L'interculturalismo è una teoria e una prassi di qualche rilievo perché auspica in buona sostanza che in una società multietnica e multiculturale prevalgano atteggiamenti e comportamenti di conoscenza e scambio reciproco, di ibridazione e mescolamento etnico e culturale tra i membri di quella società.
Significativamente tale posizione si è diffusa soprattutto in ambito educativo, dove è particolarmente sentita l'esigenza di una diffusione di conoscenze su culture diverse e del riconoscimento del valore dei contributi culturali provenienti da contesti sociali extraoccidentali [Marazzi 1998: 180]. Infatti è facile imbattersi in termini quali "educazione interculturale", "pedagogia interculturale", "comunicazione interculturale", "relazioni interculturali", concetti che definiscono pratiche educative e pedagogiche volte a cercare l'incontro e il dialogo con l'«altro».
Certo, orientarsi nella terminologia specifica del settore non è facile: ad esempio spesso si sente parlare di multiculturalismo e di interculturalismo come se fossero quasi sinonimi, cosa che a mio parere è profondamente sbagliata.
Esasperando un poco le differenze tra i due concetti il termine multiculturalismo descriverebbe fenomeni legati alla giustapposizione di culture diverse, come ad esempio nei diversi quartieri di una metropoli europea o statunitense i cui abitanti, a seconda dell'etnia, occupano uno spazio diverso e che quindi difficilmente "si incontrano" e dialogano. Col termine interculturalismo intenderemmo invece, riprendendo l'esempio precedente, una metropoli in cui tutte le etnie, con le loro culture, condividono gli stessi spazi, comunicando, discutendo, dialogando.
Sicuramente la pratica interculturale, da quanto si è detto, risulta più difficile, complessa, perché esige che noi, abitanti della metropoli, incontriamo l'«altro», ragioniamo con lui, mediamo tra la nostra cultura e la sua, costruendo una sintesi di culture, sovente diversa dalle culture di origine.
Nella pratica interculturale occorre essere capaci di relativizzare la propria cultura (relativismo culturale) superando perciò l'etnocentrismo, ossia il sentimento di chi considera la propria cultura, con le sue proprie caratteristiche e soprattutto valori, "al di sopra" di altre culture. Per iniziare un dialogo interculturale occorre liberarsi dei propri pregiudizi e dagli stereotipi ad essi collegati.
Non è una impresa facile perché ciascuno di noi ha una identità etnica e culturale forte, per cui spesso diamo per scontato che il nostro modo di vivere e di pensare sia "naturale", condivisibile universalmente, giusto (talvolta pensiamo anche che sia l'unico possibile).
L'identità è un'arma a doppio taglio; infatti da un lato, come un paio di occhiali, ci dà una "visione" particolare del mondo, aiutandoci a interpretarlo più facilmente e semplicemente, ponendoci ben pochi dubbi, e dandoci così l'illusione di controllare e comprendere la complessità e le contraddizioni del mondo moderno.
D'altro canto questo "paio di occhiali" ci impedisce di comprendere le ragioni degli altri, fino a diventare una pesante maschera [Remotti 1996], che ci conduce spesso all'intolleranza, all'etnocentrismo, al razzismo, sino alle estreme conseguenze.
Molta critica all'essenzialismo si muove sullo stesso solco; l'essenzialismo infatti mira a considerare l'identità culturale di un uomo come fissata e data per sempre, mentre semmai è il risultato di un continuo processo di costruzione sociale politica, dato che la cultura è anch'essa in perenne evoluzione e trasformazione.
Naturalmente non si intende banalizzare il multiculturalismo, il quale è ben più della coesistenza di più culture in un paese, implica progettualità e lungimiranza politica, e una grande capacità di scelte equilibrate e coraggiose da parte dei governi nazionali e locali.
Certo esistono molti tipi di multiculturalismo, con gradazioni diverse; Marco Martiniello ne dà tre definizioni interessanti: multiculturalismo soft, hard e di mercato.
