La Critica

Arte & Comunicazione
Un dibattito con Marco Maria Gazzano

 

«Arte & Comunicazione» è Il titolo della rassegna biennale dedicata alle arti elettroniche, alla televisione di qualità e all'editoria multimediale che ha avviato di recente a Roma un vasto programma di eventi espositivi e convegni (www.biennaleartetv.net). Il tema della manifestazione diventa qui l'occasione per un incontro, condotto da Patrizia Ferri ed Enrico Cocuccioni, con Marco Maria Gazzano, ideatore del progetto e curatore dell'iniziativa. Nel dibattito si è cercato di andare direttamente al nodo centrale della questione: si discute, infatti, sulla funzione dell'arte e sul ruolo della critica nel presente scenario tecnologico.
 

PATRIZIA FERRI: Per avviare il motore della nostra conversazione, ho pensato a un'home page con un menù digitale ricco di spunti per una ampia, dialettica riflessione. Sono una serie di domande e supposizioni da valutarsi con attenzione, dubbi e auspici con cui è il caso di misurarsi per addentrarsi nelle problematiche relative all'avvento del nuovo orizzonte mediale e tecnologico, da valutarsi oltre quel dato superficiale che si svela a un primo impatto, sondandone invece l'aspetto di complessità relativo alla trasformazione epocale nei suoi vari aspetti, sottolineando in questa sede soprattutto l'intrinseca valenza estetica in termini di potenzialità, linguaggio, limiti e risvolti linguistici.

Pertanto vorrei sottolineare proprio i termini di "limiti" e di "realtà", più che contribuire all'amplificazione concettuale e alienata del cyborg, base virtuale per una reificata utopia, per il ripristino di una nuova, totalizzante, schiacciante Ideologia.  A questo proposito c'è da chiedersi se è ancora pensabile, e in che termini, l'integrazione dell'artista nell'apparato mediale, cioè se ancora esista la possibilità reale di lavorare in sinergia con lo sviluppo tecnologico, potendo cioè usufruire di tutto quello straordinario potenziale comunicativo utilizzato parzialmente da una gestione sociale tecnocratica e massificata.

2) Non c'è il rischio di avviarsi verso un'arte della ricerca scientifica? Intendo dire che probabilmente la trasformazione significativa in senso telematico non avverrà, potrebbe non avvenire in senso specificatamente artistico, forse potrebbe essere più relativa alla modalità di elaborazione spazio-temporale delle immagini e nell'interazione tra produttore, fruitore e prodotto.

3) In ogni periodo storico il processo tecnologico ha sempre realizzato anche l'evoluzione estetica. Oggi questo cambiamento sta assumendo proporzioni più radicali in quanto l'elettronica permette la raffigurazione del pensiero visivo attraverso disarmonie e asimmetrie creative. L'elaborazione del dato di onnipotenza connessa alle potenzialità apparentemente infinite della tecnologia, sbandierato da scienza ed economia, cioè la modalità di attuazione dell'infinito dell'intelletto, come viene elaborata dall'arte che non può non essere strettamente connessa alla coscienza della realtà? Un'arte che non può più essere una fuga ma neanche una via d'uscita dalla confusione e dall'incertezza, bensì un modo per penetrare, una luce nel caos della coscienza collettiva, non tanto per ripristinare l'equilibrio perduto, quanto per dare forma e significato ad una cultura destabilizzata.

4) Gli strumenti tecnologici cambiano lo statuto dell'opera e il suo significato intrinseco mediante una sperimentalità dove interagiscono articolazioni linguistiche e meccanismi profondi appartenenti alla sfera esistenziale. In questo intreccio è pensabile il recupero di un'etica, di una dimensione umana. Si, insomma, in che percentuale è prevista l'interagenza dei fattori umani all'interno delle tecnologie avanzate?

5) L'identità più intraducibile dell'arte potrebbe chiarirsi attraverso l'uso della tecnologia? Ma se l'intraducibilità dell'arte prescinde dalle tecniche usate, come può la telematica in sé favorire una maggiore creatività?

6) La posta messa in gioco dal virtuale sul piano estetico secondo il concetto di Rockebi, di soggettività rappresentata, in quel modificare, trasporre, spostare e restituire la soggettività di chi lo utilizza, per le sue implicazioni epistemologiche fondamentali e rivoluzionarie è anche, forse, prima di tutto, una posta in gioco psicologica, un progetto globale che è però destinato a diffondersi come la televisione e a banalizzarsi e democratizzarsi come l'automobile. A questo punto sarà all'arte che probabilmente tornerà il compito esaltante di spiegare l'uomo all'uomo trasformato globalmente dalle proprie invenzioni, con qualcosa che potrebbe fornirci una sorta di psicologia globale che include il mondo intero nella nostra forza interiore. La capacità dell'arte sulla psicologia può essere quella di riassorbire i nostri poteri tecnologici all'interno della sfera personale di ognuno di noi come afferma Derrick de Kerckhove, allievo ed erede di McLuhan.

MARCO GAZZANO: Io volevo partire da un'affermazione assolutamente negativa, ma molto produttiva, che è quella classica di Adorno dei saggi dei primi anni '40. Dalla «Introduzione alla musica per film» che è del 1944, e dal capitolo sull'industria culturale (del 1945-47) della «Dialettica dell'Illuminismo». Lì, tra le varie, straordinarie e anticipatrici notazioni, Adorno sostiene che l'unica vera opera d'arte totale non è, romanticamente, l'opera d'arte ipotizzata da Wagner e, in prospettiva, ripresa come utopia propositiva dalle avanguardie storiche, del cinema o delle arti plastiche o delle arti tecnologiche, ma che l'unica opera veramente d'arte totale è il sistema che lui chiama "barbarico" dell'industria culturale di massa.

Diciamo, dell'industria culturale, per usare una notazione gramsciana, "più americanista che americana". Sia da un punto di vista tecnologico che sotto un profilo espressivo. E questo mi sembra comunque produttivo perché fondamentalmente vero. Tra l'altro, in questa notazione di Adorno c'è una anticipazione di almeno 15 anni della stessa tesi del "medium come messaggio" che sarà poi sintetizzata da McLuhan nel libro «Per capire i media» (che poi è stato tradotto come «Gli strumenti del comunicare», ma è molto più preciso nel titolo inglese). Il senso di onnipotenza che la radio può indurre: una specie di surrogato dello "spirito divino", la simultaneità televisiva che oggi viene esaltata e intrecciata con la simultaneità telematica... tutto questo, in realtà, totalizza le percezioni e le forme anche dell'espressione. Non soltanto della percezione inconscia. E canta l'elogio del sistema tecnologico industriale al di là delle singole soggettività, e quindi delle specificità individuali ma anche artistiche.

Bisogna anche dire che in questi saggi degli anni'40, e in quelli successivi assolutamente poco conosciuti di Adorno sulla televisione (sono straordinari), del 1952-53, pubblicati sulla rivista di Hollywood, e poi ripubblicati in Germania e pubblicati in Italia da «Cinema Nuovo» negli anni '70, c'è questa visione negativa del rapporto tra arte, linguaggi e tecnologia in funzione di una esaltazione dell'industria in quanto tale, che ne esce sempre vincente, perché anche un'opera d'arte realizzata con le tecnologie più avanzate e nella maniera più creativa, come un film di Chaplin o di Ejzenstejn, che sono gli esempi che Adorno faceva all'epoca, in realtà, per il fatto stesso che viene presentata in un sistema di comunicazione di massa che è costruito con regole industriali, porta acqua al mulino dell'industria culturale e semplicemente definisce una fetta di pubblico che viene catturato dall'industria culturale diversamente dal pubblico delle casalinghe con la Soap opera, ma in realtà è pur sempre un pubblico che vive le stesse condizioni di alienazione, di reificazione dell'estraniazione ecc., che l'industria culturale coltiva con scientifica maniacalità.

Però, nonostante questa visione negativa, è vero che, in pochi aggettivi, anche nel saggio sull'industria culturale, Adorno lascia uno spazio, diciamo, ottimisticamente... lascia aperte delle possibilità e, in particolare, nei saggi sulla televisione, tra il '52 e il '54, nei quali parla di cose che poi si verificheranno nel sistema televisivo vent'anni dopo (la confusione tra reale e immaginario, l'interpretazione puramente evasiva e non psicanalitica del sogno, e molte altre importati osservazioni), anche lì, dunque, in saggi che criticano  nella maniera più dura e più radicale il sistema televisivo e le forme di attrazione della televisione, Adorno parla non tanto delle possibilità della tecnica, quanto del "miracolo" della televisione. E il fatto di usare un sostantivo come "miracolo" lascia intendere una possibilità creativa ed espressiva che va al di là delle formalizzazioni industriali nelle quali il sistema televisivo e mediale si è sostanziato.

