La Critica

Gli anni Novanta: tra simulazione e multiculturalismo

Per una lettura del vicino passato

di Patrizia Mania
 
 

Per tutti gli anni '90 il contesto dell'arte contemporanea è stato compreso all'interno di due estremi: da una parte un'arte interstiziale, quasi invisibile, simulacrale e simulativa; e dall'altra un'arte della differenza, l'arte dell'«altro» chiamato finalmente in causa con pari dignità.

Accanto all'appropriazionismo ed al decostruzionismo ed in sovrapposizione ad essi, la prassi operativa che in arte segna distintamente gli anni del Postmoderno è quella della simulazione.

Ad essa Jean Baudrillard ha dedicato già dal 1981 uno studio «Simulacres et simulation», nel quale delineava la nuova società, una società in cui l'oggetto è divenuto simulacro dando vita per conseguenza ad una realtà sociale fatta di simulazioni. Quest'approccio decostruzionista del pensiero francese è stato assorbito e condiviso praticamente da tutta la cultura artistica contemporanea che se ne è appropriata identificandocisi. Ed è nel concetto dei ready-made assistiti di Duchamp che va rintracciato ed individuato il feed-back del fenomeno. Il che equivale ad affermare che il cammino verso la simulazione in arte ha lontane origini concettuali che radicalizzandosi sono giunte a riflettere l'affermazione, ancora di Baudrillard, per cui la simulazione è il luogo nel quale : «tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale»(1). Dunque, al surplus di realtà, una realtà sempre più anonima - i non luoghi secondo la definizione che ne ha dato Marc Augé - si risponde con una realtà fittizia non necessariamente scevra di contenuti e di capacità analitiche meritorie; non è un caso che proprio in questi anni l'artista francese Philippe Thomas dietro la sigla "les ready-mades appartient à tout le monde" proponga un ready-made collettivo potenzialmente di tutti sottraendo il valore da esso acquisito nella storia dell'arte.

E dunque nella cultura artistica degli anni '90 la "fiction" sarà una prassi diffusa proposta in una gamma vastissima di variabili in cui prenderanno vita realtà fittizie a funzionamento autonomo riconducibili tutte al "sistema dell'arte".

Se la tendenza alla simulazione rappresenta un po' l'estrema propaggine del pensiero postmoderno, una serie di grandi esposizioni aveva proposto alla fine degli anni Ottanta una visione dell'arte completamente nuova e opposta ai paradigmi abituali. Il primo grande evento in tal senso è Les magiciens de la terre, la mostra curata da Jean Hubert Martin e tenutasi al centre Pompidou nel 1989, che rappresenta anche il primo serio tentativo di allargare l'indagine dell'arte contemporanea verso il "radicalmente altro".

Si affaccia concretamente l'ipotesi che la definizione d'arte debba flettersi e comprendere forme d'arte legate ad "alterità" fino ad allora escluse.

L'anno successivo, al New York Studio Museum viene allestita la mostra "Contemporary african artists" che compie il passo ulteriore nella direzione del superamento delle categorie arte finora impiegate. Appare evidente che l'arte contemporanea non possa perseverare ad essere l'arte dell'Occidente opulento ma debba inevitabilmente aprirsi ad una visione veramente internazionale, globale. I mutamenti di carattere geopolitico hanno portato nel frattempo in primo piano anche l'arte dell'ex-Unione Sovietica, insieme ad una serie di esperienze che provengono da aree ex-coloniali: da vaste zone dell'Asia centrale al Sudafrica al Sudamerica. Nel saggio di Mike Featherson «La cultura dislocata: globalizzazione, postmodernismo, identità»(2), emergono chiaramente le problematiche fondanti la questione di un aprirsi della cultura ai multiculturalismi.

Per taluni artisti africani diviene chiaro il fatto che occorra sottrarsi alla mistificazione storica che vede come unico arbitro l'Occidente. Per quale motivo, ci si domanda, l'arte africana è vista come un territorio senza storia quando ha concretamente partecipato alla formalizzazione del modernismo occidentale? Si pensi all'importanza dell'inserto con le sculture africane ne Les demoiselles d'Avignon di Picasso del 1907. Se già dunque a quella data si era superata una lettura meramente esoticizzante rispetto all'«altro», in quanto posto sullo stesso piano delle figure strutturali cézanniane, è arbitrario il successivo abbandono di quest'intuizione, mantenuta in seguito solo nella valenza dialettica come termine di confronto.

Proseguendo in questa carrellata volta ad individuare i passaggi storici di trasformazione del concetto di arte contemporanea va ricordato che un'altra realtà artistica sommersa, la Cina, ha avuto in occasione della Biennale del '93 nell'ambito dei Punti Cardinali dell'arte un ampio spazio che ha concorso ad avviare un processo di conoscenza e confronto con le ricerche più avanzate. La prima vera occasione di confronto internazionale dell'arte cinese si era già avuta nel 1989 quando un gruppo di giovani critici di Pechino, tra cui Li Xianting, Hou Hanru, Zhou Yan, Gao Minglu, riuscirono ad organizzare una mostra dal titolo Cina/Avanguardia'89, che profilò il ritratto di una generazione presto impostasi all'attenzione internazionale.

La complessità ineludibile delle realtà sommariamente descritte costituisce il necessario punto di partenza per tentare di comprendere il nostro presente. Solo in un'ampia considerazione di questi fatti le singole dettagliate questioni linguistiche e o espressive possono a ragione essere prese in considerazione.
 
 

                                   Roma, 6 Dicembre 2000

Note

(1) Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, p.18, 1976.

(2) Featherstone Mike, La cultura dislocata: globalizzazione, postmodernismo, identità, ed.it. Seam, Roma, 1998.

 


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