Il multiculturalismo soft riguarda l'attenzione e l'amore verso le cose esotiche, portate nelle grandi città dagli immigrati, siano essi abiti, profumi, musica, cibi e stili di vita. «Nel campo del cibo più una città è ricca di ristoranti dove si servono specialità di altri paesi, più essa può dirsi multiculturale» (2000: 63). Naturalmente, aggiungiamo noi, si tratta di un multiculturalismo easy, in quanto sembra piuttosto facile accettare o comprendere la bontà di un piatto di sushi o di gulash, o un tamales, piuttosto che il chador o l'escissione o altre pratiche notoriamente oggetto di dibattiti serrati nel mondo occidentale.
Il multiculturalismo hard «rimette in questione la concezione classica dell'identità nazionale, mentre trascende il superficiale pluralismo insito nel multiculturalismo soft» (2000: 74). Nei casi estremi del multiculturalismo hard si arriverebbe a prevedere diversi diritti e diversi doveri a seconda dell'etnia in questione, mettendo in forse la tradizionale uguaglianza di tutti davanti alla legge, pericolo paventato da Sartori e da altri politologi ed esperti di Diritto.
Infine c'è il multiculturalismo di mercato, che si basa sul meccanismo domanda-offerta: «per esempio nelle zone degli Stati Uniti abitate da consistenti minoranze ispano-americane sono apparse delle emittenti televisive in lingua spagnola» (2000: 75). Queste ed altre pratiche scaturiscono da un semplice calcolo economico che mira ad ottimizzare i vantaggi della multiculturalità.
Martiniello riconosce che il multiculturalismo è soggetto a pericoli e rischi di degenerazione e che perciò non si può dirne né bene né male in linea di principio, ma solo esaminando i casi reali e le sue applicazioni; prospetta pericoli e degenerazioni del multiculturalismo, attraverso la disamina di casi concreti.
Martiniello ribadisce con forza la condanna a pratiche come quella dell'escissione in quanto, al di là del multiculturalismo, «il rispetto dell'identità fisica e psicologica di ogni persona umana può essere difeso come un valore universale» (2000: 82).
La soluzione ai dilemmi del multiculturalismo potrebbe stare nella terza via proposta con modestia e prudenza da Martiniello nelle ultime pagine del libro, consistente in una fusione tra esigenze di diritti collettivi e individuali, tra assimilazionismo e pluralismo, in modo da uscire dai "ghetti culturali" e intervenire nella realtà fattuale, a livello di filosofia politica, interventi pubblici e pratiche sociali. Diritti e doveri uguali per tutti, ma anche riconoscimento delle diversità e flessibilità di intervento sociale e politico.
Nella conclusione Martiniello ricorre, o così ci è parso, all'etnocentrismo critico demartiniano, proprio per superare l'impasse dell'assunto su cui si regge tutto il ragionamento ossia la bontà della democrazia occidentale, cosa che ci trova, si parva licet, concordi:
«Ho voluto dimostrare come pensare l'accettazione della diversità culturale coincida con il pensare la democrazia e come, nello stesso tempo, il rispetto per la democrazia rappresenti il limite da non superare in fatto di accettazione della diversità culturale. Ebbene la scelta deliberata della democrazia non viene mai motivata, eppure la si contesta nel mondo industrializzato e anche altrove. Una questione tormentosa rimane aperta: questa riflessione sul multiculturalismo è qualcosa di diverso da un nuovo tentativo di imporre al mondo intero un credo tipicamente occidentale? Penso di no [...] In altri termini, anche se la fede nella democrazia traduce una forma di occidentalocentrismo, onestamente non posso fare a meno di proclamarla» (2000: 111).
L'interculturalismo conduce a cercare regole, diritti e doveri validi per tutte le culture, a cui ogni individuo possa appellarsi e che ognuno debba rispettare. L'interculturalista non va confuso con chi pratica la politica assimilazionista, semmai cerca un terreno comune di incontro e di dialogo, e una cultura che sia il prodotto delle culture di partenza.
Clifford Geertz si
è interrogato spesso sugli usi della diversità e tra le sue riflessioni
ve ne sono alcune di particolare interesse, centrate sul confronto con la "differenza".
