La Critica

«Restano le opere che continuano a porre delle domande...»

Intervista a Franco Rella

di Caterina Falomo

 

Franco Rella insegna Estetica all’Università di Venezia (Architettura). Tra i suoi numerosi saggi ricordiamo: Il silenzio e le parole (Feltrinelli 1985), L’enigma della bellezza (Feltrinelli 1991), Le soglie dell’ombra. Riflessioni sul mistero (Feltrinelli 1994), Limina. Il pensiero e le cose (Feltrinelli 1992), Romanticismo (Pratiche 1994), Figure del male (Feltrinelli, 2001). Molti suoi testi sono stati tradotti in Francia, Spagna e Stati Uniti. Ha curato inoltre diverse edizioni di classici ed ha pubblicato il romanzo L’ultimo uomo (Feltrinelli 1996).

Vorrei partire dal suo libro Il silenzio e le parole e in particolare da un brano tratto dalla lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal in cui si legge: «Non scriverò più nessun libro, né in inglese, né in latino, perché la lingua in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l'inglese né l'italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto».

Da qui scaturisce l'osservazione per cui il linguaggio, cioè le parole non possono "dire", non possono spiegare né raccontare in maniera adeguata alcuna verità del mondo. Il linguaggio, quindi, come limite e non come risorsa e strumento per la conoscenza. Resterebbe allora il silenzio. Eppure ancora una volta sono le parole che possono "dire" questo silenzio, possono raccontare il vuoto e la crisi. Si può pensare quindi che comunque il linguaggio abbia e avrà sempre il predominio sul silenzio? E' quindi l'attività dell'uomo verso la conoscenza inscindibile dall'uso strumentale, anche se limitato, delle parole?

Il testo di Hofmannsthal è in un testo inaugurale del XX secolo, anche se coglie una dimensione che era già stata messa in luce nel passato da Baudelaire, nella lettera a Arsène Houssaye che introduce lo Spleen di Parigi, da Flaubert, in particolare in Bouvard e Pécuchet. In questa lettera Baudelaire afferma che il sogno di ogni poeta è quello di trovare una lingua che sia così ritmica e mutevole da adattarsi a cogliere i soprassalti della coscienza presa negli urti delle città immense, delle città immani. Una lingua dunque in grado di cogliere la pluralità, quella che sfugge a Chandos.

Il linguaggio filosofico-conoscitivo ha posto ai suoi margini, o addirittura escluso, il tema della pluralità e della contraddizione che sono le realtà invece della vita moderna metropolitana.

Però c'era nella tradizione anche la dialettica…

La dialettica è uno strumento che ammette il gioco della contraddizione attraverso, come dice Hegel "il travaglio del negativo", ma questo "lavoro del negativo" trova alla fine una sua unità. Questa unità per Baudelaire è impensabile. Tanto impensabile che il più grande scrittore di poesie del XIX secolo, l'autore de I fiori del male, il testo poetico più strutturato della modernità, termina la sua vita di scrittore frantumando la lingua in una sorta di gioco incomponibile di frammenti. Sono i testi che vanno sotto il titolo ingannevole di Diari intimi: si tratta in realtà di testi che enfatizzano (come dice il titolo della prima serie, Razzi) il carattere frantumato, provvisorio, istantaneo della lingua che riflette la frantumazione dell'anima (Il mio cuore messo a nudo è il titolo della seconda serie).

Flaubert andrà più avanti quando, dopo aver teorizzato che di fronte al vuoto, al limite, alla frantumazione del mondo l'unica arma che noi abbiamo è la perfezione della lingua e della scrittura, che costituisce una sorta di rete sospesa sull'abisso, in realtà termina anche lui la sua carriera di scrittore mettendo i suoi due scrivani, Bouvard e Pécuchet, a copiare: finiscono la loro vita copiando e, quando uno dei due solleva gli occhi e dice che forse in ciò che sta copiando c'è qualcosa di interessante su cui varrebbe la pena discutere, l'altro risponde: "Non pensare copia", come se la lingua non potesse più consegnare nulla, nessun senso su cui riflettere.

