Lo spirito nomadico di Manifesta predilige per i suoi appuntamenti biennali i luoghi di confine, crogioli dove si mescolano culture, lingue, etnie, società, dove si affrontano con strumenti inediti e stimoli sempre nuovi le contraddizioni del nostro tempo. Dalle città fiamminghe, in cui è nata, ha toccato i paesi baschi, le terre slave ancora imbevute di ricordi austro-ungarici, sospese tra est e ovest, ha provato senza successo a inserirsi nella conflittualità ancora troppo calda greco-turco-cipriota, fino ad approdare oggi al luogo che forse più di ogni altro incarna in Europa le complessità ma anche le potenzialità del trovarsi "al confine". Non più una singola città, dove coagulare il senso della manifestazione, ma l'intero territorio di una regione nel cuore del nostro continente, cerniera tra l'area mediterranea e quelle Alpi che aprono all'Europa centrale e guardano ad est. Un asse che da nord a sud tocca quattro città — le quattro sedi ufficiali di Manifesta7 — ma si dispiega sull'intero territorio, in una miriade di eventi paralleli che animano l'estate e l'autunno del Trentino Alto Adige.
Si parte da Fortezza, dall'imponente fortificazione asburgica posta in difesa da un nemico che non si è mai palesato, per giungere a Rovereto, la piccola città che custodisce le sue radici ma si apre al mondo, passando per Bolzano, cogliendone la vocazione industriale novecentesca, e per Trento, la città dell'antico vescovato che fu la sede del famoso Concilio.
In un territorio così ricco di storia e di stimoli, il senso del luogo diventa l'anima stessa della manifestazione. Il genius loci di terre così liminali, così all'incrocio tra culture diverse, non si coglie solo nell'attaccamento geloso a radici ancestrali, nel sedimentarsi degli eventi e degli intrecci, ma comprende anche l'aprirsi a un progetto di modernità che nel suo dipanarsi si pone come alternativo alla globalizzazione omologante. La memoria, la mappatura del presente si coniugano a una tensione verso il futuro che apre a nuove possibilità.
Ecco perché i curatori, in un'attenta analisi dei luoghi, immergendosi nello studio della storia e della realtà locali, hanno scelto come sedi della manifestazione spazi legati al vissuto della comunità.
Il forte ottocentesco, estremo presidio di un impero vicino alla sua fine, si inerpica sulle montagne di Fortezza, allungandosi sulle rocce, sospeso tra cielo, terra e acqua, in un'atmosfera di attesa irrisolta di un nemico che non giungerà mai. Nelle sue stanze vuote risuona la parola degli autori scelti dai curatori per concepire Scenarios come uno spazio di pausa, di decompressione dal troppo vedere, per purificare lo sguardo rimanendo in ascolto. Un suono che scolpisce lo spazio, si insinua nelle sue pieghe, entra nel nostro intimo, restituendoci la sospensione dell'attesa.
La ex-fabbrica Alumix, testimonianza in disuso della vocazione industriale che Bolzano si è data nel recente passato, è lo spazio giusto per riflettere su The Rest of Now, il resto di ora. Un viaggio nella memoria della storia del luogo e di un'epoca che ha creduto ciecamente nel progresso portato dall'industrializzazione pesante. Dall'Alumix si estraeva l'alluminio, materiale simbolo dell'estetica industriale novecentesca, ma il processo di estrazione, come ogni trasformazione, portava al depositarsi di un residuo. È questo residuo, oggi, a farsi protagonista, in quanto traccia, memoria di quanto è avvenuto. Il resto di ora. Dove rest è "resto" ma anche "restare". Le scorie, i resti considerati inservibili da un'umanità che corre, produce e distrugge sempre più in fretta, diventano per gli artisti pretesto per interrogarsi sul senso di questo frenetico avvitarsi e scegliere invece di muoversi con il passo lento della riflessione su ciò che normalmente trascuriamo. Per sentire il respiro del tempo. Un elogio della lentezza e dell'ecologismo che i curatori del Raqs Media Collective individuano nella figura di Alexander Langer, l'attivista verde altoatesino, evocato come genius loci, in una polarità opposta all'elogio futurista della velocità pur così presente nel passato di queste valli.
