di Patrizia Mania
Come l'arte concorra a definire e ad alimentare i nuovi sistemi informatici e che ruolo essa copra al suo interno sono problematiche ineludibili. Lo sanno bene gli operatori di settore che si accingono ormai da tempo in una revisione di continuo aggiornamento dei propri mezzi d'indagine ed espressivi.
Oggi non ha più senso isolarsi nel proprio antro di ataviche competenze; è necessario interagire con il nuovo. Questo non significa che si debba rimuovere o cancellare il patrimonio acquisito ma che si debba invece stabilire un contatto; trovare dei modelli che ne consentano l'apertura attraverso i quali giungere anche ad una loro verifica di applicabilità e di tenuta. Non si tratta solo di tradurre, il che in alcuni casi equivarrebbe a tradirne la sostanza, si tratta di mettersi in una relazione rinnovata con il presente. Una relazione che non può esaurirsi in un superficiale riciclaggio ma alla quale occorre il metabolismo.
Occorre cioè che l'interazione sia criticamente vissuta. Al contrario, l'equivoco di un moderno travestimento nel digitale ha spinto negli ultimi anni una buona parte degli artisti ad enfatizzare l'uso del mezzo informatico in termini che potremmo definire di asservimento acritico. Immagini accattivanti impresse su tela o carta fotografica poste ad indagare il non-sense o l'eccesso di significato nella stratificazione dell'elaborazione forniscono un'applicazione solo apparente del mezzo informatico. Una prassi che se ha avuto il pregio immediato di accendere l'interesse sulla novità visiva prodotta dal mondo digitale sembra ormai esaurita in se stessa. Non si tratta di ritenere l'impiego legittimato dal contesto né di ergersi a paladini di specifici linguistici in via d'estinzione.
La necessità della contaminazione o meglio della presa d'atto è fuori questione; va discussa semmai la portata dell'interesse che un'applicazione acritica induce. C'è cioè in alcune esperienze artistiche non esplicitamente afferenti all'impiego del mezzo il rischio di un invasamento tecnologico. E senza dominio sul mezzo non possono che sperimentarsene le possibilità obbligate che lo concernono. Si resta perplessi, ad esempio, davanti ai tentativi di produrre dei lavori pittorici con viraggi o sublimazioni "plotterate" che se da un lato stemperano le qualità specifiche della pittura, dall'altro sembrano volerne trasferire in blocco le qualità altrove. Occorre essere coscienti dell'impossibilità di rimpiazzare l'esperienza visiva materica della pittura con un surrogato digitale, a meno che non sia proprio questa la finalità del lavoro. Il contesto riferito è, beninteso, quello di esperienze che accolgono in termini meramente epidermici l'apporto delle nuove tecnologie.
Diverso è il caso di quelle ricerche volte effettivamente a sperimentare le potenzialità del mezzo o anche a predisporne l'uso per proposte estetiche multimediali. Ovvio che, come si diceva, metabolizzando l'uso del mezzo la questione della subordinazione diventi irrilevante. Ora, uno degli impieghi maggiormente identificatori della cultura digitale è stata, soprattutto all'origine, la creazione di banche-dati. La pretesa, quasi onnivora, di comprendere lo scibile settoriale al fine di tesaurizzarlo e dominarlo è stata l'oggetto in traduzione concettuale-ideologica di un lavoro di Antonio Muntadas iniziato già nel 1995. «The File Room» consisteva nell'elaborazione di un archivio interattivo di dati sulla censura culturale, accessibile a tutti via internet sul World Wide Web.
All'origine del progetto era l'intenzione di «incoraggiare le persone a ripensare le loro nozioni di censura e ad allargare le definizioni di esse» (2). Infatti, chiunque avrebbe potuto aggiungere dati relativi alla censura da essere permanentemente memorizzati nell'archivio. Nelle sue analisi criticamente decostruttive e di svelamento dei sistemi di informazione dei media contemporanei Muntadas è da ritenersi un precursore ed il lavoro menzionato è sicuramente uno dei più interessanti nel rappresentare l'appropriazione artistica dei sistemi di informazione per fini ermeneutici e critici. Si vede bene come nel suo caso l'assimilazione al mezzo ha mantenuto l'operazione artistica sovrana della propria essenza ed un progetto, benché mutuato dalle modalità di raccolta informatica, permette una coerente e consequenziale lettura degli intenti dell'artista che non si sarebbero potuti manifestare e divulgare in altro modo, o comunque in modo altrettanto efficace. E, trattando della rivoluzione informatica, non si può non riferirsi proprio al côté della divulgazione empatica dell'arte.