Hofmannsthal coglie e sottolinea dunque una situazione che era già presente da decenni nel moderno, in quella che Steiner ha definito la "vera rivoluzione della modernità", cioè il distacco della parola dall'oggetto del mondo: la parola fiore non emana nessun odore, non ha nessun rapporto reale con ciò che essa dice. Hofmannsthal, con questa lettera, si pone al centro di questa tradizione. E se da un lato ne coglie l'aspetto tragico e drammatico, la rinuncia alla lingua, dall'altra afferma però che questa lingua è un dovere e la rinuncia a parlare è qualcosa di cui si sarà chiamati a rispondere, perché c'è una responsabilità nei confronti del mondo, della realtà: una responsabilità che la rinuncia alla parola tradisce.

Su questa drammatica dicotomia tra silenzio e parola possiamo cogliere il senso della riflessione filosofica sulla lingua ma anche delle grandi esperienze artistiche e letterarie di tutto il secolo ventesimo, del secolo scorso ma anche dell'inizio di questo secolo. Scrittori come Kafka hanno rappresentato il dramma di una lingua che non arriva mai nemmeno a sfiorare la verità, e la necessità di trasmettere perlomeno l'alone di questa verità inafferrabile. Penso anche alla grande opera di Proust che arriva, dopo sette volumi, in cui egli attraversa il linguaggio dei segni, delle chiacchiere mondane, della perversione, ad affermare la possibilità di un'opera che però chiude in sé ombre e luci, presenze e omissioni: un’opera dunque imperfetta scritta in una lingua imperfetta. Su questa linea potremmo vedere e verificare la tensione della grande scrittura, della grande arte della modernità intorno a questo tema, in cui si evidenzia che la tensione che si apre all'interno della lingua frammentaria, la tensione che si apre attraverso le lacune di questa lingua, riesce ad esprimere, come Benjamin afferma in un saggio del 1923 su «Le affinità elettive» di Goethe, addirittura l'inesprimibile: ciò che non può essere detto, che viene tuttavia nell’opera reso visibile e percepibile.

Se pensiamo a certe opere dell'arte del XX secolo, per esempio alla ricerca di Lucio Fontana intorno al luogo della pittura, là dove questo luogo sembra non poter far affiorare più nessuna forma, vediamo che comunque l'atto stesso che dichiara questa impossibilità, la rende oggetto di un'esperienza conoscitiva.

Il problema diventa molto più drammatico per esempio in rapporto ad alcuni eventi come quello di Auschwitz su cui hanno riflettuto alcuni storici in Probing the representation, e altri ancora in un recente convegno alla Villette a Parigi sulla scrittura dell'orrore e del genocidio.

Sembra che ci si trovi qui in una situazione in cui il testimone, colui che dovrebbe raccontare gli eventi, sente l’assoluta povertà della sua lingua nell'esprimere questi stessi eventi, e questa povertà fa di lui un testimone che tradisce ciò che dovrebbe testimoniare. Forse qui si spiega il suicidio di Primo Levi, nella drammatica impossibilità di giungere a una testimonianza vera di eventi che sono così immani, così enormi, che sfuggono alla possibilità di essere detti interamente mentre urlano la necessità di essere detti.

Quindi la responsabilità che grava su questi testimoni è schiacciante, perché la testimonianza imperfetta diventa una sorta di orrenda complicità. La parola e il linguaggio dell’arte e della poesia sembrano essere l'unica strada per dare comunque un frammento di questa verità. Nel convegno che ha prodotto il libro Probing the representation si afferma che eventi come Auschwitz, che sembrano sfuggire alla descrizione storica, scientifica e analitica e perfino, dice il curatore, a una comprensione empatica, possano affiorare e rendersi conoscibili nella pittura di Kiefer o, per esempio, nel romanzo di Kaniuk Adamo risorto.

Adorno aveva detto un po' la stesa cosa quando aveva scritto che Beckett e Celan riescono a dire quello che nessun testimone sembra essere riuscito a dire su Auschwitz, perché tacciono sull’evento e testimoniano invece del mondo che ha prodotto Auschwitz e che da Auschwitz è sortito. All'arte, alla letteratura, i linguaggi che in passato erano considerati estranei alla conoscenza vera e propria, è affidata oggi una responsabilità immensa.