E in fondo è lo stesso atteggiamento di Baudelaire che nel 1959 parla della fotografia. Il quale critica non tanto la fotografia, ma l'uso piccolo-borghese e già industriale della fotografia di Daguerre. Non si spiegherebbe altrimenti il rapporto tra Baudelaire e Nadar, dal quale accetta di farsi fotografare, se pensasse così male della fotografia. Questo tipo di notazione, però - e ha fatto bene Patrizia a sottolinearlo - può essere affrontata soltanto secondo la linea adorniana: non riflettendo esclusivamente sulle tecnologie, o sull'uso industriale e di massa delle tecnologie. E neanche riflettendo esclusivamente sull'uso artistico delle tecnologie, perché queste sono tutte visioni parziali.

Adorno, infatti, nel capitolo sull'industria culturale e nel saggio che lo precede, di introduzione alla musica per film scritto a Los Angeles nel '44, nei saggi sulla televisione, parla della totalità. Questi fenomeni, e le loro minime possibilità d'incidere, rovesciandole, sulle caratteristiche dell'industria culturale, possono essere affrontati esclusivamente se li consideriamo nel loro insieme, come parte di un tutto. È la totalità che ci importa. Ne deriva che per affrontare questi problemi non basta la psicoanalisi, non basta la sociologia, non basta l'antropologia, non basta la psicologia della percezione... bisognerebbe fare lo sforzo di lavorare su questo insieme per affrontare anche il singolo fenomeno e la singola opera.

Da qui, poi, René Berger, con altre matrici culturali che non sono marxiste, non sono illuministiche, ma sono hegeliane, cattoliche e spiritualiste, arriva però alla stessa conclusione: non è neanche l'interdisciplinarietà come metodo quello che ci serve, ma è la "transdisciplinarietà". E addirittura Berger parla oggi di «oltredisciplinarietà», che è qualche cosa di ancora più profondo e complesso. Quindi, diciamo, la possibilità dell'arte di lavorare per creare degli anticorpi, o come sosteneva Enzensberger, riprendendo una delle riflessioni classiche della storia dell'arte delle avanguardie, la possibilità non solo di umanizzare le tecnologie, ma d'intendere l'arte, anche nell'epoca dell'industria culturale e delle tecnologie avanzate, come uno strumento di conoscenza e autoconoscenza. E non solo di rappresentazione, di evasione, di ornamento, di decorazione, di "entertainement", dipende da uno sforzo, che la cultura di fine Novecento non sta facendo fino in fondo, di afferrare la totalità.

Altrimenti ci si ferma sull'analisi della singola opera o del singolo artista o del singolo fenomeno. Ha ragione allora Enzensberger, che è il più radicale allievo del pessimismo critico di Adorno: si lavora sempre in un puro nulla. Anche un'opera di Paik può essere alibi per l'industria culturale, perché parlando dello Zen, e parlando del rapporto tra Oriente e Occidente, in realtà va nello stesso senso della pubblicità della Coca Cola, che tra l'altro riesce meglio dell'opera di Paik ad essere planetaria.

PATRIZIA FERRI: Sono perfettamente d'accordo. Però questo significherebbe, tanto per cominciare, minare alle fondamenta proprio il sistema dell'industria culturale, il sistema dell'arte, la gestione dei singoli poteri, i ruoli, le singole competenze e così via. La piena consapevolezza di una visione di questo tipo significherebbe affrontare prima o poi questo problema e purtroppo credo che, al momento, siano molto poche le persone che abbiano maturato questa coscienza radicale. In secondo luogo, ritengo sinceramente che pochissime persone siano in grado di affrontare e sopratutto di fronteggiare davvero un  problema che si pone, come in questo caso, a tutti i livelli, chiamando in causa i diversi ambiti separati delle discipline creative, ontologiche e scientifiche, per una integrazione operativa sul piano estetico.

MARCO GAZZANO: C'è una domanda che volevo fare a Enrico Cocuccioni che è connessa con questo discorso e che ha aperto molte polemiche tra di noi, ma anche con altri studiosi. Domanda che pone un punto successivo a questa prima serie di notazioni. Si tratta di un tema tipico della fine della modernità classica o della fine del Novecento. Il tema è quello dell'esistenza o meno di una soggettività dell'artista. Questo è un punto importante, a mio avviso. Leggevo questa mattina, prima di venire qui, il saggio di Calvino pubblicato nel '59, «La sfida al Labirinto», in  cui Calvino incominciava a porre il problema della complessità. Evidentemente, il Labirinto era appunto una metafora della complessità. Ne faceva varie analisi, esaltava e denigrava alcuni autori, ma poi alla fine sosteneva che l'unico modo di sfidare il Labirinto, cioè di affrontare la complessità, era comunque di ribadire l'importanza della soggettività artistica e, addirittura, della costruzione di uno stile.

Questo punto, secondo me, oggi, alla fine probabile dell'epoca televisiva classica, alla fine dell'epoca delle arti elettroniche classiche... perché ormai anche il video è un pezzo di storia che sta mutando verso altre forme espressive... alla fine dell'epoca classica dei media così come li conosciamo, nell'epoca del ciberspazio che sta nascendo, è un problema secondo me fondamentale. Siccome tu te ne sei occupato, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Il problema, secondo me, è decisamente legato alle qualità specifiche di queste tecnologie... perché fino al video, fino addirittura alle videoinstallazioni o videosculture, cioè intrecci complessi tra arti e linguaggi di antica e millenaria tradizione e altri linguaggi tecnologicamente avanzati, legati al moderno, era evidente che il montaggio dei fotogrammi, così come dei colori o degli oggetti fra di loro, segnava la soggettività forte di un soggetto che noi chiamiamo artista. Definiva cioè una sua poetica in quanto interpretazione soggettiva di una serie di linguaggi comuni, quelli che Pasolini chiamava la «Parole», legati al mondo dell'arte e dei linguaggi espressivi.

A me sembra evidente che da adesso, forse per tutto il prossimo millennio, se il medium potenzialmente dominante sarà davvero la rete telematica, al di là della retorica sull'interattività, la virtualità, la connettività ecc., però è molto probabile che il segno individuale della soggettività artistica come momento di rappresentazione del mondo dell'autore in una singola opera tenderà a dissolversi. Non solo perché su Internet è tecnicamente impossibile mantenere la firma su una certa opera, ma anche perché, al di là di quello che può accadere in Internet, potrebbe nascere, come McLuhan, Adorno e gli studiosi dei media ci hanno insegnato, un modo di pensare collettivo che anche senza l'uso di quelle tecnologie determinerà, di riflesso su altri linguaggi o altre tecnologie... per paradosso: anche nella pittura e nella scultura, un modo di fare simile a quello che si è diffuso all'interno della rete telematica.

E questo è un punto... mi stavo chiedendo, insomma, se con questa innovazione tecnologica, e l'eco che ne risulterà sull'intero contesto, noi non stiamo entrando in un'epoca in cui la singola opera, anche la più avanzata dal punto di vista interdisciplinare e multimediale, non abbia più molto senso. Mentre cominciano ad avere decisamente senso le firme sui progetti delle opere, dentro i quali ciascuno può inserirsi con la propria soggettività o con il suo contributo individuale. Ovvero, la nuova opera d'arte potrebbe essere, tendenzialmente, un progetto firmato da qualcuno, da un singolo o da un gruppo, anche con una forte identità progettuale, ma senza identificarsi in un singolo lavoro. In altri termini, diventa qualche cosa che gira nella rete e che si viene a costruire con gli apporti di tutti gli altri. E qui, però, si potrebbe forse riconoscere ancora una paternità iniziale.