Assai realista è risultata un'attuativa simulazione del sistema che ha avuto corso all'inizio del 1998 nel progetto Cream - Contemporary Art in Culture (3), consistente in una mostra virtuale sostenuta criticamente da conversazioni svoltesi via internet tra dieci curatori internazionali e poi documentata da una voluminosa pubblicazione. Il pregio dell'iniziativa non concerne le modalità del fare arte o del produrre critica ma il contesto fattuale del loro inveramento. L'essere nella rete che equivale, fuori dalla traduzione o dal prestito linguistico dei singoli lavori, all'ubi consistam dell'evento.
Tra gli innumerevoli modi che il mezzo informatico può assumere all'interno di una ricerca c'è poi una modalità frequente che assolve al compito di interagirvi senza enfasi aggiuntiva ma come strumento enfatizzante caratteristiche già presenti. Studiandone le specifiche potenzialità le piega o le indaga "introiettandole" e così sottraendosi alle mere traduzioni.
In una mostra curata presso lo studio Change di Roma nel 1998 proponevo nella formula di «risonanza digitale» un canale diverso di avvicinamento al mezzo informatico che riconosceva i pregi del mezzo ma se ne serviva in ricerche di segno autonomo seppur consustanziale. La mostra nasceva sulla scorta di queste osservazioni specificandosi nella proposta di tre esperienze artistiche distinte ma accomunate dalla prassi digitale (4). Di un impiego digitale cioè che non snatura l'operazione artistica nella sola ridondanza delle peculiarità proprie al mezzo, ma che si serve delle sue proprietà, qualsiasi esse siano, filtrandone gli aspetti più conseguenti alla specificità del lavoro.
La definizione proposta di "risonanza digitale" si precisava come assunta nell'accezione semantica adottata relativamente ai processi diagnostici detti di "risonanza" il cui presupposto è di distillare attraverso un determinato processo dei dati prescelti affinché se ne evidenzi una trama. Estensivamente la risonanza si definisce allora non come un'eco indifferenziata di qualsivoglia sollecitazione, ma come ridondanza "ad hoc" di ciò che si decide di enfatizzare. Diviene in sintesi la traccia e l'essenza del proprio segno, del proprio pensiero. E, questo non è ovviamente praticabile esclusivamente nelle ipotesi di ricerca artistica che lì si suggerivano, ma assume e sta sempre più assumendo un'identità propria che ha il sapore di una rivoluzione epocale che, comunque sia, sarà d'ora in avanti imprescindibile.
Pionieri di una
nuova sensibilità, in bilico tra seduzione del mezzo e controllo orientativo
dello stesso, gli artisti stanno ridisegnando i modelli operativi estetici.
Un compito arduo che non sarà facile aggirare negli anacronismi di
ritorno né fingere di pilotare nell'assecondare supinamente gli schemi
predisposti dai sistemi informatici.
(1) Paul Virilio intervistato da Ariel Kyrou e Jean-Yves Barbichon, «Devant la liquidation du monde: Paul Virilio», in, Bloc Notes , Parigi, n°9, estate 1995, p.53.
(2) Antonio Muntadas, Arte Identità Confini, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Ludovico Pratesi,Carte Segrete, Roma , 1995, p.30.
(3) AA.VV., Cream contemporary art in culture, London, Phaidon Press, 1998.
(4)
Gli artisti chiamati nella mostra a dare testimonianza di questo procedere
- Laura Palmieri, Pasquale Polidori e Giovanna Trento
- presentavano e presentano scarne affinità tra loro, ma in tutti
viene confermato l'assunto di base. In particolare, per tutti e tre, si
era rivelato necessario, almeno nella fase documentata in mostra, l'uso
del computer nell'elaborazione dell'immagine, senza però che le
sue manifestazioni sovrastassero e soffocassero le caratteristiche intrinseche
del singolo lavoro. Il rapporto può definirsi sinergetico.