La consapevolezza di questo limite ha portato alla ricerca di usi diversi del linguaggio. Pensiamo appunto alla poesia. Afferma Shakespeare: «I poeti sanno una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere neppure sospetta». Ne scaturisce l'idea per cui lo spazio estetico, nella forma della letteratura poetica, diventa necessario se non addirittura unico banco di prova interessante per cogliere e comprendere gli aspetti più intimi e profondi dell'animo umano. Che cosa ne pensa?

Adorno afferma che il pensiero deve pensare contro se stesso per non essere complice del pensiero nazista, del pensiero dell'orrore, in quanto questo orrore è nato all'interno del pensiero dell'occidente, del progetto illuminista. Agire e pensare criticamente significa dunque pensare contro regole che si sono stabilizzate in secoli di tradizione filosofica e scientifica. Gli autori dei due meetings di cui abbiamo parlato arrivano a conclusioni abbastanza prossime a queste: il linguaggio si è strutturato su un pensiero e all'interno di una cultura che ha generato nel suo cuore stesso l'orrore, e dunque, rimanendo uguale a se stesso, difficilmente potrà darne criticamente conto e ragione. Dunque spetta a un linguaggio che è nato come una contestazione dello stato di fatto e del pensiero che lo giustifica, vale a dire il linguaggio poetico e artistico, la possibilità di arrivare a questa forma di verità e di testimonianza che è sottratta ad altri linguaggi.

Quando dico che questo linguaggio, poetico e artistico, è un linguaggio che è nato dalla contestazione della realtà così come essa è e dal pensiero che in qualche modo lo giustifica come unico orizzonte possibile, partiamo da un’ovvietà. Vargas Llosa afferma che si scrive un romanzo, si inventa una storia, una realtà altra, perché evidentemente la realtà in cui si vive non soddisfa interamente. Questa è una boutade che riflette una realtà molto profonda. Già Aristotele aveva affermato che mentre alla storia spetta la narrazione di ciò che è e di ciò che è stato, alla poesia e al racconto spetta il compito di parlare di ciò che può essere, cioè del possibile e il possibile mette sempre in discussione il reale che, essendo già stato, non può più essere, e dunque è un impossibile. Se la poesia e l'arte sono il linguaggio del possibile sono dunque il linguaggio che entra in tensione con lo spazio della realtà e del pensiero che domina e regola e dà ordine a questa realtà. Da questo punto di vista, un pensiero che strutturalmente è nato in tensione con la realtà e con il pensiero che la governa, può essere in grado di pensare contro le regole che hanno permesso un certo ordine di dominio.

Quindi possiamo affermare che il linguaggio ha uno spazio privilegiato dal punto di vista culturale della conoscenza dell'uomo, nel senso che il linguaggio storico fa uso di moltissime parole per raccontare, per cogliere la verità, il linguaggio poetico cerca di andare oltre.

Il linguaggio poetico, come diceva Baudelaire, è il linguaggio che non rispecchia ciò che è. Suo compito è vedere ciò che non è visibile e quindi cogliere anche quello che si nasconde dietro l'ultimo orizzonte (l’immagine è leopardiana: «e questa siepe che da tanta parte l'ultimo orizzonte il guardo esclude»). La poesia nasce aldilà dell’immediatamente visibile. Questo confine - la siepe di Leopardi - diventa il segno, il simbolo di infiniti altri confini che la poesia si spinge ad esplorare.

Che spazio può avere oggi la poesia? I poeti di adesso che cosa raccontano? Può la poesia avere ancora uno spazio, secondo lei, in questo mondo di comunicazione sfrenata e veloce?

I poeti, quando sono veramente tali, hanno sempre il compito di mettere alla prova la realtà con il piano della loro rappresentazione. Kundera, nell'Arte della narrazione scrive che mentre Cartesio stabiliva le regole della certezza, le regole per la direzione dell'intelletto, don Chisciotte usciva di casa e si metteva a combattere contro i mulini a vento. Se il compito di Cartesio era stabilire certezze, compito di don Chisciotte era quello di rendere incerte le cose certe: produrre il sapere dell’incertezza che solo l'arte ci dà. Questa è la giustificazione dell'arte. Un'arte che non rende incerto ciò che è certo è, come ha detto Kundera riprendendo Broch, "kitsch": un'arte malvagia, un'arte che tradisce il suo compito. Una volta stabilito un piano di possibilità, l'arte ha una responsabilità solo nei confronti di se stessa. Una volta che ho deciso che Gregor Samsa si è svegliato trasformato in un insetto, bisogna andare fino in fondo a questa ipotesi di realtà e questa ipotesi di realtà rende mostruosa la famiglia, rende mostruoso il mondo in cui questa cosa avviene.

