Il testo che segue costituisce anche l'introduzione del libro Origine dell'arte e arte delle origini. L'interrogazione sull'arte nella filosofia del Novecento ed il risveglio dell'arte paleolitica: la promessa della verità tra storia e preistoria, edito da L'Harmattan Italia, Torino 2003. Una versione stampabile in formato Pdf di questa Introduzione è stata già pubblicata nel sito http://web.tiscali.it/nuccitelli, insieme ad altre informazioni sul volume citato.
Nel maggio del 1879 Friedrich Nietzsche, non ancora trentacinquenne, rinuncia definitivamente ai suoi incarichi presso l'università di Basilea, a causa – così si legge nella lettera di dimissioni – di un ulteriore inasprimento nelle proprie condizioni di salute. Dopo un soggiorno di alcuni mesi a Naumburg, nella cerchia familiare, intraprenderà quel cammino erratico – interrotto infine dal tragico ritorno a Basilea all'inizio del 1889 – cui sono legati i titoli fondamentali del suo lascito.
Sempre nel 1879, ma nelle campagne della Cantabria, una bambina – Maria Sanz de Sautuola – prendendo parte a una perlustrazione nella grotta di Juan Morsero, poi presto ribattezzata come "grotta di Altamira", si accorge che la volta rocciosa è animata da sontuose figure animali dipinte. Il padre – don Marcelino, gentiluomo appassionato delle ancor giovani scienze della preistoria – intuisce l'importanza del ritrovamento e ne dà notizia alla comunità scientifica, ricevendone per diversi anni in cambio scherno e incredulità [1].
I due eventi annunciano, ciascuno a suo modo, degli sviluppi di rilievo assoluto per il destino delle scienze umane nel Novecento: l'opera nietzscheana delinea un taglio di pensiero che resterà sempre all'orizzonte delle più alte imprese filosofiche contemporanee, tanto da spingere Heidegger a individuarvi addirittura la cesura critica in cui una "epoca" della verità – quella metafisica – perviene al proprio compimento; il ritorno dell'"arte" paleolitica dalla sua latenza [2] rivela una dimensione del passato dell'uomo insospettata e sconvolgente, rivoluzionando le scale di grandezza nella storia dei fenomeni "simbolici" e liberando definitivamente la questione delle culture preistoriche dall'internamento nella sfera dei bisogni materiali.
Questi sviluppi appaiono – al di là delle pur suggestive coincidenze cronologiche tra episodi per esse determinanti – contemporanei nel senso più proprio, ovvero quello del comune radicamento in un medesimo orizzonte storico. In questa chiave, chiunque abbia un minimo di familiarità con le prospettive di fondo dell'ermeneutica – prospettive che, come vedremo, hanno ormai contagiato anche gli approcci specialistici dell'archeologia e della paletnologia – non si stupirà minimamente che si possano e si debbano rilevare numerose e affascinanti risonanze tra i loro rispettivi corsi.
Egli si stupirebbe, se mai, del contrario: per la sensibilità ermeneutica, tutto ciò che si fa avanti in un dato contesto storico è, per quanto remota possa essere la sua origine, dotato della piena presenzialità determinata dal suo presentarsi in quell'orizzonte [3], e in questo senso contemporaneo.
Il campo aperto nel quale qualcosa può avanzare e farsi presente non è, infatti, uno spazio neutro, bensì l'ambito in continua evoluzione di un'epoca. Il modo in cui – nella prospettiva ermeneutica – qualcosa può farsi presente in quanto passato è quello di una fusione donatrice di senso tra l'orizzonte dell'epoca stessa e quello del mondo che i documenti del passato serbano nel loro essere persistiti.
Tutto ciò che vive in una determinata epoca – come suo presente e come suo passato – appare dunque, in questa chiave, intessuto in una linea di comunità: i diversi elementi, generati in un'alchimia di orizzonti nella quale uno dei poli è relativamente costante, rifletteranno inevitabilmente dei tratti genetici condivisi. Ciò che appare come presente – nel nostro caso il destino del pensiero che consegue alla svolta nietzscheana – figurerà destinalmente appropriato, nel suo senso, all'epoca che lo determina; ciò che appare come passato – nel nostro caso i reperti paleolitici al loro risveglio – parteciperà del medesimo senso in quanto risvegliato a partire da ciò che è nostro, dall'orizzonte della contemporaneità.
