di Maurizio Grilli
La sua prima reazione è stata quella di sottrarre alle cose la loro infinitezza. Da una parte sono rimaste così cose che sembrano finite e danno all'uomo l'illusione di un controllo totale. L'uomo le scompone e le ricompone di nuovo, le clona, le traduce in lingua elettronica e cerca così di dimostrare, soprattutto a se stesso, di essere onnipotente - l'uomo si sostituisce a un Dio che non c'è più. Dall'altra parte c'è la nostalgia per le cose vere, che allo stesso tempo è anche nostalgia di soggettività. Questa nostalgia della cosa vera genera il favoloso, ciò che Baudrillard ha chiamato «transfert poètique». «Oggi non sappiamo più che cosa sia poesia», così Baudrillard. Il «Transfert Poètique» è altra cosa dalla poesia. Poesia può sorgere solo se l'uomo è soggetto ed ha oggetti attorno a sé, che sono tali, perché autonomi esattamente come lo è lui, perché hanno in loro segreti, che l'uomo non disvelerà mai fino in fondo.
Se i segreti delle cose vengono misconosciuti, l'uomo cessa di essere soggetto e diventa incapace di fare arte, di fare poesia, perché arte e poesia sorgono proprio dai segreti delle cose in un modo che l'uomo non può controllare. Così non ci sono più cose, ma solo idee, non più «Land», ma «Landschaft», non più arte, ma arte concettuale.
«Le cose ci guardano», ci dice Baudrillard. Che abbiamo cessato di esistere come soggetti, non vuol dire che anche loro non esistano più. Esse sono ancora lì e ci guardano, mentre noi ci irrigidiamo nella convinzione arrogante, di poter avere la realtà totalmente sotto controllo, mentre in realtà stringiamo in pugno solo le bambole che ci siamo fabbricati. Significativa anche la reazione di Baudrillard alla domanda dal pubblico: «ma dov'è la realtà?»...«Ma ovunque, caro», era la risposta, mentre si guardava in giro e sorrideva al ragazzo, che aveva posto la domanda, che ora si doveva sentire cieco. Cieco come Edipo, prima di perdere la vista.
Indietro non si torna. Le due reazioni opposte alla scomparsa dell'oggetto non si possono riconciliare. Esse devono giungere al loro estremo. Sarà una catastrofe a riunificare le due componenti fittizie in un'unica viva.
Questo l'illuminante contributo di Baudrillard. Accettare di guardare in faccia alla realtà con i nostri occhi di oggi, significa dunque correre il pericolo di scoprire la propria nullità, il fatto che da un punto di vista assoluto stare su questa terra è una specie di scherzo della natura. Essa ci butta dentro nella vita (Heidegger chiama la nascita «Geworfenheit», qualcosa come "il getto"), ci lascia per un po' lì e poi via, come se nulla fosse stato. Tutta qui la vita. Meglio allora rifugiarsi in mondi virtuali, che si ha la sensazione di possedere e controllare, di conoscere fino in fondo. Meglio ubriacarsi con le visioni di quello che le scoperte della genetica ci prospettano. Una vita lunga, senza malattie e magari l'immortalità. Noi abbiamo paura delle cose, perché non sopportiamo l'idea che esse ci sopravvivano, che siano libere e in qualche misura ci dominino. Noi, in occidente, abbiamo la mania del dominio.
La mia scrittura creativa, per parlare un po' della mia esperienza, non è cosa che mi appartenga. O almeno essa non appartiene a me più che a qualsiasi altro lettore. Quindi non scrivo "per" ed in genere non credo che ci sia arte "per". L'arte per l'artista è come la scia per la lumaca. Bisognerebbe restare immobili per non lasciarsela dietro. L'artista è come un sismografo. Una volta messo a punto ed azionato, esso non può più evitare di lasciare una traccia. L'uomo è fatto anche così. Come un albero che non può dire ad un certo momento al sole: "io non cresco", così l'uomo non può non essere ciò che è. E non può neanche amministrare il suo essere a piacimento. Il fenomeno artistico è una cosa transitoria, temporanea. Il «Welt als Vorstellung», il mondo come rappresentazione, è una parentesi nel «Welt als Wille», nel mondo come volontà, (Cfr. Schopenhauer: «Die Welt als Wille und Vorstellung»). In questo preciso istante, mentre rileggo questo testo, io non sono artista, sono uomo come tutti gli altri.
Attraverso l'artista e il filosofo sono le cose a dirsi. Sia l'uomo-artista che la sua opera sono medium delle cose che attraverso di essa si dicono per chi ha la sensibilità di stare a sentirle. Se io leggo una poesia di Leopardi o un frammento di Parmenide è come se le cose attraverso di me tornassero a parlare in un modo tanto più fedele, quanto più sensibile è la mia recettività, il mio "in-tenuto" - se si volesse tradurre letteralmente l'«Inhalt» di Karl Jaspers (Cfr. Karl Jaspers: «Psychologie der Weltanschauungen»), che invece purtroppo si deve tradurre con "con-tenuto". Il lettore dà in prestito se stesso alla scrittura per fare rivivere le cose. Così ciò che fino ad un certo punto pensavo essere metafora di chissaché, poi si rivelava un modo di dirsi concretissimo di una cosa profonda.
Ci sono opere come «La Divina Commedia» o «Il Faust», che non mi stanco mai di rileggere. La quarta volta che ho letto «La psicologia della visione dei mondi» di Karl Jaspers, è stato un prendere parte ad un viaggio meraviglioso nelle viscere della realtà. Ci sono cose che riescono a dirsi solo un paio di volte in un millennio e altrimenti rimangono metafore insolvibili. Ci sono cose che si dicono una volta sola e poi scompaiono per sempre.