Brodskij, poeta russo recentemente insignito del premio Nobel, ha accettato il premio con un discorso in cui affermava che nel mondo in cui il potere politico tende a rendere la mente prigioniera di un unico pensiero, la poesia è forse l'unica arma che può opporsi a ruspe e a carri armati, alle macchine livellatrici, che tendono a rendere tutto uniforme. La poesia è invece il luogo della pluralità, della diversità. In queste affermazioni si riflette il compito della poesia di oggi come di ieri. Certamente c'è la tentazione dei cosiddetti postmodernisti di liberarsi del problema drammatico del senso e della responsabilità della poesia, dicendo che nulla ha senso e che il senso è costituito dall’interpretazione che lo pone, ogni volta diversa, spesso casualmente. Per loro non c’è significato, ma questo è un escamotage per sfuggire alla responsabilità del senso e del significato. È oggi il caso di artisti che fondano la loro fortuna sul gioco, su questa ansia di liberarsi dalla responsabilità, senza nemmeno più l’ansiosa domanda di Chandos.

Di questi giocolieri del postmodernismo ne abbiamo visti tanti alla Biennale come ne vediamo tanti in tutti i musei oggi. I giocolieri che stanno lì davanti alla porta del Pompidou sono solo giocolieri. Nel momento in cui fossero fatti entrare da quella porta a fare quelle stesse cose diventerebbero artisti: della body art, della performance. L’arte in questo caso non esiste in sé, è prodotta dal museo che la legittima come tale.

Ho visto recentemente in nuovo museo d'arte contemporanea un catino con dentro acqua e un rubinetto arrugginito a fianco di un grande quadro di Tàpies. Qui non si inganna solo sul senso di quell’oggetto, ma si insinua l’idea che il grande quadro e quell’oggetto, dentro lo spazio del museo, hanno lo stesso valore.

La stessa cosa potremmo dire quando l'arte si trasforma in una metafora perfettamente traducibile in un altro linguaggio (per esempio l’arte figurativa nel linguaggio verbale). Ho visto una pistola messa su un tavolo da ping pong. Il suo significato: la violenza è gioco oppure il gioco è violenza. Nel momento in cui ho operato questa traduzione ho annientato anche l’opera stessa che sta interamente nella frase che la descrive. Non più metafora o simbolo, ma scheletrica allegoria.

Il fatto che queste opere siano dentro un museo, le certifica come opere d'arte. Quando Orlan si fa riprendere in un'operazione di chirurgica estetica riproiettata in una o più gallerie, l'operazione cruenta in sala operatoria diventa un'opera d'arte. Il senso di tutto questo è estrinseco alle opere, al loro linguaggio.

Le si dà lo spazio per essere vista...

Non solo per essere vista, ma per essere opera: resa tale da uno spazio che è considerato spazio estetico, spazio artistico.

Dipende anche dalla cornice quindi...

Prende il suo senso dalla cornice e al tempo stesso manca o tradisce i suoi compiti.

L'arte, intesa come spazio estetico, quindi, diventa luogo in cui comunicare con se stessi e con gli altri, luogo per comprendere. L'arte, ancora, come via di fuga, come "mezzo" per raccontarsi, per raccontare pensieri, emozioni, come spazio della conoscenza e della fantasia. Secondo Galimberti, però, l'arte è appunto solo una via di fuga e le viene negata quindi l'aura di predominio: non è più lo strumento alto del sapere ma «l'ornamento del capitale», poiché la società moderna è tutta incentrata sul predominio della tecnica. Come vede lei questa concezione negativa del rapporto tra arte e tecnica?