Il residuo, per i curatori, è «l'accumulazione di tutto ciò che è lasciato alle spalle, nel momento in cui il valore è estratto… Non esistono storie di residui, nessun atlante dell'abbandono, nessuna memoria di ciò che una persona era ma poteva non essere». L'«atlante dell'abbandono» della ex-Alumix fa parlare i detriti, che diventano misura del tempo. La polvere stratificata rimossa dai muri con tecniche da restauratore da Jorge Otero-Pailos (The Ethics of Dust), per conservare ed eternare ciò che normalmente è da rimuovere per disfarsene: lo sporco, il deposito del tempo.
I suoni e i rumori registrati durante i lavori di ristrutturazione della ex-fabbrica da Stefano Bernardi (Close your Eyes!) sono restituiti allo spazio dove sono nati, emessi da casse distribuite in vari ambienti dell'esposizione. Il cono di luce che parte dal lucernario dello stabilimento si materializza in una cascata di nastro magnetico, come una torre imponente ma incorporea, che vibra e fluttua, impalpabile come la memoria del luogo (Skylight Tower di Zilvinas Kempinas).
Alla storia del luogo si lega anche The Soul, l'Anima, la mostra di Trento curata da Anselm Franke e Hila Peleg nel Palazzo delle Poste, un edificio razionalista di Angiolo Mazzoni che ecletticamente ingloba e coniuga nella sua struttura la tradizione architettonica rinascimentale con le forme ottocentesche del preesistente ufficio postale austro-ungarico.
Trento, il teatro del famoso Concilio della Chiesa cattolica, diventa il punto di partenza ideale per riflettere sull'identità interiore europea, quella che i curatori chiamano anima. E provano a tracciare una storia delle idee sull'anima, su un'interiorità che è fatta anche di desiderio e immaginazione, e sul controllo che politica, potere e religione hanno da sempre esercitato su di essa, concorrendo in questo modo a plasmare la dimensione estetica del nostro quotidiano.
Ci accingiamo, quindi, con gli artisti a compiere un viaggio nell'anima europea alla ricerca di un linguaggio che possa esprimere la complessità della nostra contemporaneità. Parte integrante della mostra sono cinque possibili musei immaginari in scala ridotta, in qualche modo legati alla psiche, pensati da artisti e studiosi chiamati a collaborare dai curatori.
Quale il ruolo dell'arte in questo contesto se non il tentativo della sua sovversione, attraverso quello che Benjamin definisce l'«occhio dialettico che percepisce il quotidiano come impenetrabile e l'impenetrabile come quotidiano»?
Una risposta può venire anche dal principio di speranza di Ernst Bloch, nume tutelare della mostra di Rovereto, Principle Hope, dalla cui visione utopica di apertura al cambiamento e al futuro Adam Budak parte per intrecciare il suo dialogo con la città. Una piccola comunità, come la Kleinstadt teorizzata da Bloch, che sa accettare e misurarsi con il nuovo, aperta e attiva, in grado di guardare al futuro senza rinnegare le proprie radici. È qui che alberga il principio di speranza, motore del "progetto del desiderio" di Bloch, una "sete" che si fa sempre sentire negli esseri umani, un impulso primordiale che fa scrivere a Budak, con le parole di Rosi Braidotti (On Ethics and Pain), che la speranza è una sorta di "sognare guardando al futuro".
Alla visione utopica di Bloch il curatore, accostandosi alla realtà di Rovereto, affianca la nozione di regionalismo critico mutuata dal teorico dell'architettura Kenneth Frampton, una forma di resistenza alla moderna società globale.
Superata l'epoca dello stato-nazione, le aree periferiche, snodi attivi dove è forte il senso di comunità, appaiono il terreno più idoneo per affrontare le contraddizioni dell'epoca contemporanea. È in questi luoghi, sospesi tra localismo e globalizzazione e incarnati in modo esemplare da Rovereto, che l'ancoraggio all'identità comune può non ripiegarsi su una chiusura asfittica all'altro e alla modernità, ma ha la possibilità di agire come forma di reazione all'appiattimanto generalizzato. È necessaria un'opera di decostruzione che rielabori i concetti e le modalità di appartenenza a un territorio comune per fare di questi luoghi dei laboratori proiettati in avanti. Artisti e curatore hanno operato appunto in tale direzione, scavando nella storia e nel vissuto della città, per aprire a partire da questo nuove direzioni di senso. Parte della riflessione ha avuto come oggetto anche l'idea di spazio pubblico, inteso come luogo dove entrano in gioco una pluralità di dinamiche e di valori, aperto a infinite possibilità.
