La Critica

Eros ed Anteros: l'opera d'arte tra senso e non senso

di Giordana Pagliarani

 

Il marzo scorso sono stata alla mostra di Basquiat, il pittore newyorkese divenuto rapidamente famoso negli anni '80 e morto a soli 28 anni di overdose. La rassegna si teneva a Roma, al Chiostro del Bramante. E come spesso mi accade, quando vado ad una mostra, ho cercato di mettere da parte per un momento tutte le mie conoscenze specialistiche in storia dell’arte (da laureata in lettere e filosofia) e di ripulire la mia mente ed il mio spirito - almeno nelle intenzioni - da tutte quelle elaborazioni intellettuali con cui presumiamo di poter "vedere" anche quello che c’è dietro la semplice evidenza di un’opera.

Così, il più ‘destrutturalizzata’ possibile, mi sono chiesta cosa fosse ad attrarmi tanto in quei graffiti: cosa, oltre allo splendido ed irresistibile contrasto tra la caoticità dell’opera del "maestro - cattivo ragazzo" J.Michel Basquiat ed il solido ed accogliente lavoro architettonico di "maestro - mastro Bramante", mi portasse ad andare da una stanza all’altra del chiostro con addosso una sensazione di voracità verso quelle opere che tanto mi attiravano a loro tanto mi respingevano.

«Io amo Kandinskij!» mi sono detta, amo i colori armonici e quei contrasti tra forma e colore tanto perfetti, adoro l’azzurro ed il blu, mi piace che ci sia sempre una luminosità cromatica vicino al nero, insomma, se mi dimentico che sono venuta qua perché per me sarebbe stato impensabile perdermi la mostra di un pittore newyorkese innovativo e complesso come Basquiat e che volendo ho molte possibilità di decodificare il messaggio che trapela dalle sue opere e decontestualizzarlo, cosa ci faccio qui?

La risposta era abbastanza semplice. Evidentemente c’era in quei graffiti qualcosa che faceva parte del mio mondo, qualcosa che permetteva ad un ponte invisibile di raggiungere una qualche parte di me dove erano annidiate delle immagini che mi riconducevano a quelle che stavo vedendo e facevano sì che quel che recepivo avesse per me un senso.

Potremmo chiederci: «Perché una cosa per piacerci deve avere per forza un senso?».

La risposta non è così semplice, dipende da cosa s’intende per "senso"; quando parlo di senso non intendo la sensatezza contestualizzata alla nostra società, ossia non intendo il buon senso: non si tratta qui di una cosa più o meno logica, ma di qualcosa che mi tocca, che riesce ad entrare in un modo o nell’altro nel "mio mondo", inteso nel senso più intimista ed al tempo stesso più vasto possibile.

Un’immagine per piacerci deve colpirci e riesce a colpirci se per noi ha un senso, ossia se pur essendo in qualche modo un non senso fa parte di quel non senso che non è altro che l’altra metà del senso stesso, l’altra faccia della medaglia del nostro mondo; infatti, se "insensata" avesse l’accezione "d’incomprensibile" allora probabilmente la nostra reazione davanti a quell’immagine sarebbe d’indifferenza.

Quello che ci colpisce nelle immagini paradossali è il non sense, ossia quel filo sottile che, essendo parte sia del senso sia del non senso, lega anche l’immagine più paradossale - o che tale sembra ad un primo impatto - al nostro immaginario, e quindi ci provoca una reazione, sia essa di riso, perplessità o semplice piacevolezza.

Ed era proprio questo che mi teneva incatenata davanti alle tele di Basquiat, in tutto quel mischiarsi di colori acidi e graffiti primordiali si respiravano gli odori e le luci della grande città, la frenesia ed il senso di intrappolamento, lo stordimento e l’anonimato delle notti newyorkesi.

Ecco cosa riconoscevo in quelle immagini per me cosi poco gradevoli, una realtà che è, a sua volta, a me poco gradita: quella cittadina.

Certo non era il non sense umoristico o quello onirico di una favola o di una tela di Magritte, ma avrei potuto definirli la faccia noire del non sense.

Era quel misto tra poetico e malato tipico delle grandi città negli anni Ottanta, dove del buon senso comune non era rimasto proprio niente, ma dove c’era molto senso del reale, nell’accezione più cruda del termine.

Ed è quello il senso, il senso noi lo troviamo nella realtà, non c’è bisogno di scavare in profondità, poiché in quel modo il senso si perde non si acquista; come ci ha insegnato Wittgenstein nelle Philosophische Untersuchungen, noi viviamo nella superstizione della profondità, ossia continuiamo a cercare un senso in un’ ipotetica profondità, non badando così al senso "reale" delle cose che è lì pronto sotto i nostri occhi, perennemente espresso nelle cose più comuni della realtà di tutti i giorni ed eternamente inafferrabile, mai compreso del tutto, mai completamente alla nostra portata, ma sempre sotto i nostri occhi e sempre pronto a mostrare l’altra sua faccia: il non senso, parimenti ricco ed onnipresente come il suo fedele anteros, ovvero il senso.

Questo continuo alternarsi di senso e non senso è proprio della realtà che acquista senso e valore proprio da questa alternanza, infatti senso e non senso si completano ed avvalorano a vicenda, l’uno è nell’altro, esistono e sussistono in maniera oppositiva e complementare; ed è nel non sense che riconoscendo l’uno scopriamo l’altro, e riusciamo per un attimo, grazie al lavoro dell’artista, a sentirci più vicini a quel senso che tanto ci sfugge, che ci passa davanti come fa il Bianconiglio con Alice, e ci costringe a seguirlo per i suoi tortuosi percorsi, almeno ai nostri occhi è così che appaiono, strappandoci alla staticità ed obbligandoci a muoverci alla ricerca di qualcosa che gia c’è, ma che non c’è dato di comprendere appieno.

Per quanto possa essere faticosa questa ricerca proviamo a pensare per un attimo a cosa accadrebbe se così non fosse.

Pensiamo alla situazione opposta, quella della pura staticità; staremmo lì ad aspettare un fantomatico Godot di beckettiana memoria che viene a salvarci da noi stessi, dalla nostra immobilità, vedendo passare davanti ai nostri occhi un mondo di imperfetta ma viva insensatezza e lasciandocelo sfuggire senza prenderne parte, rimanendo fermi nell’attesa di fare ciò che ci indica il "buon senso" , ciò che ci dirà di fare, appunto, un mai arrivato Godot.

La perfezione dunque è proprio nella completezza che il senso ed il non senso trovano nella loro unione e nella forza che traggono dalla loro capacità oppositiva, dalla quale risorgono ogni momento a nuova vita.

Ed è proprio in questo continuo movimento che l’artista riesce a compiere una "titanica" impresa: egli ferma l’attimo.

L’opera d’arte coglie quella perfetta complementarità di eros ed anteros nella nostra realtà e li cattura al proprio interno acquistando così un valore che è fine a se stesso e che la realizza in sé come opera d’arte in quanto tale, non bisognosa di alcun altro elemento che non sia parte integrante, per così dire, di ‘essa medesima’

Roma, 15 Maggio 2002


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