, New York, Praegen 1973 (II edition University of California Press, Berkeley and Los Angeles, CA/London England, 1997) dove si descrive l'operazione organizzativa espositiva di Seth Sieglaub.



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