Questo è un punto importante perché tutta la polemica in atto, che chiaramente porta acqua soltanto al mulino dell'industria culturale e dell'apparato tecnologico, circa l'arte fatta sulla rete, è legata a questo punto. Ossia, l'arte sulla rete non esiste perché non ha senso firmare un'opera fatta esclusivamente per la rete. Gli artisti che stanno lavorando sulla rete, purtroppo sono ancora dentro questa visione soggettivistica di matrice non so se settecentesca, ottocentesca o ancora precedente, comunque tendono a firmare le loro opere sul Web come se firmassero un video, un film o una scultura. E pochissimi sono coloro che hanno compreso l'idea che occorre un progetto. Mentre proprio questo, a mio avviso, è il modo d'immaginare l'arte telematica nel futuro. Devo dire che questo è un punto su cui probabilmente tu non sei d'accordo... oppure sei d'accordo, però ha tutto il prossimo millennio per essere risolto. Non mi affretterei a identificare l'arte sul Web solo perché in questi giorni è diventata di moda.

ENRICO COCUCCIONI: Su questo punto io ho diverse tentazioni. Una è quella di affrontare il problema da un punto di vista filosofico. E allora, forse, Internet finisce per apparire solo come il momento in cui viene reso particolarmente esplicito un discorso che, per molti versi, è stato anticipato sia in termini filosofici che in forma di premonizioni estetiche da parte delle avanguardie. Molto prima, insomma, che si affermasse l'odierno concetto quasi tangibile di un'intelligenza collettiva (secondo l'ipotesi di Pierre Lévy) o "connettiva" (se si preferisce la definizione proposta da Derrick de Kerckhove). Ovvero questa idea, appunto, di una grande opera perlopiù anonima, collettiva, realizzata però da tanti singoli soggetti separati, immobili dinanzi ai loro teminali, i quali tentano pur sempre di lasciare una loro traccia d'identità, in qualche modo. Accanto a questa ormai diffusa visione della rete, ho la tentazione di sviluppare le conseguenze teoriche della relativa facilità con cui queste tecnologie consentono una sintesi tra diversi linguaggi.

Parlo di quel possibile uso simultaneo e a buon mercato di molti strumenti che ora sembra rendere alla portata di tutti (anche in quanto basato su procedure semplificate, autoesplicative, nonché gestibili dal singolo utente), una sorta di arte multimediale da camera o di "opera totale" intesa però come hobby domestico. Perché ciò crea uno strano paradosso teorico rispetto, ad esempio, alla distinzione di Nelson Goodman tra arti «autografiche» e «allografiche», cioè tra le arti basate sul pezzo unico realizzato direttamente dalla mano dell'artista; e le arti basate, invece, sul sistema di notazione che definisce a priori l'identità dell'opera. Nel caso delle arti allografiche, infatti, la struttura dell'opera è pressoché indipendente dalle sue molteplici esecuzioni o attualizzazioni possibili (l'esempio tipico è quello delle notazioni musicali basate su segni univoci e codificati, ma la cosa vale, ovviamente, anche per l'opera letteraria).

Esiste poi il caso delle tradizionali discipline del progetto: anche qui, sebbene talora si discuta se, e in che misura, ad esempio, un disegno architettonico possa considerarsi autonomo rispetto all'opera costruita, è indubbio che la paternità di un edificio sia in genere attribuita ai progettisti, ossia a coloro che perlopiù si limitano a prefigurarne la realizzazione su carta. Così, da un lato abbiamo le discipline creative basate sulla notazione o sul progetto, dall'altro lato abbiamo le arti "autografiche" come la pittura, in quanto legate al pezzo unico e al rapporto singolare tra l'autore e l'opera (in cui il soggetto lascia direttamente la sua impronta sull'oggetto). Ma cosa succede oggi con l'uso del computer? Il computer non è certo un violinista in carne ed ossa intento a seguire le note di uno spartito per trasformarle in suoni concreti, ma è una macchina che esegue in modo sempre identico dei comandi in base ad un programma memorizzato.

La cosa strana, per un critico, è che si realizza qualcosa di cui non sappiamo più definire lo statuto: non si tratta d'impronte materiali, legate cioè alla specifica singolarità di un supporto (e dunque, a rigore, irriproducibili); ma neppure di notazioni propriamente dette (ovvero capaci di dare origine a una serie infinita di esecuzioni possibili che però mantengono inalterata la struttura sequenziale dell'opera). Non si tratta nemmeno, in molti casi, dell'esito di una vera e propria prassi progettuale, nel senso che oggi, sempre più spesso, il designer lavora direttamente sul prodotto finale utilizzando l'interattività e la grande versatilità dei nuovi media. In ciò spinto anche dalle stesse esigenze industriali, perché è evidente che quando si dispone di un mezzo che consente di fare più cose nello stesso tempo e si può... rinunciando magari ad un'idea di qualità, o di apporto ad alto livello delle singole componenti di un'opera multimediale... si può, insomma, fare affidamento sul lavoro di un singolo operatore, questa cosa fa comodo un po' a tutti, in un certo senso, perché rappresenta un'economia nel sistema.

Allora, tendenzialmente, avremo sempre più queste "figure tuttofare" in cui la preparazione tecnica tenderà ad essere prevalente rispetto ad altre considerazioni riguardanti l'aspetto artistico e umanistico. Verrà ridotto il livello di approfondimento culturale di tutte le conseguenze sul piano espressivo dell'uso appropriato dei diversi linguaggi, ad esempio della sceneggiatura, del montaggio, della regia, della coreografia, della scenografia, della fotografia, della colonna sonora... tutti aspetti che nella grande dimensione cinematografica erano ben distinguibili e legati a specifiche competenze professionali.

Nelle modalità produttive più diffuse e correnti si tenderà dunque, magari anche in modo illusorio, a identificare il computer come un nuovo strumento elementare che consente al singolo di passare subito dall'idea al prodotto finito. Talora il computer diventa un mero surrogato di tutte quelle tecniche che, per qualche motivo, non possiamo più permetterci nella loro versione non simulata. Alludo, naturalmente, ad una condizione in gran parte illusoria: tutto ciò ha forse ben poco a che fare con un uso meditato e consapevole dei nuovi media. Ma è un aspetto che tende a diffondersi e che alimenta l'idea di un controllo autarchico, in prima persona, di tutte quelle procedure creative che in passato richiedevano necessariamente un lavoro di più soggetti.

Ecco allora che il singolo, nel chiuso della sua cella telematica, può ritenersi ancora un autore in senso classico e produrre così una sua piccola "composizione scenica" che a suo modo realizza un grande sogno delle avanguardie artistiche dei primi anni del '900. Sogno che si traduce ora nell'estasi del videogioco. Spesso si tratta di un modesto bricolage realizzato per necessità o per diletto: non certo riconducibile al mito di una sintesi corale in senso wagneriano, ma pur sempre basato sull'intersezione di una pluralità di tecniche e linguaggi. Le ambizioni totalizzanti delle attuali opere digitali consistono appunto nella volontà di rivolgersi ad una fruizione multisensoriale che si presume diffusa nella rete, al di là di ogni barriera culturale o distanza geografica.

La facilità con cui è possibile, adottando un medesimo sistema operativo, utilizzare nello stesso tempo sia programmi grafici che strumenti per l'elaborazione del suono, oppure prelevare immagini e brani musicali da Internet, per poi manipolare in infiniti modi questi materiali... insomma, tutto ciò crea un'illusione di onnipotenza che però coincide spesso con un grande isolamento dei singoli operatori.

Perché a volte ci viene un dubbio: se questa idea della rete sia solo una nostra costruzione immaginaria o se sia proprio qualcosa di cui si fa esperienza concreta. Il fatto è che poi la cosa "reale" è quella scatola, quel piccolo schermo rettangolare che sta lì, a pochi centimetri dal nostro naso, eppure viene completamente "bucato" dal nostro sguardo. Davanti a un monitor siamo in genere in un vero e proprio stato di trance: perdiamo di vista la situazione presente e ci ritroviamo altrove, con la testa fra le nuvole, per così dire.

C'è questa nuova estetica del sublime... per cui, mentre si contempla l'idea di una grande opera collettiva, ci si ritrova invece in una condizione che può essere descritta in termini di oggettivo isolamento, anche se ciò comporta uno stato mentale ben diverso da quella introspezione tipica della lettura silenziosa di un libro. Quindi, il paradosso...

PATRIZIA FERRI: Che diventa invece una paradossale sottolineatura della soggettività, anzi, un'auratica chiusura solipsistica, insomma più che aprire sulla vita e la realtà chiude il discorso e lo incasella in un'ennesima catarsi intellettualizzante.

ENRICO COCUCCIONI: Su questo tema, appunto, della soggettività direi che...

