La Critica

Jean François Lyotard: «Il tempo dell'afflosciamento»

di Maurizio Grilli

 

«Di afflosciamento», così descrive lo stato della tendenza del tempo (1982) Jean François Lyotard nel suo articolo «Réponse à la question: qu’est-ce que le postmoderne?»(1). E prendiamocela questa che sento come una briga, di capire che cosa vuole dire Lyotard e perché. È giusto però premettere il motivo per cui sento questa impresa come una briga: perché non mi serve a niente, non mi dà alcuna soddisfazione, non mi fa sentire né più, né meno uomo, mi dà solo la sensazione di aver perso tempo. Ma una volta bisogna prendersela la briga, perché il peso, che è stato attribuito a Lyotard e alla intellettualità di cui fa parte, è notevole, anzi tanto ingombrante che per tre quarti di secolo si è fatto fatica a vedere e sentire altro. Solo apparentemente in modo paradossale proprio le espressioni che più si sono lamentate del sistema politico, sociale ed economico dominante hanno tenuto banco, sono state le più presenti sulla scena della cosiddetta alta cultura. Solo apparentemente perché in realtà esse hanno fatto parte dello stesso sistema dominante. Parte integrante. Quindi l’afflosciamento che denuncia Lyotard è un buon segno: un segno che il sistema che domina dominato dal dio denaro è in crisi. Ma torniamo ad occuparci, per una volta, seriamente di Lyotard, seguendo passo passo la sua argomentazione nello scritto sopra citato e mettendo in corsivo il testo che si riferisce al suo pensiero.

Lyotard si lamenta del fatto che da tutte le parti «li» si inviti a finirla con gli esperimenti. Chi sono questi «li» di cui Lyotard espressamente si sente parte? Gli avanguardisti degli anni 60 e 70, come si legge qualche riga sotto. Poi Lyotard cita una serie di luoghi in cui egli avrebbe percepito questo invito. E sono luoghi che inviterebbero le avanguardie a riconciliarsi con la realtà. Ma siamo in un gioco di specchi in cui sia la realtà incriminata, che la reazione ad essa che la reazione alla reazione ad essa sono riflessi della stessa luce. È un intreccio intricatissimo che si regge solo sul suo essere intricato e che parla di realtà, ma rispetto al quale la realtà è altra cosa e ne corre al di fuori con la sua modalità, con la sua dinamicità, con la sua drammaticità di sempre e alla quale non si può cambiare nome, perché ciò non avrebbe senso. Se io ora chiamo un maiale cavallo, quello non comincerà per questo a nitrire, né a correre veloce, ma continuerà a grugnire come sempre.

Di tutti i luoghi citati Lyotard ne nomina solo uno con nome e cognome: Jürgen Habermas e ne critica la pretesa che l’esperienza estetica debba servire a ripristinare un rapporto armonico del singolo con la realtà. Come se fosse possibile appunto stabilire che cosa debba o non debba essere l’esperienza estetica o cambiarle essenza dandole un altro nome. Una cosa è studiare un fenomeno con l’intento di capirlo nel suo essere, un’altra cosa è studiarlo con l’intento di determinarlo.

A prescindere dal valore della definizione di esperienza estetica di Habermas, che qui non è in discussione, questi aveva posto un problema legato alla sua esperienza e definito in termini chiari (chiari perché riferiti a situazioni concrete cioè non nate nell’ambito di riflessioni esclusivamente teoriche): Habermas – lo cita Lyotard stesso – percepisce un frastagliamento della cultura e una separazione di essa dalla vita, percepisce abissi fra i discorsi di scienza, etica e politica e le esigenze dell’uomo. Partendo da queste percezioni si chiede quale sia il modo per ristabilire una unità fra questi ambiti dell’esistenza umana. Nel commentare tale pensiero di Habermas, Lyotard dà l’impressione di esserne venuto a conoscenza come attraverso un filtro distorcente. I discorsi di scienza, etica e politica diventano giochi di lingua. L’unità diventa unità socioculturale, la vita diventa vita del quotidiano e cultura diventa pensare. Poi all’osservazione di Habermas sono attribuite due paternità, una hegeliana di una esperienza dialettica totalizzante, l’altra kantiana prossima allo spirito della «Critica del Giudizio». Inoltre vengono chiamati in causa anche Wittgenstein e Adorno che avrebbero già trattato dello stesso problema posto da Habermas. Ma come tutto questo sia vero Lyotard non lo dice. Insomma la chiara osservazione di Habermas è trasformata in un grumo di elucubrazioni e ad uno che non conoscesse Kant, Hegel, Wittgenstein e Adorno verrebbe da dire: se lo dice uno così importante, sarà vero!