Quando ci si occupa di arte preistorica, si delinea come oggetto una vicenda inauguratasi almeno 40.000 anni fa, e forse molto prima, allorché gruppi umani presero a dipingere, graffire, modellare o scolpire forme su roccia, ossa, fango, e così via: ma già le parole "minime" attorno a cui questo oggetto si organizza come tale – arte, forma, dipingere, ecc. – raccolgono e racchiudono tutta la sovrabbondanza di eventi che le ha addotte e determinate nell'orizzonte della contemporaneità.
Esiste dunque, nella prospettiva ermeneutica, una necessità "essenziale" in base alla quale le figure contemporanee del pensiero e quelle impresse nel Paleolitico superiore sulle volte rocciose debbano in una qualche misura coappartenersi, riflettersi le une nelle altre a partire dal loro vivere attuale in una comunità della comprensione. La ricerca di cui questo testo riferisce muove, tuttavia, dalla convinzione che tutto ciò non basti: che le risonanze e le rispondenze più profonde che si generano tra gli eventi coevi del risveglio dell'«arte» paleolitica e del cammino destinato al pensiero dopo Nietzsche non siano esauribili in base a quell'ordine di necessità; che, al contrario, tali risonanze – se ascoltate con attenzione – generino implicazioni non elaborabili nel raggio del circolo ermeneutico, e così tendano a configurare un preciso margine d'esercizio al suo stesso gioco.
Occorre, naturalmente, dare sviluppo e fondamento a tali asserzioni: l'orizzonte in cui si potrà tentare di farlo è delineato, innanzi tutto, dallo sviluppo effettivo dei due eventi in questione, ognuno nella direzione della linea di ricerca che se ne prende incarico, e nelle vicendevoli implicazioni che vi prendono consistenza. Anche a uno sguardo appena abbozzato non potrà, infatti, sfuggire che il Novecento – ponendo in questione in modo sempre più serrato la misura del rapporto di arte e verità – ha delineato delle coordinate essenziali anche per la materia del senso e del significato delle "opere" paleolitiche; d'altra parte, le ricerche archeologiche e paletnologiche che investono i reperti hanno restituito e restituiscono progressivamente tratti sempre più sorprendenti e inaspettati, tali da dilatare profondamente – almeno fin quando gli artefatti paleolitici vi risulteranno assegnati – l'orizzonte dell'opera, e quindi da porre riferimenti ineludibili anche per la sua investigazione filosofica.
Le due linee di ricerca hanno dunque configurato, nella loro contemporanea evoluzione, diverse posizioni vicendevolmente rilevanti. Non sono, d'altra parte, mancati – come vedremo – espliciti o impliciti riferimenti incrociati, tuttavia sempre rimasti nella forma di evocazione, o citazione, ovvero non messi alla prova di una riflessione metodica. L'esigenza, però, di una tale riflessione inizia ormai a divenire esplicita: è il merito, in particolare, delle riflessioni filosofiche sull'arte paleolitica di Jean-Paul Jouary [4], ispirate dalla convinzione che non ci possano essere progressi nel campo dell'estetica né in quello delle ricerche specialistiche sulla "preistoria dell'arte" finché i due ambiti disciplinari non si apriranno l'un l'altro. La questione non sembra dunque essere se vi sia un intreccio degno di pensiero tra il risveglio delle opere paleolitiche e i destini contemporanei del pensiero: piuttosto, occorre domandarsi come l'interrogazione di questo intreccio vada orientata perché debutti in modo adeguato.
Non è sufficiente, a questo proposito, chiedersi quali nuovi elementi di riflessione le testimonianze di paleoarte apportino nell'orizzonte della filosofia, inteso come un dominio stabilito e assicurato in grado di recepirne il contributo di verità; si tratta invece, piuttosto, di assumere i due eventi nella pari dignità del loro essere pienamente e legittimamente presenti nell'orizzonte della contemporaneità, mettendoli in questo modo entrambi radicalmente in gioco e in questione. Per avviare in modo retto questo tentativo non si può, dunque, che partire da una ricognizione orientata a rilevare, nei due giacimenti in questione, e collazionare gli aspetti più pertinenti al suo esercizio sistematico. È quello che il presente testo si propone di fare nella prima parte (L'arte delle origini: la collezione archeologica) e nella seconda (L'origine dell'arte: la collezione filosofica).