MARCO GAZZANO: Ma si tratta di una soggettività in senso alienato...

ENRICO COCUCCIONI: Sì, in senso alienato. Oppure c'è la possibilità di definire un'identità di gruppo, di sentirsi parte di una cosiddetta comunità virtuale. Viene estesa cioè a nuovi ambiti l'idea dell'immagine aziendale, dell'impresa collettiva di coloro che si riconoscono in qualche modo nella filosofia di un marchio. Si tratta di un'idea analoga a quella dell'immagine coordinata che identifica visivamente, ad esempio, un canale televisivo nell'intero panorama delle reti esistenti.

Mentre le cosiddette "imprese rinascimentali" si basavano sul disegno di uno stemma, spesso accompagnato da un motto, ovvero assumevano l'aspetto di un messaggio pubblico che traduceva in termini sensoriali e simbolici la "missione" liberamente scelta da un singolo individuo, l'idea moderna di adottare un logo nasce tipicamente in ambito industriale, o meglio nella logica delle grandi organizzazioni collettive.

E anche questo aspetto è stato anticipato in qualche modo dalla riflessione filosofica, perché anche quello che, per certi versi, può essere visto come un campione della soggettività moderna, parlo naturalmente di Nietzsche e del suo soggettivismo estremo, addirittura "superumano"... nel senso che evoca la figura titanica di un soggetto capace di rendersi del tutto autonomo rispetto a qualsiasi verità che possa limitarne lo slancio e la potenza di espansione: ebbene, anche questa figura, che pure rappresenta il culmine dell'idea romantica del genio, del grande creatore, può bensì apparire, in alcune folgoranti premonizioni, per esempio negli aforismi dedicati al tema della volontà di potenza, come un'anticipazione dell'oltrepassamento tecnologico della soggettività umana, dove quest'ultima appare necessariamente destinata a risolversi nella logica dell'Apparato.

Nietzsche lo dice chiaramente: l'artista è un po' il primo passo di questo processo, ma poi quello che subentra è appunto la grande organizzazione. Egli fa l'esempio, mi sembra, del Corpo degli ufficiali prussiani... Per cui può giungere alla seguente immagine dell'opera totale: «Il mondo come opera d'arte che partorisce se stessa».

Oggi che si parla tanto di globalizzazione, c'è da chiedersi se questo modo d'intendere la totalità non sia altro, in fondo, che la versione più aggiornata della visione "moderna" del mondo. Una visione, cioè, dischiusa da quegli stessi presupposti "metafisici" che hanno aperto lo spazio al dominio incondizionato della tecnica. Uno scenario epocale che l'arte e la filosofia hanno prefigurato da tempo nei suoi tratti essenziali.

Questo contesto ha indotto molti pensatori ad inoltrarsi nel vicolo cieco di una riflessione sulla categoria della tecnica che tende a interpretarla come l'ultimo "assoluto". Nei libri di Severino e di Galimberti, ad esempio, la tecnica diventa davvero un termine onnicomprensivo: sembra quasi che non esista scampo... non si tenta più nemmeno quella via d'uscita heideggeriana che consisteva nell'assegnare all'arte il compito di un confronto decisivo con la tecnica basato sulla preliminare comprensione della sua "essenza", ovvero delle sue condizioni di possibilità.

Condizioni non del tutto identificabili, almeno secondo Heidegger, con quella comune definizione della tecnica che la riconduce alla logica lineare di una razionalità operativa intesa in senso antropocentrico. Heidegger, in altri termini, non nega che la rappresentazione convenzionale della tecnica in termini di "mezzi e scopi" sia esatta. Ma questa esattezza non coglie affatto il nucleo essenziale, ovvero non risponde alla domanda ontologica su che cosa sia veramente la tecnica. E non può farlo proprio perché uno sguardo non può vedere anche il punto cieco da cui prende origine.

Anche McLuhan ricorre ad una considerazione analoga introducendo la nozione di «controambiente»: se i media, più che docili strumenti a nostra disposizione, tendono a definire le stesse coordinate ambientali entro cui si svolge la nostra esistenza, c'è il rischio che la nostra attenzione rivolta agli oggetti ci faccia perdere di vista la totalità che ci avvolge. Come facciamo allora ad uscire dalle nostre abitudini e a percepire con uno sguardo rinnovato l'ambiente in cui siamo? Abbiamo bisogno di un termine di confronto. Di qui il compito che McLuhan assegna all'arte: configurare un "controambiente" per cogliere l'ambiente come tale.

Naturalmente esiste anche la strategia opposta, quella che persegue il semplice adattamento all'esistente ricorrendo a dosi massicce di suggestioni anestetizzanti: uno stimolo fastidioso può infatti diventare sopportabile persino in virtù della sua mera persistenza, come quando le nostre orecchie si abituano al rumore del traffico e non facciamo più caso a quel che diventa così uno sfondo ambientale ormai entrato intimamente a far parte della nostra quotidianità. Proprio a partire dalla constatazione di una comune radice dell'arte e della tecnica nella nostra tradizione culturale, Heidegger ci ha invitato a meditare seriamente sulla condizione umana contemporanea.

Pensiamo, ad esempio, all'aspetto ecologico: lui citava la centrale idroelettrica sul Reno, la «Kraftwerk», e la paragonava all'inno di Hölderlin dedicato al medesimo fiume. Il confronto era dunque tra il grande impianto tecnologico e la «Kunstwerk», l'opera d'arte. Noi oggi abbiamo invece, per così dire, l'oro del Danubio... penso alle recenti notizie relative all'inquinamento del Tibisco provocato da una miniera d'oro che ha rilasciato cianuro nelle sue acque... Quindi sappiamo bene che nella nostra epoca esistono gravi conseguenze ecologiche legate proprio all'espansione incontrollata del dominio tecnologico. Sappiamo che la tecnica rappresenta il massimo rischio non solo per il "soggetto" inteso in chiave umanistica, ma per la sopravvivenza stessa della nostra specie e per il pianeta che la ospita.

Eppure, nello stesso tempo, la visione heideggeriana non era totalmente apocalittica: lasciava aperta una speranza legata proprio all'idea della matrice comune tra tecnica e arte. In un fattore che non riguarda tanto l'autoimposizione di un soggetto, quanto piuttosto il disvelamento di una verità più originaria. Quindi l'idea di un costruttivismo radicale, di un dominio assoluto e definitivo da parte della tecnica in Heidegger non c'è. L'inizio del famoso saggio del '53 sulla questione della tecnica si pone già sotto questo segno, quando ad esempio l'autore dice che la domanda circa l'essenza della tecnica, benché non possa certo trovare facili risposte, ci predispone alla ricerca di un rapporto libero proprio con ciò che appare ormai, per una credenza oggi dominante, come un orizzonte storico privo di alternative.

Ma tale svolta è possibile solo se noi comprendiamo i fondamentali presupposti dell'età della tecnica e dunque scorgiamo in qualche modo anche i limiti contingenti di una visione puramente strumentale del mondo. Invece sembra quasi che molte odierne riflessioni teoretiche, pur ispirandosi in larga misura alla matrice heideggeriana della meditazione sulla tecnica, si muovano sostanzialmente nella direzione opposta. La globalizzazione di cui in genere si parla oggi nasce appunto dall'adozione sempre più generalizzata di quei criteri "performativi" della pura efficienza tecnica che tendono ad affermarsi pressoché ovunque come un valore primario e indiscutibile.

In questo quadro, sembra che tutto sia perfettamente integrabile nella mentalità tecnica, ossia nella logica della specializzazione o della parcellizzazione dei saperi e delle competenze. Perfino la "separatezza" tipica del vecchio sistema tradizionale delle arti, con le sue specializzazioni di ascendenza accademica, con il suo proporsi come uno dei tanti settori dell'industria culturale, sembrerebbe perfettamente coerente con quella logica del dominio tecnico che delimita e difende il proprio specifico separandolo nettamente dal resto. Il paradosso su cui le stesse tecnologie più recenti ci stanno invece costringendo a riflettere è che proprio la logica della specializzazione rappresenta un serio ostacolo al pieno utilizzo delle potenzialità dei nuovi media. In altri termini, questi strumenti a un certo punto si bloccano...

PATRIZIA FERRI: Sì, certo, perché vengono meno a quello che deve essere il loro sviluppo in termini di evoluzione e crescita per l'umanità e il singolo individuo.