Nel capitolo seguente intitolato «Il realismo» Lyotard esprime la sensazione che si voglia liquidare il fenomeno dell’avanguardia. Segni ne sarebbero il bisogno di armonia, comprensibilità e popolarità, la richiesta all’arte di farsi capire. Ma l’arte «che si fa capire» ha forse mai cessato di esistere? In realtà questa non non è «arte che si fa capire», è arte e basta, per la quale il problema non si pone. E chi ne resta affascinato non chiede nulla di più. Se qualcosa non rimane nell’anima, non rimbalza dentro come un’eco, non fa venire voglia di rivederla, rileggerla, riascoltarla, questa per queste persone non è arte, cosa che non toglie che essa lo sia per altri. Ma che nessuno si permetta di dire questa è arte e quella no, questa è arte maggiore e quella minore. Ognuno dica la sua senza pretese di salvare l’umanità con le sue illuminanti e dogmatiche scoperte.

Segue una frase fondamentale per cogliere il punto di partenza del pensiero di Lyotard: «Ogni classicismo sembra proibito in un mondo, nel quale la realtà è talmente destabilizzata, che essa non offre più materiale per l’esperienza, ma certo però ancora per esplorazione ed esperimento». La nostra età è forse più destabilizzata di altre? Fa parte dell’arroganza di questa cerchia di pensiero, ritenere di essere vittime speciali della storia. In realtà le avanguardie sono il bavaglio con il quale l’impero del denaro e del commercio, che ne è espressione, tenta di ammutolire o rendere impercepibili le espressioni più schiette dell’uomo, quelle che sì sarebbero fattore di disturbo, di intralcio per esempio al funzionamento del mercato. Le avanguardie non intralciano nulla, perché non accendono la fantasia e i sogni. Sono fantasia e sogno che rendono l’uomo unico e difficilmente utilizzabile per indagini di mercato. Ma di cosa si lamenta l’avanguardia se di essa sono pieni musei, gallerie e scaffali di biblioteche e persino libri di scuola – per inerzia senza che nessuno abbia il coraggio di chiedere: ma che cosa vogliono dire? Le testimonianze dell’avanguardia nelle biblioteche sono anche dopo decenni come nuove, nei musei sono ricoperte di polvere nei depositi. La loro qualità essenziale è di occupare spazio. Il sistema dà il suo spazio a ciò che gli assicura la sopravvivenza o non lo minaccia perché non dice niente a nessuno.

Lyotard commenta poi l’invenzione e l’affermazione della fotografia come ultimo stadio di un processo di "ordinamento del visibile" che sarebbe iniziato già nel rinascimento. Il "cinema industriale" è visto poi come forma di appiattimento degli eventi per fare di loro elementi di un grande ordinamento prefabbricato, che però in realtà non esisterebbe. "Conformismo delle masse" è l’espressione chiave che più rende aggressivo Lyotard e gli altri dell’avanguardia. È questo l’oggetto dell’odio che dovrebbe assorbire tutte le energie ed esaurire l’azione dell’artista in una reazione programmata. L’artista dovrebbe essere tutto concentrato nella critica ai modi della sua arte. Tanto concentrato che le sue espressioni dovrebbero esaurirsi in questa paranoia di critica e rinunciare all’atto artistico vero e proprio. Ma ne sarebbe in grado? L’artista è infatti sollecitato da una forza interiore che non si lascia soffocare da niente e lascia ad altri le quisquilie sulla legittimità o meno della forma. Max Scheler, nel capitolo intitotolato «Vorbilder und Führer», modelli e duci, di un suo scritto(2) ci parla del "Genius". Il genio è l’essere umano con una determinata disposizione interiore, tale da metterlo sulla strada della scoperta della verità – parola da intendersi nel senso originario del termine e quindi di uno stato-delle-cose, lo stato dell’essere-allo-scoperto. Il genio vede la realtà senza veli e questo non perchè lo voglia e lo decida, ma perchè non potrebbe fare altrimenti, neanche chiudendo gli occhi. E vedere le cose ad una certa profondità non è come fare una scampagnata. È la tragicità di figure mitiche come Antigone e Saffo e reali come Pier Paolo Pasolini. Bisogna chiudere nelle grotte, schiacciare sotto i pneumatici di un’auto per fare smettere al genio di percepire la realtà allo scoperto. La voglia di annientarlo viene a chi la "verità", lo svelato, fa paura o a chi essa distrugge valori morali o materiali, senza i quali una certa nullità verrebbe a galla.