Gli atteggiamenti delle persone di fronte alla differenza di altri soggetti
(etnica, culturale, sociale ecc.) sono raccolti sotto tre etichette: forza,
tolleranza e ambiguità:
L'uso della forza per assicurare la conformità ai valori di coloro che possiedono la forza... una vacua tolleranza che non cambia nulla poiché non affronta nulla... infine... un continuo dribblare che conduce ed un esito ambiguo [Geertz, 2000: 555].
Nei fatti paternalismo, indifferenza e arroganza sono tra le pratiche
più comuni nell'affrontare le differenze. Al giorno d'oggi l'alterità,
in virtù di mass media, nuove tecnologie, globalizzazione e new economy,
è sempre più vicina e sempre meno gestibile, perché è
venuta a mancare quella "distanza" (spaziale, temporale, socioculturale) che
rendeva lo studio dell'alterità, in un certo qual senso, più semplice.
Per Geertz lo studio
della diversità oggi deve essere impostato in modo diverso:
Gli usi della diversità culturale, del suo studio, della sua descrizione analisi e comprensione, non si situano in un percorso che ricolloca noi stessi in rapporto agli altri al fine di difendere l'integrità del gruppo e sostenerne la fedeltà; piuttosto essi si pongono lungo un percorso atto a definire il terreno che la ragione deve oltrepassare se intende acquistare i suoi pur modesti traguardi e renderli effettivi. Questo terreno è scabroso, pieno di buche inaspettate [...] attraversarlo o tentare di farlo, non vuol dire affatto livellarlo, trasformandolo in una liscia, sicura e ininterrotta pianura; al contrario se ne portano semplicemente alla luce le discontinuità e i contorni [Geertz, 2000: 556].
Geertz definisce il mondo odierno un enorme collage, un bazar,
un assemblaggio di diversità, in cui vivere la differenza è complicato.
Occorre imparare a comprendere, cioè a percepire e intuire le diversità,
abbandonando un vuoto cosmopolitismo ma anche un campanilismo senza pietà,
così come una tolleranza indiscriminata in quanto «Se
vogliamo essere in grado di emettere un giudizio di larghe vedute, e senza dubbio
dobbiamo farlo, dovremmo essere noi stessi in grado di vedere in modo ampio»
[Geertz, 2000: 559].
Mi sembra che le indicazioni metodologiche di Geertz, concernenti la metafora del terreno e l'appello alla comprensione delle diversità, abbandonando sia la pratica del cosmopolitismo sia quella del campanilismo, siano nel complesso un corpus di riflessioni coerenti con l'interculturalismo.
Nel caso delle teorizzazioni
estreme del multiculturalismo, le culture e le identità culturali vengono
considerate come date, fissate una volta per sempre, non suscettibili di mutamento.
La differenza tra i due approcci è stata messa in luce da A. Marazzi:
L'attenzione rivolta agli aspetti dinamici e alle possibilità positive di intervento e di trasformazione sociale in una realtà culturalmente composita hanno portato a preferire da parte di alcuni il concetto [...] di interculturale anziché multiculturale. Secondo tale orientamento, quest'ultimo termine suggerisce una situazione statica e priva di incontri reciprocamente fertili, di semplice convivenza tra gruppi di diversa origine; mentre l'interculturalità indicherebbe conoscenza e scambi reciproci, con conseguente arricchimento culturale sia dei singoli gruppi sia della società in generale [Marazzi 1998: 180-181].
Alcune forme di multiculturalismo infatti si richiamano a concezioni
naturalistiche e essenzialistiche della cultura e dell'identità; in questo
modo un individuo sarebbe sempre e solo immerso in una sola cultura e possederebbe
una sola identità culturale:
Molti multiculturalisti concepiscono un universo sociale chiaramente e nettamente diviso in culture coerenti e distinte di cui sono portatori gruppi sociali di forte omogeneità interna. Si suppone che questi gruppi, denominati minoranze etniche, gruppi etnici, comunità culturali ecc., vivano insieme con una difficoltà tanto maggiore quanto è più sensibile la differenza, la distanza culturale che li divide [Martiniello 2000: 80].