ENRICO COCUCCIONI: Vengono meno, cioè non siamo più in grado di utilizzarli...
la nostra inadeguatezza, in questo momento, è quasi drammatica rispetto alle attuali possibilità tecnologiche. Io non sono un ottimista ingenuo, però non posso in questo contesto essere un pessimista, perché veramente il problema principale è costituito non tanto dalle tecnologie ma dalla nostra relativa incapacità di usarle. Insomma, da una diffusa mancanza di preparazione. E anche questo è un altro aspetto evidenziato con grande lungimiranza da Heidegger, la cui sentenza in merito è tra l'altro riportata nella prima citazione con cui si apre il recente libro di Galimberti su «Psiche e techne», dove l'autore prende avvio proprio da questa osservazione: «Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo».

Se le cose stanno così, come si esce da questa impreparazione? Probabilmente, non solo e non tanto con una forte specializzazione tecnologica, perché questo non risolve il problema alla radice. Sono d'accordo, insomma, con Marco Gazzano e con il suo riferimento alla categoria dell'oltredisciplinare già evocata da René Berger...

MARCO GAZZANO: Proprio perché «l'essenza della tecnica non è nulla di tecnico», sempre per citare Heidegger...

ENRICO COCUCCIONI: Certo. Io sono ancora di quell'avviso. Però noto che c'è una certa tendenza a considerare l'arte più nella chiave nicciana che heideggeriana: l'idea prevalente è che, siccome la volontà di potenza, su cui si basa la tecnica, nasce nella cultura occidentale da un paradigma artistico (la «techne» greca, appunto), allora la critica radicale alla civiltà della tecnica (ad esempio, l'estrema confutazione logica delle sue premesse, proposta da Severino), consiste nel negare all'arte e alla tecnica, identificate in una medesima definizione teorica, ogni contenuto di verità. Per cui questa finisce per diventare una soluzione impraticabile.

Poiché, seppure ineccepibile sul piano logico, il ridurre l'arte e la stessa processualità dell'esperienza umana ad un abissale "errore" nichilistico costringe il pensiero teoretico a perdersi nell'astrazione. Si ricade proprio nelle pretese totalizzanti di quella ragione astratta da cui il pensiero heideggeriano intendeva liberarsi. Sappiamo che l'ontologia di Heidegger è approdata infine alla poesia. Egli giunse persino a ritenere che l'apparato concettuale della filosofia fosse il maggior ostacolo sulla via del pensiero.

Quando si giunge a questo punto, l'ulteriore passo inevitabile è quello artistico. Visti sotto questo profilo critico, filosofi come Nietzsche, Wittgenstein o Heidegger, al di là delle tesi sostenute, sono per noi degli ottimi esempi di congruenza tra il dire e il fare. Se li assumiamo ancora oggi come maestri di pensiero, non è tanto per quello che hanno detto ma per come lo hanno detto. Le attuali variazioni sul tema heideggeriano dell'oltrepassamento della metafisica, a me non sembrano altrettanto congruenti con i comportamenti di chi le teorizza. E credo ancora, in qualche misura, in una funzione dell'arte che riguarda in primo luogo un "disvelare" oltre che un costruire...

Non si tratta tanto di prefigurare il futuro, quanto di comprendere il presente, il processo di cambiamento in atto. Se è proprio l'esistenza in rapporto a qualcosa d'altro che definisce l'Esserci, allora possiamo comprendere il luogo in cui siamo soltanto se ci confrontiamo con uno spaesamento che l'arte stessa produce. Altrimenti finiamo per interpretare tutto alla luce di quel che già abbiamo appreso e sperimentato. Persino di fronte ad un nuova tecnologia, quindi, rischiamo di rimanere ancorati alle metodologie collaudate con gli strumenti precedenti. Così, ad esempio, il video verrebbe visto solo nell'ottica del cinema, la fotografia in quella della pittura e così via.

Teniamo conto del fatto che le riflessioni di Heidegger sulla tecnica e quelle di Benjamin sull'inconscio tecnologico sono più o meno contemporanee: in quegli anni gli artisti cominciarono ad esplorare la scena dischiusa dai media elettronici. Ritengo che oggi la dimensione della rete rappresenti non solo il compimento di quelle esperienze, ma anche l'occasione per nuove sfide.

Riassumendo: credo che in questo momento le stesse neotecnologie che informano sempre più il nostro ambiente quotidiano ci spingano a uscire dalla logica della specializzazione. Internet, in questo senso, potrebbe rappresentare un "controambiente" rispetto agli attuali equilibri "omeostatici" del sistema dell'arte e, seppure non assorbirà certo in sé ogni possibile ambito della ricerca artistica, innescherà comunque in tale sistema dei cambiamenti significativi. E l'eventuale impreparazione (non solo tecnica), riferita all'uso consapevole di queste tecnologie, sarà il maggior pericolo per tutti noi, al di là del fatto di operare in questo o quel settore specifico.

PATRIZIA FERRI: Il problema centrale della civiltà contemporanea,  ritengo  che sia quello del rapporto con la realtà, cioè la possibilità di  riconfigurare un nuovo, più autentico rapporto con le cose, necessità che nasce dal crollo delle ideologie come sistemi idealizzanti da cui si evidenzia una sorta di curiosa ma anche straordinaria contraddizione in termini dei pensatori stessi, che propongono ed evidenziano a tratti degli assoluti, magnifici squarci di realtà all'interno del pensiero filosofico, come sistema astratto per eccellenza, che sono perle preziose di consapevolezza umana: questo significa che anche all'interno di un pensiero speculativo, dunque, esistono straordinarie illuminazioni che in fondo lo supportano.

Penso che oggi, per riconfigurare un ruolo e una funzione dell'arte, come "arte" tra virgolette, cioè un'arte che sta uscendo, a mio avviso, da un concetto tradizionale, come quello di cui Marco Gazzano parlava prima, dobbiamo affidarci ad una sorta... non tanto di interdisciplinarità, quanto di trasdisciplinareità e di transcultuaralità, il che significa appunto uscire da un confinamento, una specializzazione, una settorialità dei singoli  sistemi di pensiero. Questa è quindi, secondo me, la sfida straordinaria per il nuovo millennio, ed è anche un qualcosa che ci può prospettare una sorta di nuova idea di realtà: come diceva Enrico Cocuccioni prima, al di là dei luoghi comuni, Internet o le nuove tecnologie possono in un certo senso dar origine ad una sorta di nuova forma di alienazione o d'illusione di onnipotenza. E, dunque, di solipsismo. Quindi, in un certo senso negare, anziché favorire, questo rapporto di apertura totale e globale verso i termini della realtà.

Io credo che siano estremamente pericolose le interpretazioni che alcuni pensatori contemporanei fanno delle nuove tecnologie, ovvero, quando si parla, ad esempio, di una tecnologia auratica e vista come "sublime",  cioè interpretata come un dispositivo sublime, tutto ciò nasconde veramente il grandissimo pericolo di una nuova più insidiosa ideologia...

Quindi bisogna porsi, non tanto in polemica, quanto in dialettica con un certo tipo di pensiero e questo può avvenire solo con la coscienza del potere di trasformazione della relazione, dell'incontro tra essere umano e diversità, altrimenti si continua, per così dire, a "parlarsi addosso" e ci si chiude nelle stesse strumentazioni, le stesse specializzazioni, gli stessi confini netti e le stesse separazioni che ci porterebbero a quella alienazione di cui si parlava prima. Insomma, a quella sorta di alienazione culturale... a quella forma di spaesamento totale in cui effettivamente oggi rischiamo di trovarci.

Occorre quindi un dato di consapevolezza esercitato con la forza del dubbio, fondato prima di tutto sulla conoscenza, e sull'accettazione che dà quella capacità di fornire un'indicazione, un orientamento, un compito non solo dell'intellettuale ma di ogni essere umano perché la cultura deve essere costituita soprattutto da soggetti centrati in se stessi e che quindi, su questa base, possano fornire indicazioni anche di ordine ampio.

MARCO GAZZANO: Uno degli effetti più probabili della rete, così come del Labirinto, è che ci si può perdere, oltre che imparare ad orientarsi nei suoi meandri o a navigare in Internet. Così come si può non uscire dal Labirinto, anche se qualcuno trova il filo di Arianna, oppure si può finire mangiati dal Minotauro. Non è affatto detto che se ne esca solo perché Arianna è uscita, perché c'è anche gente che non ne è mai uscita. Io lo vedo anche con gli studenti. Non è affatto vero che sia, non dico tecnicamente, ma proprio concettualmente agevole lavorare con Internet. Non è vero, d'altra parte, che lo sia trovare i libri in una biblioteca.