Lyotard si immagina una "pretesa" di realismo da parte dei "realismi industriali e mass-mediali" nei confronti delle avanguardie. Peccato che all’industria e ai massmedia non gliene importa nulla delle avanguardie, perché queste non hanno influsso. Offrono loro proprio per questo qualche soldo e spazio accanto ai loro prodotti di massa veri e propri. Simbolico in tal senso è un luogo della città di Karlsruhe in Germania in cui negli stessi metri quadrati si trovano lo ZKM (3) (Centro d’Arte e Tecnica multimediale), una della conclavi più convinte dell’avanguardismo anni 70 e una colossale multisala, tempio del cinema conformista con relative abitudini. Questa si chiama addirittura «Filmpalast am ZKM», Palazzo del cinema presso lo ZKM, e la gente spesso confonde le due cose. Da una parte per lo più astrusità lontane mille miglia da bisogni e sensibilità immediate, dall’altra film che si vendono a metro nella logica perfetta del consumismo di massa. E così l’istituzione politica dorme sonni tranquilli.

«In ogni caso l’attacco contro l’esperimento artistico, se scaturisce dalla politica, è reazionario». Il problema è anche che le avanguardie sono estremamente vanitose e prendono male ogni osservazione critica. Si può mai trovare un documento, in cui un rappresentante dell’avanguardia si metta in dubbio o dica: scusi, non so?

«Artista, gallerista, critico e pubblico si piacciono in pura compiacenza; è il tempo dell’afflosciamento». Ma chi intende con questi artista ecc.? L’arroganza psicopatica dell’avanguardia è testimoniata soprattutto da questa cecità nei confronti delle espressioni migliori dell’arte – che ci sono, come ci sono sempre state, nonostante tutto. Psicopatica, perché viene il sospetto che queste schiere di sedicenti artisti d’avanguardia siano così concentrati nella critica, perché non tirano fuori dal buco un solo verso degno d’essere letto o una pennellata degna d’essere vista o una sequenza di suoni degna d’essere interpretata. Ma perché non si denudano e non vanno un po' a sentire che bell’effetto fa l’aria della primavera sulla pelle e non fanno un po’ quello che dice loro il cuore? Forse perché non farebbero nulla allora?

Attraverso l’arte l’uomo esprime secondo me le sue angoscie e le sue nostalgie più grandi. Le maggiori sono rispettivamente quella legate alla morte e all’amore. Il motore che attira l’artista e il fruitore d’arte è la potenza esorcizzante dell’arte. Attraverso essa dimentichiamo che la morte ci accompagna e che l’amore è una presenza inafferrabile. E morte e amore come fonti principali dell’arte, non mancano mai nelle sue espressioni.

È per questo suo potere fondamentale ed inesauribile che l’occidente vorrebbe prestare questo nome ad ogni cosa che fa. Ma come la cosiddetta arte è un fenomeno ben specifico, così chi fa arte ha specifiche qualità, è artista, come l’astronauta è astronauta, il filosofo filosofo e il dentista dentista. Il problema che cosa sia e cosa non sia arte è improprio e porlo è forse un errore tipico di una cultura che vorrebbe determinare ogni cosa. Se in una sala cinematografica un film mi si è rivelato come manifestazione d’arte, perché mi ha emozionato nel modo specifico dell’arte, quel film per me è opera d’arte al di là di quello che ne dicono i critici o l’opinione pubblica. Se poi esco dal cinema dopo un quarto d’ora perché la proiezione non mi dice niente, tutto il mondo può gridare alla sensazione, ma per me quel film non è arte. Sarebbe forse ora di lasciarla un po’ in pace questa parola, non perché sballottandola da tutte le parti si possa recar danno al fenomeno che essa evoca, quanto perché tutte le energie e il tempo che ci si perde potrebbero essere spesi per cose più importanti o magari anche solo più piacevoli.