A questo punto sorge una domanda: il pluralismo, valore tipico
della Democrazia, è di ascendenza multiculturale o interculturale?
G. Sartori afferma
che il pluralismo non si riconosce in una discendenza multiculturale ma nell'interculturalismo.
Per lui l'Europa attuale, in quanto tale, è una realtà creata
dallo scambio interculturale, dall'interculturalismo e non dal multiculturalismo.
Infatti:
Il multiculturalismo porta alla Bosnia e alla balcanizzazione; è l'interculturalismo che porta all'Europa [Sartori 2000: 112].
Il pensiero di Jean Loup Amselle ribalta molti punti di vista
tradizionali: proclamando l'universalità delle culture e la forza delle
connessioni secolari tra culture diverse Amselle provoca coloro che vivono la
congiuntura attuale come uno scontro tra culture irriducibilmente diverse, tra
monoliti inconciliabili e incomunicabili.
La dialettica tra locale e globale viene sciolta attraverso l'affermazione secondo cui il locale è parte del globale e non il suo antagonista, ossia che il locale è fatto della stessa sostanza del globale: in questo modo resistenze e fondamentalismi verrebbero a mancare dei propri pilastri teorici (come l'opposizione radicale tra mondo globalizzato e civiltà pure e incontaminate).
Amselle ci svela l'esistenza di tali connessioni attraverso esempi etnografici tratti dal passato e dal presente delle civiltà africane, ci guida attraverso i nodi della rete (network) che esse formano, e ci indica la trama complessiva che esse formano; d'altronde il termine "connessione" è tutt'altro che casuale e prende consapevolmente le mosse dal linguaggio e dal paradigma di Internet.
La "connessione" amselliana si può insomma ascrivere nell'attuale tendenza a considerare i fenomeni sociali descrivibili come reti, formate da nodi di significati, segni e simboli, attori sociali.
In particolare si segnala l'ultimo capitolo, dedicato alla "guerra delle culture", come è stata definita qualche anno fa dal politologo statunitense Samuel Huntington in The Clash of Civilizations.
Credo sia opportuno ricordare che il volume di Huntington è stato oggetto di accese dispute, e su di esso pesa anche un giudizio di riduzionismo. Infatti lo studioso sostiene che le grandi linee di divisione e le fonti di conflitto dominanti nel prossimo futuro saranno soprattutto di matrice culturale e non più ideologica o politica, e principalmente riguarderanno la cultura cristiana versus quella islamica: «Lo scontro tra culture determinerà la politica mondiale...La prossima guerra mondiale sarà una guerra tra culture».
Amselle si interroga sullo scenario prospettato da Huntington, partendo dalla constatazione che in realtà le identità etniche sono in perpetua costruzione, prodotti storici, mentre una certa antropologia le ha considerate e le considera oggetti finiti, chiusi, monolitici.
In Italia da Francesco Remotti in Contro l'identità, a Ugo Fabietti in L'identità etnica e Giulio Angioni, in Ethnic Groups, sostengono che l'identità sia costruita e manipolata dal singolo come dai gruppi, a seconda delle situazioni e delle relazioni.
Questa constatazione dovrebbe condurre a ridimensionare le spinte identitarie, attraverso cui alcune culture rivendicano differenze assolute, incolmabili, insanabili col resto del mondo, nella consapevolezza che queste identità, perfettamente chiuse e autonome sono costruzioni, finzioni...
In conclusione
sembra di poter auspicare pratiche ibridanti che conducano alla commistione
di elementi locali e globali, in opposizione alle forme estreme di multiculturalismo,
le quali proclamando l'uguale dignità dei valori di tutte le culture,
con una forma di relativismo acritico e amorale, ne decretano altresì
la reciproca incompatibilità, conducendo ai ghetti culturali, luoghi
di sicuro mantenimento delle differenze, ma anche delle divergenze e delle incomprensioni,
destinati a fomentare vecchi e nuovi odi etnici e culturali.
Cagliari, 19 Ottobre
2001
Bibliografia consigliata
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