Non solo perché ci sono delle regole diverse da imparare, delle tecniche da apprendere, ma proprio perché concettualmente la navigazione è una cosa complessa: bisogna avere dei punti di riferimento, delle mappe, delle guide, delle bussole, dei criteri forti, essere centrati in sé... Chi non è in grado di mantenere la calma durante una tempesta può navigare quanto vuole ma affonda. Questo i ragazzi che lavorano con Internet lo conoscono quotidianamente. Conoscono più questi rischi che le possibilità della rete.

D'altra parte, sia le cosa dette da Enrico Cocuccioni che da Patrizia Ferri riguardo alla questione dell'isolamento che... anche qui, squarci di verità che sono a volte anche squarci di buon senso profetico... tra le grandi profezie possiamo qui citare quella di Rudolf Arnheim, il quale nel '35 scrive un saggio sulla televisione, «Vedere lontano», che finisce proprio con questa immagine (un'immagine, poetica, letteraria, molto poco scientifica ma assolutamente profonda e vera), che è quella dell'uomo isolato davanti al suo schermo televisivo.

Il telespettatore, in realtà, è solo davanti allo schermo e non ha più alcun rapporto prossemico, fisico, corporale con nessun altro elemento che non sia quell'immagine che Arnheim ovviamente non chiamava virtuale ma che in fondo lo era già. Nel 1935, quando descrive questa immagine, la televisione era appena un esperimento scientifico. Ed essa vale, più ancora che per la televisione (così come si è storicamente realizzata) per l'uomo solo davanti al monitor di un computer, che a rigore non è più un «monitor»: non è più lo strumento in grado di guidarlo, come si ricava dall'eco della parola latina, ma è uno strumento in grado di farlo perdere. Oppure di farlo ripiombare in se stesso senza autoconoscenza.

Patrizia Ferri ha posto la questione del rapporto con la realtà. Ma il rapporto con la realtà potrebbe essere inteso anche come il rapporto con la verità. Con la ricerca del disvelamento di ciò che è nascosto. Severino, Galimberti, possono dire quello che vogliono circa l'incapacità della tecnica di produrre verità. Per esperienza personale (a questo punto rivendichiamola), e per quella di generazioni di artisti che hanno utilizzato le tecnologie avanzate in questi ultimi cinquant'anni, si è trattato proprio di smentire con l'evidenza dei fatti questa tesi. Le opere realizzate, con o senza determinate tecnologie, ma con uno spirito tecnologico che prescinde comunque dalle tecniche utilizzate, ci hanno dato molta verità.

A me hanno dato molte mappe, molte guide, molte indicazioni per affrontare la realtà quotidiana e l'essenza profonda della realtà. Molte opere di videoarte, molti film, molte fotografie, molti programmi radiofonici, si tratti di opere d'arte o anche solo di pregevoli esperienze, ma hanno aperto degli squarci di verità, ci hanno detto di più di quello che sapevamo prima. Questo è importante ribadirlo al di là delle ideologie apocalittiche sulla tecnica o sull'arte. Forse, per tornare ad una delle suggestioni di Enrico Cocuccioni, quello che è assolutamente vero, e questo già lo spiega Einstein, Oppenheimer, ma anche gli artisti, lo stesso Nam June Paik l'ha detto: le tecnologie, ma più che altro le possibilità che si dischiudono per noi nell'uso delle tecnologie, sono troppo più avanzate rispetto alla nostra coscienza o alla nostra consapevolezza.

Noi non siamo maturi, neppure per le opere ormai "classiche" di Paik. Come, d'altra parte, non eravamo maturi per i testi ed i quadri di Wassily Kandinsky. E poi, in quest'epoca specifica, in questa particolare fase dell'evoluzione tecnologica, vi è un rischio in più che è davvero potenzialmente mortale per la nostra specie, oltre che per le nostre menti. E questo ora i biologi cominciano a capirlo, ma gli artisti lo hanno già anticipato. Allora, se l'arte, secondo Heidegger e secondo i filosofi critici del '900, s'identifica con la tecnica (riprendendo anche Platone e Aristotele), allora vale una notazione che faceva Adorno nella sua «Estetica» a proposito del mito di Prometeo: ciò che veramente Prometeo ha regalato agli uomini non è stato il fuoco, l'arte del divino, l'arte (perché noi alla fine scriviamo con la luce, dipingiamo col fuoco elettronico, facciamo tutte queste cose), ma è stata la Tecnica dell'accensione del fuoco il vero regalo che Prometeo ci ha fatto.

E siccome il fuoco era attributo divino, da allora in avanti ogni sviluppo tecnologico ci ha avvicinati un po' di più, se non a Dio, all'immagine che noi ci facciamo di Dio. E tutti i discorsi sulle relazioni tra teologia e tecnologia di questi ultimi anni vanno in parte in questa direzione. Con il film, con il video, con tutti i linguaggi o le arti delle immagini e dei suoni in movimento, con tutte le scritture audiovisive, noi ci siamo molto avvicinati alla creazione, all'idea stessa di creazione. Idea che è al fondo del più straordinario tra gli attributi della divinità. Devo dire che certe idee filosofiche della Cabala studiate da Benjamin si sono poi sostanziate nel montaggio cinematografico. E poi in maniera ancora più raffinata, da un punto di vista concettuale, in quello elettronico e via di seguito...

L'ingegneria molecolare, la clonazione degli esseri umani che oggi è tecnicamente possibile, sono soltanto la faccia più evidente di questo meccanismo. Ma l'arte ha lavorato sull'idea dei creazione, più che di clonazione, molto prima della biologia. E devo dire che questo è il vero rischio. Noi non siamo maturi per creare con un computer, così come non siamo maturi per creare con la manipolazione del DNA. Non siamo in grado di controllare le conseguenze di questo nostro atto. La tecnologia ci ha davvero messi a un certo punto in sintonia con certe esperienze del divino. Ci mette materialmente oggi, purtroppo... E noi non abbiamo ancora l'apparato filosofico, la maturità interiore, la consapevolezza per arrivarci.

Probabilmente è per questo che Paik, o gli artisti che hanno fondato le arti elettroniche, hanno così fortemente rivalutato la filosofia orientale. Perché soltanto con l'autoconsapevolezza della meditazione orientale, che era poi la stessa di San Francesco, prima ancora che con i dati della scienza, che noi oggi possiamo avvicinarci a controllare gli effetti di tecnologie che abbiamo già di fronte. Che non sono però soltanto le tecnologie del DNA, ma sono anche il cinema, sono anche le immagini digitali, in quanto sono forme di "(ri)creazione". Nei convegni sul cinema elettronico dei primi anni '80 venivano fuori i tecnici della Lucas Film dicendo «noi stiamo cercando di realizzare una Marilyn Monroe digitale».

Adesso ci sono arrivati: il prossimo film di Micheal Mann ha tre sequenze girate da un attore morto sul set che è stato, diciamo, ricostruito al computer e ha recitato agli stessi livelli di definizione della sua foto. Quindi oramai questo che è il più sublime degli effetti speciali... la creazione è, appunto, l'effetto speciale per eccellenza. Noi non siamo in grado di controllare questi sviluppi. E qui c'è da chiedersi se converrebbe... siccome non si possono fermare questi processi, se la filosofia o la critica d'arte debbano fare un grande passo in avanti a partire dalla consapevolezza della modestia dei loro strumenti odierni, oppure se la tecnica, le tecniche oltre che il pensiero, debbano fermarsi e riflettere.

PATRIZIA FERRI: Io propenderei per la prima delle due opzioni, indubbiamente. Mi sembra molto interessante il fatto che tu abbia evocato il riferimento ad un dato, diciamo così, fortemente spirituale. Io sostengo che si dovrebbe ritornare ad una decisa forma di spiritualità, intesa in senso orientale, come dicevi anche tu giustamente, nel senso che quando prima dicevo che era molto fuorviante l'interpretazione della tecnologia come dispositivo sublime, non volevo dire che la tecnologia in sé non sia fornita, come dire, di una grande capacità di sollecitare o fare da supporto ad esperienze spirituali, ma non trascendenti né estetizzanti, bensì intrinseche alla vita stessa.

