La Critica

Atti estetici e artefatti cognitivi

di Giordana Pagliarani

 

Marcel Duchamp sosteneva che vi fosse in campo artistico e figurativo una differenza fondamentale da tenere sempre presente: quella tra opera d’arte ed atto estetico. E nel caso delle ambientazioni Dada era di atto estetico che si parlava, ma cerchiamo di chiarire la differenza tra queste due definizioni: l’opera d’arte è sì l’unione di creatività e tecnica, ma è anche creazione, è frutto della capacità eidetica dell’artista, nasce per così dire dal nulla prendendo spunto dall’esterno o dall’interiorità dell’artista a seconda che si tratti di un’opera figurativa o astratta o surrealista… ma in ogni caso è intesa come "creazione".

L’atto estetico invece è una modifica estetica che avviene su un’opera già esistente; prendiamo ad esempio i famosi baffi che Duchamp mette alla Gioconda: l’opera d’arte è di Leonardo, l’atto estetico è di Duchamp. Oggi l’atto estetico si è trasformato in artefatto ed è entrato a far parte della nostra quotidianità architettonica. Lo troviamo abitualmente nelle nostre case: è ad esempio una caffettiera "firmata" e dal design particolare o una tazza decorata e con una forma strana.

Dunque l’arte è entrata a far parte del nostro "tutti i giorni" o invece è stata sepolta sotto cumuli di oggetti ripetibili in serie che si divertono a rimandare la nostra memoria a qualche "capolavoro" di altri tempi, dissacrandone l'aura di unicità? Prima di rispondere, se è mai possibile una risposta, sarà meglio chiarire il concetto di artefatto. Ora se noi cerchiamo il termine artefatto su un comune dizionario che non sia di indirizzo specialistico, troviamo questa definizione: «Artefatto: adulterato, insincero»; questo ci fa capire che gli artefatti sono più strettamente imparentati con gli atti estetici che con l’opera d’arte.

L’opera d’arte è comunque una forma pura, idealmente autonoma, che si origina e muore in se stessa, non è un’aggiunta di qualcosa a qualcos'altro, quale era invece l’atto estetico Dada, l’artefatto! L’artefatto mette in comunicazione il mondo esterno, il quotidiano, con l’opera d’arte, è una sorta di ponte virtuale tra l’immaginario della forma d’arte e la concretezza dell’ambientazione. Ma è un ponte nobile oppure no? La compenetrazione e la contaminazione sono alla base di ogni forma d’arte contemporanea, sia che si tratti di musica che di pittura o teatro, è la commistione tra i vari generi, le varie etnie e le varie forme d’arte, che dà luogo alle nuove opere.

Questa commistione tra arte e architettura sta entrando sempre di più nella nostra vita e nelle nostre case, quella che era l’ambientazione adatta solo ad una mostra per "giovani artisti rivoluzionari" diventa forma di arredo, stupisce nella sua ripetibilità e quotidianità. Gli artefatti, le installazioni, sono spesso considerati come un ponte tra mente e mondo; mettono in contatto l’immaginario più recondito, basti pensare all’arte africana o, in generale, a tutti gli artefatti di origine aborigena, con la quotidianità, con la fruibilità dell’artefatto stesso. Il suo livello di gradimento è pari non solo alla sua qualità estetica ma anche, e soprattutto, alla sua utilità.

Ecco dunque che una certa concezione storica dell’opera d’arte si allontana definitivamente da questo suo cugino plebeo: in virtù della sua ideale incondizionatezza, infatti, se fosse personificabile non vorrebbe né potrebbe essere utile, essendo appunto fine a se stessa. E la capacità comunicativa dell'opera non sarebbe altro che la sua possibilità di interagire con il mondo esterno. Ma come potremmo affrontare un discorso sugli artefatti senza parlare anche degli artefatti cognitivi? Sono i fratelli intellettuali. Sono oggetti fisici costruiti dall’uomo per aumentare la capacità cognitiva: un nodo al fazzoletto, il calendario, la lista della spesa, il calcolatore.

Lo psicologo Donald Norman estende la nozione di artefatto cognitivo anche alle produzioni mentali umane (proverbi, tecniche di memorizzazione, etc: sono chiaramente artificiali e giocano lo stesso ruolo di un supporto fisico alla cognizione). Gli artefatti cognitivi aumentano le nostre capacità cognitive? No. Le ottimizzano: una calcolatrice non amplifica le mie capacità di fare aritmetica, ma mi fa usare un insieme differente di abilità funzionali per eseguire il compito in questione. Quindi si pongono in rapporto con le capacità "naturali" della nostra mente così come fanno gli artefatti semplici rispetto alle opere d’arte.

In questo caso la domanda più retorica è: gli artefatti prenderanno il posto delle nostre capacità mentali? Trovo impossibile affrontare con previsioni ingenuamente univoche un discorso sulle nostre capacità cognitive poiché gli artefatti cognitivi mettono la nostra mente in contatto con il mondo esterno, ampliando questo rapporto, ottimizzandolo ed amplificandolo. Non si può prescindere dal paradosso topologico evocato dalla dimensione dell’artefatto, dal suo essere interno ed esterno nello stesso tempo come un nastro di Moebius. È l’oggettivazione del paradosso, è la perpetua commistione tra noi ed il mondo, tra l’opera d’arte e il manufatto, è l’unione tra ciò che vi è di più puro, la nostra mente e l’espressione incondizionata e disinteressata di un artista, e ciò che vi è di più finalizzato e utilitaristico, le appendici tecniche alla nostra mente e gli oggetti di uso quotidiano.

Ma dal paradosso non si può prescindere, l’univocità non è di questo mondo, i contrasti e le contraddizioni continuano ad accompagnare la nostra evoluzione che altrimenti si sarebbe probabilmente interrotta, riportandoci ad una visione puerile incapace di assumersi quella responsabilità delle scelte inerente alla necessità di agire per modificare l'ordine delle cose - generando così artefatti e contraddizioni - che è propria dell’uomo adulto.

Roma, 4 Ottobre 2002


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