Chi si accalora tanto infatti e si danna perché questi e quelli hanno avuto successo e lui no oppure perché le istituzioni non gli danno ascolto e spazio mentre ad altri sì o perché il suo teatro rimane vuoto nonostante le sue denuncie sullo stato attuale del mondo e il suo impegno nel sociale, dovrebbe forse interrogarsi sul fatto che forse le sue cose sono solo un frainteso e segni di tempo perso o magari interessanti documentari, ma non arte. Alle emozioni non comanda nessuno e non ci sono regole per emozionare o opere che debbano emozionare tutti. Nessuno può permettersi di condannare qualcuno perché si emoziona davanti a certe cose e non davanti ad altre o condannare chi produce certe cose che secondo i suoi criteri non dovrebbero emozionare. Un atteggiamento del genere è insopportabile, se preso sul serio o se ha la possibilità di realizzare la sua censura.

Max Scheler, sempre nello scritto sopra citato, ci dice che il mondo ha già una ragione e una forma sue proprie. L’uomo che prova a dargliene altre non vede le cose del mondo come "via per", magari via per scoprire ed ammirare le sue ragioni e le sue forme, ma come "ostacolo a", ostacolo alla propria mania di potenza o di possesso. L’uomo che rispetta il mondo, lo ama; l’uomo che lo vive come ostacolo, lo teme e vorrebbe distruggerlo per farne uno nuovo tutto suo. Parmenide poteva mettersi sulla strada verso il cuore del mondo e dell’universo, che lui chiamava Essere, attraverso ogni cosa che lo circondava. Qualcuno dopo di lui ha despiritualizzato, devalorizzato il mondo, gli ha sradicato l’anima trasferendo tutto nell’idea di un dio che sta altrove. Il mondo, sgozzato e dissanguato, ridotto a valle di lacrime, è stato così preparato per essere fatto a pezzi.

Karlsruhe, 13 Giugno 2001


Note

(1) In: Lyotard Jean François, Le postmoderne expliqué aux enfants. Correspondance 1982-1985, Paris, Ed Galilée, 1988.

(2) Scheler Max, Schriften aus dem Nachlass. Gesammelte Werke vol. 10,1. Bonn, Bouvier Verlag, 2000. (ss 288-311)

(3) L’edificio che ora ospita lo ZKM era fino a 10 anni fa un relitto della guerra mondiale, una fabbrica di munizioni dismessa salvatasi per miracolo dai bombardamenti. Alcuni settori di esso — l’edificio è lungo 350 metri e largo 50 — era stato occupato a lungo e spontaneamente da artisti. Il vero atto rivoluzionario dell’amministrazione comunale e regionale sarebbe stato quello di restaurare l’eidficio e di restituirlo poi all’occupazione spontanea e autogestita dell’arte. Quello che è successo invece è che dopo il restauro l’amministrazione si è fatta anche veicolo di ciò che doveva occupare quello spazio. Il risultato è che neppure uno degli artisti di prima hanno poi trovato spazio nelle rinnovate strutture. L’arte non ha bisogno di veicoli e comitati che ne scelgano i rappresentanti e gli organizzatori — anche perchè i politici non hanno quasi mai la competenza per prendere le giuste decisioni e prendono così appunto quelle sbagliate. Essa ha solo bisogno di spazi. Sarà l’arte poi a manifestare alla comunità i suoi bisogni e a richiamare a sè la gente. A proposito: gli artisti allontanati non sono certo scomparsi. Essi continuano a esprimersi nella città ora in modo più disseminato e difficile da trovare, ma sempre irreprimibile.

 


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