L'intera città è stata coinvolta in una serie di interventi site specific e performativi. La cura e l'attenzione con cui Budak si è avvicinato alla realtà di Rovereto, scegliendo come location delle sue mostre due edifici in disuso densi di storia, si è riflessa nella partecipazione con la quale molti artisti si sono fatti prendere dallo spirito del luogo.
Gli spazi scelti fanno emergere tutto il vissuto che vi si è condensato: il grande edificio della ex-Manifattura Tabacchi, attiva fino a pochi anni fa, con il suo immenso cortile, che si apre come un teatro con le sue installazioni spettacolari all'interazione con i visitatori; l'ex-Peterlini, vecchia fabbrica di cacao, poi adibita a deposito di corriere e infine occupata di recente da gruppi anarchici cittadini; e poi il luogo-nonluogo per eccellenza dello scambio, dove non si è ancora del tutto arrivati ma nemmeno completamente partiti: la Stazione ferroviaria, contesto di passaggio pubblico, che in una sua porzione si fa spazio privato, scenario per interventi di artisti che dialogano con questo ambiente di attraversamento.
L'intervento forse più radicale è quello di Daniel Knorr (Ex-privato), che, in omaggio ai trascorsi anarchici della ex-Peterlini, l'ha dichiarata spazio pubblico, rimuovendone letteralmente le porte di accesso e aprendola completamente alla città, notte e giorno per tutta la durata della manifestazione.
Anche Runa Islam si rifà alla recente occupazione dello spazio, partendo nel suo video dalla frase lasciata dagli anarchici su un muro dell'edificio: «la casa è di chi la abita», una presa di possesso che è un invito al riuso di un ambiente altrimenti abbandonato (The House belongs Those Who inhabit It).
Le tracce lasciate sulle pareti dell'ex-Manifattura Tabacchi dai lavoratori tanti anni fa, così come l'anonima frase anarchica, sibillina e rassicurante, «siamo con voi nella notte» ripresa in caratteri al neon dal collettivo francese Claire Fontaine (dal famoso marchio di quaderni), trasmettono una forza evocativa che incoraggia a guardare avanti (Visions of the World, Rovereto - 21 dicembre il sole tramonta 15:38, 1965-1968 e We are with You in the Night - Siamo con voi nella notte).
Da una completa immersione nella realtà locale nasce il Carro Largo di Christian Philip Müller, che nella folkloristica parata del suo carro allegorico coniuga due utopie novecentesche: quella futurista (Depero realizzò un carro allegorico per la Manifattura Tabacchi in occasione della festa dell'uva di Borgo Sacco) e quella politico-spaziale (lo storico incontro in orbita tra le navicelle "nemiche" Apollo e Sojuz, celebrato da un pacchetto di sigarette russe casualmente trovato dall'artista nel corso del suo sopralluogo nell'edificio).
La rinominazione di un vecchio fotomontaggio di Hans Hollein, Golden Smart, che raffigura un'enorme sigaretta sospesa in cielo, dà luogo ad un'opera site specific intensamente straniante e dal respiro lungo. Riccardo Previdi fa galleggiare e lentamente consumare in cielo la sigaretta di Hollein per tutta la durata della manifestazione, chiamandola The Last Desire, l'ultimo desiderio, quello che non si nega neppure ai condannati a morte. La fa campeggiare in un ciclo di affissioni anche davanti all'ingresso della ex-Manifattura Tabacchi, quasi a scandire con un count down il lento congedo da Manifesta7.
Ma la metafora forse più poetica del guardare liberamente avanti, facendosi trasportare dal principio di speranza, ce la regala Guido van der Werwe, ripreso in cammino pochi metri davanti a una nave rompighiaccio, minuscolo, in una visione sublime, a indicarci la direzione (Nummer Acht. Everything is going to be Alright), oppure, con un détournement vero e proprio, osare porsi per un giorno fuori sincrono con il mondo, in una performance estrema al Polo Nord, ruotando in senso opposto a quello della Terra per 24 ore, e chiamarsi così idealmente fuori da ogni flusso predefinito (Nummer Negen. The Day I didn't turn with the World). Voce fuori dal coro, lusso del distacco.
Roma, Settembre 2008