In questo modo, si convocano al suo interno due ordini della ricerca, con la rispettiva regolazione problematica e il rispettivo linguaggio. Inevitabilmente, ciò produrrà un effetto di disomogeneità e alimenterà forse dei dubbi sulla possibilità che da questa ibridazione possano venir generati degli esiti fecondi. L'alternativa, però, sarebbe stata appunto quella di insediare rigidamente il discorso in un ordine univoco – ad esempio quello filosofico –, collocando ancora una volta i dati e gli elementi che provengono dall'altro campo di elaborazione in posizione laterale, o di supporto, e dimenticando così che, nella determinazione di un campo d'indagine, "c'è una necessità di fatto che l'inchiesta empirica fecondi per precipitazione la riflessione sull'essenza" [5].
Occorre dire che l'obiettivo della collazione non è la ricostruzione compiuta di un'area di dibattito filosofico, e tanto meno la restituzione esaustiva degli esiti delle ricerche archeologiche e paletnologiche. Essa è senz'altro orientata alla riflessione cui è funzionale: ma questo non vuol dire che determina i suoi elementi per astrazione dal loro contesto, bensì soltanto che pone in rilievo – su un tessuto comunque preservato – ciò che le appare essenziale. Un'ulteriore esigenza che guida questa ricognizione risponde a un principio di economia: il testo include esplicitamente solo ciò che appare strettamente indispensabile al suo sviluppo argomentativo. Questo non significa, naturalmente, che esso proscrive qualcosa che gli risulta fondatamente contrario: piuttosto, non indugia su quanto gli sarebbe più di conforto.
Per fare un esempio, in queste pagine si parlerà di Nietzsche quasi esclusivamente attraverso l'interpretazione heideggeriana: non però perché si aderisca a questa interpretazione, che anzi appare, anche a chi scrive, discutibile sotto molti aspetti. Tuttavia, il fatto che l'implicazione del nome di Nietzsche sia puntuale o meno non decide della fondamentale coerenza del disegno heideggeriano, il quale costituisce un aspetto cardinale della gravitazione problematica che occorre esplicitare. Il punto di vista a partire dal quale l'esplicitazione sarà condotta come risorsa dello sviluppo argomentativo resta, tuttavia, in profondo debito verso l'insegnamento nietzscheano: ma estendere l'esplicitazione stessa anche a questo debito – come ad altri analoghi, e facciamo soltanto i nomi di Derrida e Foucault – avrebbe non solo notevolmente accresciuto le dimensioni del testo, ma ne avrebbe definitivamente ancorato il baricentro al linguaggio della filosofia.
Si sarebbero così determinate condizioni di assoluta inospitalità per i lettori non specialisti – già chiamati a un impegno comunque non agevole – e, soprattutto, non si sarebbero aggiunti elementi indispensabili per la valutazione delle tesi che il testo si spera esprima. Ciò non significa, tuttavia, che tali debiti non debbano essere onorati con il loro chiaro riconoscimento [6]. Sarà bene fornire da subito almeno un cenno sulla direzione nella quale si intende procedere, per favorire la chiarezza e prendere impegni concreti e trasparenti con il lettore sull'articolazione del percorso. Le "opere" paleolitiche sono ormai, da non poco tempo, a noi presenti come qualcosa di passato, ma il loro senso non lo è. Esso continua, nonostante gli sforzi imponenti, a sfuggirci. Si può pensare che ciò sia dovuto all'abisso temporale intercorso, o alla rarefazione dei documenti, aspetti che appaiono della massima importanza e, anzi, risulteranno cardinali nell'assetto problematico dato: ma, appunto, essi sono qualcosa di più di semplici fattori meccanici di elisione di importi simbolici altrimenti assicurati. Non si mira, insomma, qui in alcun modo ad avanzare nuove ipotesi sul senso delle "opere" paleolitiche, bensì a delineare, se mai, alcune ragioni decisive per le quali il suo inseguimento appare profondamente problematico, e forse condannato allo scacco [7].
