La Critica

L'arte e la sua ombra
Cinque domande a Mario Perniola

di Enrico Cocuccioni

Mario Perniola è Professore di Estetica all'Università di Roma Tor Vergata. Ha di recente pubblicato presso l'editore Einaudi «L'arte e la sua ombra», un libro che propone un efficace riesame critico di alcune tra le più recenti e "perturbanti" tendenze dell'arte (Posthuman, realismo psicotico, arte estrema), nonché dei movimenti culturali che hanno maggiormente ispirato il dibattito critico-estetico di fine '900 (Postmoderno, Cyberpunk, pensiero della Differenza). Tra i suoi libri più recenti, Il sex appeal dell'inorganico (Torino, 1998), Del sentire (Torino, 1991), L'Estetica del Novecento (Bologna, 1998), I situazionisti (Roma, 1998), Transiti. Filosofia e perversione (Roma 1998), Philosophia sexualis. Saggi su Geoges Bataille (Verona 1998). Dirige la nuova rivista di estetica e di studi culturali «Ágalma» (Roma, 2000).

L'opera d'arte dell'avvenire sarà criptica o non sarà

Nel retro di copertina del nuovo libro di Perniola, troviamo così riassunta la proposta teorica "messa in opera" dall'autore: «(...) La domanda che guida la sua indagine può essere formulata così: esiste una possibilità di grandezza per l'arte attuale? Molti ne dubitano: il mondo dell'arte sembra infatti dominato da interessi mercantili che riducono l'arte alla produzione e alla promozione di opere da sfruttare economicamente. Contro questa mercificazione si è levata la protesta dell'anti-arte la quale tuttavia troppo spesso misconosce il carattere complesso ed enigmatico dell'esperienza artistica e la sostituisce con una comunicazione ludica ed effimera. Ciononostante è all'ombra di questi due opposti atteggiamenti che - secondo Perniola - nasce e cresce un nuovo orientamento artistico ed estetico, caratterizzato dal riconoscimento della difficoltà dell'arte. L'attenzione si sposta perciò verso l'idea della cripta, che sembra bene esprimere sia la resistenza nei confronti della banalità e dell'omologazione sia la singolarità di uno spazio che si definisce allo stesso tempo come esterno e come interno. Sembra così che per Perniola l'opera d'arte dell'avvenire sarà criptica o non sarà».

L'arte come cosa del pensiero

Occorre però dire che la nitidezza del linguaggio con cui lo stesso Perniola espone le sue tesi può trarre in inganno il lettore frettoloso: non si tratta certo solo di un'agile raccolta di brevi saggi, né di un semplice resoconto giornalistico sui fenomeni culturali di tendenza, bensì di un'opera che è pur sempre frutto di una impegnativa riflessione critico-filosofica sulle tendenze più recenti dell'arte da parte di uno dei maggiori protagonisti del dibattito estetico contemporaneo. Parlare di «opera» significa qui rimarcare il carattere di «cosa» che compete necessariamente anche ai prodotti del pensiero. E la «cosa», nella sua ostinata opacità, non può che sottrarsi ad ogni nostro eventuale tentativo di renderla perfettamente chiara e trasparente.

Il nucleo opaco della cosa

C'è dunque sempre un "resto" che non si lascia eliminare. Un nucleo duro, insolubile, che sfugge anche alle intenzioni dell'autore più accurato e previdente. Nonché ai tentativi del lettore di esaurirne il senso con la propria attività interpretativa. In questo caso, però, l'autore del libro non solo ne è consapevole, ma ci suggerisce di tener costantemente presente, per ciascun tema affrontato nel testo, che ogni cosa "illuminata" porta necessariamente con sé la sua ombra. Lungi da noi, dunque, ogni pretesa di "schiarire" qualche ipotetica zona d'ombra nel testo di Perniola. La lettura del libro ci ha comunque messo di fronte ad alcune questioni decisive che riguardano il nostro presente contesto culturale, nonché le più o meno consapevoli visioni teoriche che pur sempre accompagnano anche i fenomeni più triviali dell'odierno mercato dell'arte. Per questo abbiamo deciso d'interpellare non solo il soggetto teorico che si dispiega nel testo, ma anche quell'autore concreto che si ritrae, per così dire, nel suo riserbo "in carne ed ossa", rivolgendogli alcune domande.

Lo sguardo bifronte dell'opera

ENRICO COCUCCIONI: Nel libro si evoca una terza via per l'arte tra la "cosa" e il "transito". Lei, insomma, critica sia il feticismo dell'opera, incapace d'interrogarsi sui presupposti dell'oggetto, sia lo spontaneismo vitalistico di chi crede ingenuamente in una immediata comunicabilità dell'arte. Per altro verso, lei mette in guardia anche dalle posizioni reattive che cercano una ormai impossibile sintesi conciliatoria o che magari ripropongono le vecchie assiologie del più vieto tradizionalismo. Sospesa ancora oggi tra esposizione alla luce e custodia nell'ombra, l'opera d'arte sembra dunque portatrice di uno sguardo bifronte che richiama l'idea heideggeriana dell'ambiguità di ogni «disvelamento». Lei ritiene che questa condizione paradossale riguardi solo l'arte, oppure può essere estesa a innumerevoli altri ambiti della nostra esperienza?