Non sono d'accordo. L'arte ha sempre avuto rapporti con il potere. Ariosto dedicava l'Orlando furioso agli Estensi, Dante rende omaggio a Cangrande; Michelangelo dipingeva per il Papa. Raffaello ne affrescava le camere da letto. Un committente c'è sempre stato. Che il committente nella nostra società sia un committente plurale e che i poteri non siano più così netti e definiti, non toglie che l'arte abbia e possa avere ancora il potere di mettere in discussione i poteri che la finanziano e che, in qualche modo, ne permettono la produzione (io e Galimberti pubblichiamo i nostri libri presso editori, dunque attraverso una industria).

Il discorso su questa "fragilità" dell'arte è molto antico, non nasce oggi: l'arte come puro ornamento del capitale, l'arte come fronzolo, come estetizzazione e così via. È un rischio che l'arte corre quando rinuncia a mettere in discussione la realtà, a mettere in discussione i pensieri che dominano e governano questa realtà, e diventa un'arte che ci conferma in ciò che già sappiamo e siamo. Allora è, come si è già detto, Kitsch, vale a dire, secondo Hermann Broch, male: il male assoluto che la può distruggere.

Ciò non toglie che ci siano opere che inquietano continuamente anche se sono inserite in un sistema capitalistico di produzione (e con le nuove tecniche di riproduzione). Anche se di Kafka vengono fatte mille edizioni, magari in e-books, se viene gestito a livello della scuola, e portato per così dire imbalsamato in edizioni critiche, ecc., ogni volta che si legge "La metamorfosi" se ne rimane sconvolti, perché si scopre che la realtà può nascondere degli aspetti mostruosi, inattesi.

Kafka nasce già in questa dimensione del governo del mondo da parte della tecnica, ed è anche, tra l’altro, ciò che egli stesso denuncia attraverso la descrizione mostruosa dell'organizzazione dei tribunali, attraverso la macchina della colonia penale. Voglio dire che per esempio la produzione nel cuore stesso dell'America, di un film come Apocalypse now, con milioni e milioni di dollari, prodotto e sostenuto dall’industria e che si avvale di nuove tecnologie, non è qualcosa di semplicemente esornativo del capitale, ma solleva interrogativi inquietanti sul potere e sulla sua organizzazione. Quando il capitano Wilard viene mandato a uccidere Kurtz perché è diventato "insano", scopre che questa malattia è la malattia che si genera dal cuore stesso del potere che l'ha spedito ad ammazzare Kurtz, e che in realtà Kurtz e lui stesso nascono da questo cuore malato della civiltà.

L’arte è fragile. Una filosofa americana, Martha Nussbaum, ha parlato della bellezza e del bene che stanno in questa fragilità, in quanto, attraverso di essa, possiamo conoscere della vita dell'uomo e delle sue passioni, di quel residuo non dominabile dalla tecnica e dal potere, molto più di quanto non possano dirci filosofi, scienziati, moralisti.

A me rimane un piccolo dubbio. Ad esempio se un'occasione come la Biennale sfrutti le opere dell'artista: l'artista si presenta come tale ed è soddisfatto di per sé, però viene sfruttato l'evento come fatto economico. Quindi rimane il dubbio se si stia cercando o meno di sfruttare l'emozione per farla diventare prodotto, di qui il problema del confine tra l'arte e il capitale.

Cicerone scrive delle statue che compra per centomila sesterzi. Che il ricco abbia cercato di ornare la propria casa con cose che venivano considerate belle o che abbia selezionato la bellezza di alcune cose per poterle gestire sul mercato, questo è un dato di fatto. Ma le opere che restano, sono le opere che continuano a porre delle domande, continuano ad esserci necessarie proprio per le domande che producono. Molte delle cose che oggi sono sui mercati à la page, che vengono vendute a milioni di dollari, cadranno, non rimarrà quasi niente di esse. Quello che resterà sarà ciò che esprime quegli interrogativi di cui non possiamo fare a meno, perché sono interrogativi che ci ricollocano rispetto al mondo.

Sulla questione del business voglio dire ancora una cosa. Il business nell'arte non è una faccenda così gigantesca come pensa chi trova costoso un libro in edizione economica. Un quadro di Picasso o di Van Gogh, corrispondono allo stipendio di quattro anni di un giocatore di calcio. Questa è la proporzione in cui va letto questo fenomeno. Il capitalismo è più interessato al controllo di una banca o dei pozzi petroliferi dell’Iraq che a produrre o a controllare la produzione artistica. Certamente c'è un mercato; certamente c'è mercificazione; certamente c'è una produzione che tende a trasformare tutto in merce, in business, che rimane comunque un business marginale.