Si tratta, piuttosto, di provare ad accogliere la positiva estraneità dei reperti alle forme dell'appello in base alle quali andiamo inizialmente loro incontro, cercando di configurare il rilievo radicale delle domande che tale estraneità alimenta di fronte al pensiero. Queste domande, in quanto radicali, non avrebbero – come ha insegnato Heidegger – il loro corrispettivo in risposte immediate e conclusive, bensì nell'apertura di nuove dimensioni della ricerca: esse possono costituire dunque, insieme, un nuovo elemento di gravitazione filosofica e un fertile riferimento per le indagini archeologiche.
Qual è, dunque, lo statuto di segno delle "opere" paleolitiche nel loro mostrarsi refrattarie alla comprensione? Cosa ci mostra, a negativo, questa refrattarietà rispetto ai segni – ad esempio già quelli datati come epi-paleolitici e mesolitici – che appaiono invece in qualche modo aperti alla circolazione del senso? In che modo si ridisegna l'orizzonte stesso di questa circolazione quando esso appare come parte di un tessuto di segni che la eccede? È possibile, e in quali termini, elaborare una relazione genealogica tra segni "refrattari" e segni "aperti"? In che modo si disegna l'implicazione del pensiero occidentale – nella sua storia – nel risveglio dei segni paleolitici, nel momento in cui esso vi si scopre radicalmente interpellato? Ecco alcune delle domande che occorre lasciar dischiudere, e questo è quanto si tenta qui di propiziare.
Già dal titolo appare evidente, e la lettura non potrà che confermarlo, che 'verità' è un termine centrale per l'economia del testo. La "storia" di questo termine è infatti un tratto cardinale delle concatenazioni di eventi che vi si trovano in gioco, così che per alludere al ramificarsi di tali concatenazioni in ragione del risveglio dei segni paleolitici può ben essere utilizzata l'immagine della preistoria. In un certo senso, dunque, il termine 'verità' appare qui come il titolo di una storia piuttosto che come riflesso di una delle sue posizioni. In quanto titolo, tuttavia, esso resta in debito di un filo narrativo, che rasenti – ad esempio – tanto la domanda metafisica sull'essere dell'ente che quella heideggeriana sul senso dell'essere e quella di Foucault sulla genealogia anfrattuosa del discorso.
Si potrebbe dire che queste domande, ciascuna a suo modo e turno, richiamano il pensiero perché sono, di volta in volta e a partire dalla gravitazione problematica che le impone, autenticamente promettenti: il pensiero è richiamato all'azione dell'interrogare in quanto la domanda gli promette qualcosa, e questo qualcosa è ciò che il pensiero si ri-promette, ossia la verità. La verità può dunque essere intesa, in quanto filo narrativo, come la promessa della domanda, e il pensiero non sembra poter smettere di frequentarla come tale finché si muove nel raggio dell'interrogazione. Frequentazione più o meno consapevole, e sempre esposta al pericolo di divenire inavvertita: il movimento nel raggio dell'interrogazione rischia sempre infatti di oscurare ciò che giace sotto di esso e ne alimenta le geometrie – la gravitazione problematica –, restando irretito nell'offerta immediata delle superfici attraverso la cui quadratura può dispiegarsi.
Detto in altri termini: la chiarezza – nell'orizzonte del pensiero – non coincide purtroppo affatto con l'agevolezza della comprensione. La filosofia, anzi, lotta in un certo senso contro tale agevolezza, perché essa è tipica della disposizione che, in un'epoca data, appare più abituale e naturale. Si spera comunque di aver evitato, in queste pagine, che tale lotta si spingesse all'estremo: nonostante ciò, sarà come detto richiesta al lettore – soprattutto se non assiduo frequentatore di testi filosofici – una certa pazienza, d'altra parte sempre indispensabile quando ci si vuole disancorare dalla superficie. È quanto esprime Heidegger in parole che si vorrebbe restassero, esplicitamente o implicitamente, all'orizzonte di ciascuna delle pagine che seguono:
Ci avvicineremo invece a ciò che è solo procedendo al rovescio, posto che abbiamo occhi per vedere come tutto avvenga al rovescio [8].