A mio avviso, se arriveremo effettivamente a quell'ipotesi di cui si parlava prima, cioè a produrre un tipo di arte vera, autentica, un tipo di produzione non più collegata all'atto automitografico del soggetto, ma intesa come una sorta di produzione collettiva che possa produrre consapevolezza critica e facoltà di trasformazione per il singolo individuo, io ritengo che questo sia uno straordinario obiettivo spirituale, inteso come rivalutazione del senso sostanziale della quotidianità e della vita.

MARCO GAZZANO: Anche della scintilla del divino che evidentemente c'è in noi...

PATRIZIA FERRI: Sì, che c'è in tutti noi, e che si esprime nelle illuminazioni che il singolo può avere in qualunque situazione, durante la giornata, in tutti i momenti e in quei piccoli attimi quotidiani che compiamo spesso distrattamente. Una angolazione per una nuova funzione, un nuovo ruolo dell'arte, "risvegliata" a esigenze sostanziali, vicina cioè al suo nucleo originario, immateriale oltre l'opera, oltre l'oggetto finito.

ENRICO COCUCCIONI: Oltre che delle "rivelazioni" ottenute attraverso la tecnologia, si può parlare anche della funzione che alcuni artisti hanno assunto col darci, per così dire, il loro "koan", cioè il loro messaggio paradossale da maestro Zen, il quale consiste in genere nell'evocazione di un problema insolubile, o di un evento dal significato enigmatico che però, proprio per questa sua apparente assurdità, può innescare un processo di autoconsapevolezza nell'interlocutore. L'effetto di tale messaggio consiste proprio nel ridimensionare il senso di onnipotenza, di esaltazione dell'io che deriva dall'aver acquisito la tecnica.

Per esempio quella del tiro con l'arco. Ecco allora che, arrivati a quel punto, a quella presunta padronanza del mezzo, possiamo avere la sensazione di avere il «target» sotto controllo, il risultato a portata di mano... In quel momento il koan serve a riequilibrare in senso ecologico la situazione, cioè a rimetterti in rapporto con un contesto dove il bersaglio, l'arciere, la società, la realtà in cui vivi, fanno parte di un unico, grande, inestricabile intreccio.

Ciò evoca il sentimento di una struttura implicita che connette ogni cosa, persino il semplice gesto di tirare una freccia, alla totalità di cui anche quel singolo evento è necessariamente partecipe. Solo in questo più ampio orizzonte di senso, cioè in riferimento a quell'essere che precede e oltrepassa la stessa contrapposizione tra il soggetto e l'oggetto, una tecnica qualunque può diventare "arte". Quindi, l'illudersi di poter assumere il ruolo, grazie alla tecnica, di un soggetto forte in quel contesto, significa poi, in realtà...

MARCO GAZZANO: Significa sbagliare anche il bersaglio! È tutto molto "alto"... in questo livello di dibattito si toccano indubbiamente dei punti fondamentali. Ma il mio pessimismo deriva dal fatto che, lungi dall'affrontare la questione del rapporto con lo spirituale in senso produttivamente critico, e lungi anche dal cercare di afferrare la totalità e lungi dal porsi il problema della creazione anche attraverso la tecnica, mi sembra che l'esperienza nostra, anche recentissaima, ci dimostri che il novanta per cento delle persone impegnate nella discussione sull'arte, sulla fisica o sulla filosofia o sui media, stia facendo esattamente il contrario.

L'ho visto facendo la manifestazione «Arte e Comunicazione» a Roma, esattamente il contrario... assistiamo cioè ad un nuovo fondamentalismo che non è "trans" o "ultra" qualche cosa, ma è addirittura confessionale. Critici di cosiddetta videoarte o arte elettronica che difendono strenuamente il loro specifico e lo specifico di artisti che non sono affatto incasellabili neppure in quello specifico. Così come i biologi fanno lo stesso. Così come i medici stanno facendo la stessa cosa, come gli ingegneri informatici o i padroni del Web stanno facendo. Si stanno difendendo le caste. E anche in maniera arrogante.

Un'arroganza che dieci anni fa sembrava scomparsa: all'epoca abbiamo provato, anche teoricamente, senza annullare nessuna specificità, però a trovare le relazioni, ad esempio, tra la televisione e la videoarte. Allora era molto più difficile di oggi, perché la televisione era davvero molto diversa da quella di oggi. Perché oggi non è soltanto generalista ma anche tematica, forse più aperta, graficamente diversa... oggi che c'è questa televisione diversa, e che può essere resa ancora più diversa, trovo i produttori di arti elettroniche che si difendono (così è stato detto alla manifestazione) come un castello assediato.

Sarà elettronico ma sempre un castello è. Questo è l'atteggiamento più controproducente in questo momento. Così come vedi i produttori di televisione che rilanciano degli stereotipi sull'arte che sono assolutamente improponibili. Ritenendola, per esempio, di nuovo dedicata soltanto ad una fetta di mercato di elìte, mentre l'arte, se è arte, è assolutamente "popolare" perché è comunicata dall'artista, ai livelli più inconsci, a tutti. Al di là di quello che le persone sanno o non sanno della filosofia di quell'autore. La Cappella Sistina parla a tutti. Parla anche in maniera esoterica, ma parla soprattutto a tutti. Così come un quadro di Kandinsky, così come un'opera di Paik o di Gianni Toti. Poi può parlare in maniera molto più specifica.

Questa verità il mondo della televisione la sta di nuovo negando. Ma al contempo i produttori di queste opere in elettronica si sentono assediati dal mondo dei media. Il fatto che io abbia cercato di realizzare una mostra che non è una mostra, ma un progetto di rapporti tra arte e comunicazione che si pone come progetto, che può sostanziarsi in un canale televisivo, così come in una mostra o in un convegno o in una serie di manifestazioni, è diverso dal firmare una singola mostra. Invece, in questo momento, dicendo che l'arte elettronica è tornata ad essere di moda, si firmano esclusivamente delle mostre chiuse. E fare delle mostre chiuse di videoarte alla Biennale di Venezia o alla Triennale di Milano è quanto di più antifilosoficamente elettronico si possa immaginare. È ridicolo firmare oggi una mostra di videoarte con un numero chiuso di artisti e con un tema, perché è fuori dalle sfide di quest'epoca.

PATRIZIA FERRI: Io infatti ritengo che quasi tutti i critici che si occupano di nuove tecnologie e dintorni, diciamolo, siano sostanzialmente scorretti da questo punto di vista...

MARCO GAZZANO: Non so se siano scorretti, però c'è un fondamentalismo vero, un integralismo che si sta sviluppando e che è preoccupante. Non lo riesco a capire. Forse è una reazione alle sfide della complessità: la realtà è troppo complessa e ci si difende rifluendo nel proprio specifico.

PATRIZIA FERRI: Marco, però tu dimentichi un altro forte condizionamento che molti nostri colleghi invece sentono, che è quello del mercato: l'arte legata alle nuove tecnologie, lo spirito di quest'arte, è profondamente, sostanzialmente fuori da una logica mercantile. Quando parlavamo prima di una configurazione dell'opera d'arte significa che l'opera deve uscire fuori, di fatto, dalla sua veste oggettuale e rientrare, diciamo, nella sua verità di processo. La storia dell'arte fino ad oggi è stata una storia estremamente mirata a consolidare un sistema di fatto, cioè una produzione di oggetti a livello mercantile, mentre l'uso corretto delle nuove tecnologie ci pone di fronte ad uno svelamento di fatto, ad una verità sostanziale.

All'essenza vera dell'arte, alla sua profonda, sostanziale, straordinaria essenza legata all'immaterialità: alla sua valenza come processo, come crescita, come consapevolezza e conoscenza. Capisci bene che evidenziare e sottolineare tutto ciò, ripeto, significa minare alle basi il sistema dell'arte, la produzione mercantile e i ruoli ad essa connessi.

ENRICO COCUCCIONI: Non vorrei che le conclusioni tratte da Patrizia venissero fraintese. Perché è evidente che esistono opportunità nuove anche per chi opera in settori più tradizionali della ricerca artistica: connesse, per esempio, con le inedite possibilità di divulgazione delle informazioni intorno al proprio lavoro. Probabilmente esistono anche nuove possibilità di mercato, in qualche misura, proprio a partire da queste tecnologie.