MARIO PERNIOLA: Questa è una domanda cui è molto difficile rispondere. La risposta di Hannah Arendt è: no. La fabbricazione delle cose è qualcosa di essenzialmente diverso dal lavoro compiuto per sopravvivere e dall'attività politica. La rimando alla lettura del libro «Vita activa», Bompiani, Milano, 1994. Tuttavia a me sembra una distinzione troppo rigida, sebbene mi sia sempre riconosciuto nella figura dell'artigiano. La produzione di libri di filosofia è un artigianato molto particolare. Certo però che rispondendo alle sue domande faccio un'attività che - nelle distinzioni della Arendt - è più simile alla politica che all'arte. Mi chiedo se non dovrei farlo.

Una ripetizione paradossale

ENRICO COCUCCIONI: Oltre che ai concetti di "ombra", "resto", "differenza", nel libro si fa riferimento all'idea della cripta e all'immagine finale, un po' inquietante, del «guardiano di tombe»: il sofisticato dispositivo mentale della «incorporazione criptica» che lei ci propone muovendo dal concetto psicanalitico di «elaborazione del lutto», sembra a prima vista una versione aggiornata di quelle metafore topologiche di matrice romantica che talora ascrivono gli effetti di verità della poesia allo spazio privilegiato di un «rivolgimento interiore». Sul piano sociale, invece, tale complessa nozione teorica potrebbe essere banalmente intesa come la necessità per l'arte di essere salvaguardata in luoghi di difficile accesso, quasi a volerla sottrarre, diciamo, ad una maldestra sovraesposizione, ovvero a quella volontà di totale solarizzazione dell'esperienza che sembra tipica della nostra «età della tecnica». La cripta come luogo né esterno né interno, dunque, ma in cui è pur sempre racchiuso, al riparo da sguardi indiscreti, un "tesoro nascosto". Forse l'enigma di quella «scena originaria» dell'arte che Bataille cercava nella grotta di Lescaux?

MARIO PERNIOLA: Per me l'enigma dell'opera d'arte è il fatto di essere una ripetizione paradossale che si differenzia da tutto ciò che l'ha preceduta. Dunque il contrario di origine. Penso che non ci sia una «scena originaria», ma che esistano dei patterns di lungo periodo, che si distinguono l'uno dall'altro per piccole variazioni. Su questo tema ho scritto un testo che sta nel Catalogo della Biennale di Venezia del 1995, «L'arte come mutante neutro».

Un esempio

ENRICO COCUCCIONI: Potrebbe indicare qualche esempio di strategia d'incorporazione criptica nelle pratiche artistiche contemporanee?

MARIO PERNIOLA: Chris Marker, Immemory.

Le esperienze importanti durano poco

ENRICO COCUCCIONI: Nel libro si afferma che non solo il Postmoderno, ma anche il Posthuman teorizzato negli anni '90, rappresentano ormai dei fenomeni già archiviati. Ma si è trattato dunque solo di "poetiche", di mode culturali destinate ad una rapida delegittimazione, oppure in quanto visioni anticipatrici hanno effettivamente colto, almeno in parte, tendenze "epocali" di maggior respiro, al punto da risultare, per qualche aspetto, ancora attuali come categorie critico-esplicative?

MARIO PERNIOLA: Putroppo la esperienze importanti - specie quando sono collettive - durano poco e si consumano molto presto. Nel caso del Posthuman, attribuendo un ruolo importante allo shock e alla sorpresa, è stato velocemente ricuperato dalla pubblicità e dalla moda. D'altra parte dieci anni non sono pochi.

Trentasei sconosciuti anche a se stessi

ENRICO COCUCCIONI: La figura di Andy Warhol esce dal suo testo notevolmente ridimensionata. Si tratta a quanto pare di un simbolo tra i più eloquenti di quel "cinismo" tardo novecentesco che ha caratterizzato la stagione postmoderna ormai al tramonto. Saprebbe già indicarci un simbolo altrettanto efficace del nuovo atteggiamento che si profila all'orizzonte?

MARIO PERNIOLA: Una leggenda ebraica dice che per ogni generazione ci sono trentasei uomini pii, ma essi non sono noti gli uni agli altri e tantomeno a se stessi. Quanto a Andy Warhol mi sembra anzi di avergli attribuito un ruolo importantissimo: prima di scrivere su di lui, lo stimavo molto meno.

Roma, Ottobre 2000



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