Che poi ci sia anche il tentativo di dominare l'inquietudine di questi linguaggi attraverso un'operazione di manipolazione, anche questo è fuori discussione. Quando si entra in un museo, in cui i quadri dovrebbero essere, proprio per la loro aura estetica, depotenziati del loro potere d'inquietudine, davanti a un quadro di Rembrandt comincia l'inquietudine. La "deposizione" di Tiziano all'Accademia è, anche nello spazio del museo, così inquietante che non la si potrebbe vedere tutti i giorni: è entrare faccia a faccia con la morte stessa. Non c'è possibilità di cancellare questa inquietudine se non cancellando il quadro stesso. E forse non basterebbe. Forse sopraviverebbe anche alla sua distruzione.

Nella postilla del suo Il silenzio e le parole lei si chiede se «dobbiamo allora affidare il nostro destino alla poesia e alla letteratura». Che futuro immagina quindi per queste forme di conoscenza?

Credo che il destino non possa essere affidato a nessun linguaggio particolare, perché altrimenti faremmo l'errore che è stato fatto in passato dai filosofi che hanno stabilito il primato di un linguaggio, quello filosofico, degradando gli altri linguaggi a linguaggi sussidiari, o minori. In realtà noi dobbiamo tenere aperta la strada del nostro destino, sapendo che il nostro destino si definisce, più che attraverso le certezze, attraverso gli interrogativi che nascono sulla via che noi percorriamo e che si presentano anche per vie inaspettate e insospettabili. Ecco, da questo punto di vista certamente l'arte e la letteratura sono degli strumenti che proprio per il loro impatto, per la loro forza — potremmo usare una metafora di Walter Benjamin — agiscono come i predoni che escono sulla strada e ci arrestano, ci impongono di guardarci intorno, a chiederci se la via che stiamo percorrendo è l'unica via o se c'è un'altra via di scampo, di movimento, qualche via laterale; questo significa anche interrogarci su dove porti quella via e se la vita che stiamo vivendo è l'unica vita possibile.

La questione non si gioca all'interno di un giudizio estetico. Percorrendo criticamente quella strada, facendoci quelle domande, saremo portati a chiederci anche se sia legittimo o meno fare la guerra in Iraq, se sia legittimo o meno il fatto che alcuni paesi attualmente dichiarino non illegittime le armi di distruzione di massa, ma il loro possesso al di fuori di uno stretto monopolio delle stesse.

Sono anche gli interrogativi che possiamo porci rispetto alla vita che conduciamo ma anche rispetto al nostro rapporto con la morte, con la sofferenza, di fronte alle scoperte della biotecnologia. Quello che mi chiedo è che rapporto avrò con la sofferenza se l'ingegneria genetica potrà eliminare alcune fonti del dolore. Quale sarà la mia vita senza dolore, senza l'orizzonte della sofferenza. Quale rapporto avrò con la vita se la sua durata si prolungherà indefinitamente, che rapporto avrò con la morte se la morte verrà decisa con un voto in parlamento e con una consulta di medici. Quale sarà il nostro rapporto con la morte: con quella che — da Eraclito fino a Rilke — viene detta la nostra propria morte, quella cui dovremmo avere diritto.

Queste sono le domande che costituiscono l'orizzonte del destino. Non sono esclusive dei linguaggi artistici, altrimenti dovremmo dire che una parte immensa della popolazione non sarebbe in grado di porsi queste domande. Oppure, come ha detto Michel Tournier, pensare che queste opere, i quesiti che da esse si generano abbiano un potere di irraggiarsi anche al di fuori del loro ambito. Diceva Tournier che un pastore (mi pare) armeno dice ti amo alla sua compagna, in un certo tono, con un certo timbro, perché è stato scritto il Simposio, perché sono state scritte le grandi poesie d'amore che lui non ha mai letto, come se esse riuscissero quasi per contagio a modificare il rapporto dell’uomo con l’amore, con l’eros.

Venezia 26 Ottobre 2002


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