[2] Latenza che tuttavia – contrariamente a quanto si potrebbe supporre – non sembra poter essere calcolata nell'ordine dei millenni. Diverse tracce, infatti, sembrano indicare che alcune grotte ornate erano frequentate in epoche storiche anche molto recenti: nella grotta di Gargas si trovano iscrizioni medioevali, romane e forse protostoriche; in quella di Niaux se ne registrano altre a partire dal 1660; in un editto pontificio del 1458, di Callisto III, si proibiscono in Spagna delle cerimonie religiose che avevano luogo nella "caverna con i cavalli dipinti" (cfr. Robert G. Bednarik, "European Art: the Palaeolithic Legacy?", Cambridge Archaeological Journal, vol. 7 n. 2, ottobre 1997, pp. 255-68). Quel che, dunque, caratterizza il risveglio contemporaneo delle opere è, innanzi tutto, che esso avviene nella luce dello sguardo archeologico.
[3] Cfr. Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode, J.C.B. Mohr, Tübingen 1960; ediz. it. a cura di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 160.
[4] Jean-Paul Jouary, L'art paléolithique. Réflexions philosophiques, L'Harmattan, Paris 2002. Si possono condividere diverse delle premesse del testo di Jouary, ma a maggior ragione si resta interdetti di fronte alla linea d'orizzonte che esso traccia a se stesso, racchiusa da categorie estetiche piuttosto irrigidite. Lo si vede bene quando viene delineata la presunta "questione centrale che quest'arte ci pone", ovvero il fatto che "associata a credenze e rappresentazioni diverse che non potranno mai venir decifrate con certezza, essa manifesta un'estetica, un gusto, una forma specifica di piacere, dei quali nessun antenato dell'homo sapiens sapiens ha lasciato tracce" (ibid., p. 70). A partire da questa restrizione, lo sviluppo problematico si esercita e limita nella posizione di questioni d'origine che riguardano, appunto, le entità del gusto, o dell'arte, e si soddisfa attraverso un conseguente decorso che, al prezzo della perdita di un'unità originaria, assicura nella medesima origine l'avventura dello spirito: "il pensiero umano, in tutte le sue dimensioni, non poteva nascere che dal ventre dell'arte" (ibid., p. 165).
[5] Jacques Derrida, De la grammatologie, Les Éditions de Minuit, Paris 1967; ediz. it. a cura di Gianfranco Dalmasso, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1998, p. 110. Derrida sta qui parlando, ovviamente, della questione degli esordi della scrittura.
[6] Lo spazio delle note permetterà comunque di dare dei concreti riconoscimenti in questo senso, nonché di tentare di delineare alcune direzioni di specifico approfondimento eventualmente percorribili a partire dal tracciato proposto.
[7] Come pensava Gianni Carchia quando parlava di "scacco immanente ad ogni ermeneutica dell'arcaico", all'interno di una radicale denuncia della violenza etnocentrica dello sguardo che il nostro tempo rivolge al passato, violenza della quale la voluttà interpretativa costituirebbe soltanto una variante più sottile e insidiosa: "... tale impotenza dell'ermeneutica al cospetto dell'arcaico si fa in certo modo anche più sensibile là dove, evitando qualsiasi riduzione naturalistica del mondo dei primitivi, si vorrebbe tentare invece di «comprenderlo»..." (Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, a cura di Gianni Carchia e Roberto Salizzoni, Rosenberg & Sellier, Torino 1980, pp. 9-10). Ci si vorrebbe però qui allontanare da ogni petizione di principio e dalle residue tensioni ideologiche, onde evitare che lo scacco prenda consistenza come qualcosa di preteso, ma possa essere invece, eventualmente, raccolto là dove, e come, esso emerge effettivamente.
[8] Martin Heidegger, Holzwege, Klostermann, Frankfurt A. M. 1950; trad. it. di Pietro Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1984, p. 28.