Chiaramente, si finisce sempre per evidenziare un paradosso: anche l'Arte Concettuale ha, com'è noto, giocato a scacchi con la nuda verità del processo creativo rinunciando all'oggetto e anzi denunciandone il carattere di feticcio. Ma poi anche un atto notarile che attesti, per così dire, il possesso di un'opera immateriale, può essere venduto da un gallerista a un collezionista. La stessa cosa, volendo, si può fare oggi attraverso Internet, anche se ciò ha tutta l'aria di una beffa ai danni della nostro senso critico.

Naturalmente queste cose Patrizia Ferri le sa benissimo, anche perché ha studiato a fondo il lavoro di artisti come Piero Manzoni che hanno tra l'altro avuto il merito di evidenziare l'aspetto derisorio di questi processi di reificazione e mercificazione dell'arte. Del resto, chi opera nel mercato conosce bene «l'arcano della merce», ovvero quel paradossale sfondo "metafisico" che si nasconde dietro le parvenze triviali della merce. Un buon venditore, insomma, sa alla fine come riportare anche i non oggetti a qualcosa di vendibile.

La retorica della pubblicità ce lo dimostra. Si vendono sogni più che oggetti: chi vende polizze assicurative fa ovviamente leva sul concetto di "sicurezza", così come chi ci propone un costoso deodorante ci sta in realtà vendendo un po' di «Aria di Parigi». Mi meraviglio anzi del fatto che non esista ancora un dopobarba chiamato «Duchamp»! Conosciamo ormai la parabola dell'arte come "merce assoluta" che va da Baudelaire a Baudrillard. Vorrei dunque fare qui una ulteriore problematizzazione di questa idea che il sistema possa davvero entrare in crisi.

C'è stato un mio tentativo di lettura critica... non so fino a che punto efficace. In sostanza, io partivo da un presupposto, già nei primi anni '80, che quel cosiddetto "ritorno alla pittura", di cui si parlava in quegli anni, fosse inconcepibile al di fuori del rapporto con l'emergere di un nuovo contesto tecnologico. Nel senso che solo una logica della simulazione può, ad esempio, rendere comprensibili i cosiddetti fenomeni anacronistici del postmodernismo. Al di fuori di questa ipotesi, ovvero della possibilità di questo supremo artificio, in quanto sofisticata volontà di affermare in termini concettuali «l'anello del ritorno», per così dire, sarebbe veramente folle pensare che un artista possa oggi esprimersi come nel '500.

Non vorrei dilungarmi su questo. Ma ritengo che perfino quel modo di riproporre la pittura e le altre tecniche tradizionali dovrebbe essere confrontato, in qualche misura, con l'attuale ecosistema dell'informatica diffusa. Del resto, le varie teorizzazioni del postmodernismo, in generale, hanno fin dall'inizio intuito questo aspetto. La questione tecnologica è ben presente in Lyotard, in Vattimo e più o meno in tutti i teorici della condizione postmoderna. Oggi assistiamo forse al rischio opposto, cioè che venga tematizzato, preso alla lettera, il riferimento primario al discorso tecnologico.

E questo provocherà, forse, ulteriori irrigidimenti difensivi da parte di alcuni, i quali troveranno una ragione in più per rifiutare in blocco la cosa. Altri, invece, entreranno senza rendersene conto in un labirinto che loro stessi non sapranno più come definire da un punto di vista teorico. È evidente, insomma, che fino a quando ci si limita a stare a ridosso di un oggetto, a schedarlo, analizzarlo, può darsi anche che si abbia l'illusione di tenere sotto controllo lo statuto disciplinare di tale oggetto. Come in tutte le discipline, del resto. Però, siccome noi siamo coinvolti in prima persona col nostro oggetto, cioè non possiamo rimanere a lungo come osservatori del tutto distaccati, arriva il momento in cui dobbiamo ricollegare questa disciplina ad un contesto più ampio. E lì ci si rende conto che qualcosa, forse, mette oggi seriamente in questione la possibilità, appunto, di delimitare questo specifico.

Perciò, la mia fiducia in questo canale telematico che stiamo cercando di costituire, dedicato alla riflessione teorica sulla critica, nasce proprio da un'esigenza oggi molto sentita. Accetto dunque la sfida di McLuhan, secondo la quale, se è vero che l'artista precorre in qualche modo i tempi, illuminando il presente e anticipando il futuro, allora il critico deve stare attento a non chiudersi nei rassicuranti confini procedurali di un discorso burocratico, perché ciò sarebbe un pessimo servizio nei confronti dell'arte.

MARCO GAZZANO: Due settimane fa ho discusso a Urbino con un collezionista d'arte. E parlavamo di questo episodio del miliardario giapponese che ha acquistato il quadro di Van Gogh, il ritratto del medico, un quadro stupendo, e si è fatto bruciare con il quadro. Questo che per me è un crimine artistico... un crimine vero, non quelli simulati da Paik quando spezzava i violini... un autentico crimine culturale, perché un quadro, un'opera d'arte, nella mia visione forse romantica, appartiene all'umanità, è un bene culturale che non può essere di proprietà privata, come non possono esserlo i fiori, le montagne o la terra... E questo collezionista, invece, ha rovesciato la mia visione in maniera interessante e suggestiva, dicendo che forse il miliardario giapponese ha realizzato la vera utopia di Van Gogh, distruggendo un'opera come sublime atto concettuale, dimostrando in tal modo ciò che Van Gogh, a quel punto della sua vita, immaginava, cioè l'assoluta inconsistenza di ogni Sé.

Sono due punti di vista evidentemente opposti. E devo dire che questo secondo, che va contro tutte le nostre idee sulla conservazione dei beni culturali e anche dei beni mercantili, ha però un suo fascino. Non mi sentirei di sostenerlo completamente, ma è affascinante. Questo per dire... non per concludere, perché certo una conclusione non la possiamo trarre, ma per ritornare sulla suggestione del mercato e al tema posto da Patrizia Ferri. Anche questo è un punto che dimostra l'incapacità dei critici, e forse anche dei collezionisti, di affrontare la fase della modernità che stiamo vivendo.

Il mercato dell'arte, oggi, non dovrebbe essere più quello del '700, dell'800, del primo '900. E difendere quel mercato è come difendere la specificità immutabile dell'arte elettronica, o la specificità della fotografia. Il mercato può esistere, ma in forme diverse. Se è la rete il modello, il paradigma del prossimo millennio, allora sarà una rete anche il mercato. Il collezionismo pubblico, per esempio: probabilmente non si acquisterà una videoscultura per arredare il giardino, anche se qualcuno lo sta facendo, ma le videosculture potrebbero essere acquistate dai musei, dai Giardini come arredo urbano, dalle città, dalle scuole, dagli uffici postali... e questo crea mercato, crea denaro per la ricerca, crea denaro per gli intermediari, crea lavoro per i critici che devono spiegare agli assessori cosa vanno a comperare.

E questa può essere una grande rete, un nuovo mercato, appunto, completamente diverso. E non soltanto virtuale, anche fisico, voglio dire. Così come si può continuare ad organizzare mostre che però non possono concettualmente essere chiuse in una stanza, con un numero limitato di autori. O meglio, possono esserlo, ma dovrebbero essere inserite, a mio modo di vedere, in un progetto complessivo. Il mercato esiste. E probabilmente esisterà sempre. Così come il valore di merce delle opere. Ma anche se non cambierà il denaro dato in cambio di una certa opera, potrebbe però cambiare la collocazione dell'opera: non più nel salotto buono dell'industriale, ma piuttosto in uno spazio pubblico che diventa così un nodo della rete, anche soltanto se ci metti dentro una videoscultura...

PATRIZIA FERRI: Infatti il problema non è il mercato: è la fruibilità del prodotto artistico. Ovvero, che possa non esserci più un così forte condizionamento mercantile di tipo tradizionale, cioè che non sia il mercato a condizionare e deteriminare le sorti dell'arte, ma che possa avvenire il contrario, rompendo la catena del sistema e riportando il discorso non più sui prezzi ma sui valori.

MARCO GAZZANO: Come cambia la nozione di arte deve cambiare anche il mercato...

ENRICO COCUCCIONI: Ecco, nel momento in cui noi usiamo la nozione di «sistema dell'arte», abbiamo già introiettato una qualche forma di consapevolezza «sistemica» che fa capo proprio all'idea della rete. È uscito di recente un libro di Francesco Poli su questo tema, ma l'autore non tocca in modo esplicito il tema di Internet. Eppure, è proprio in questa visione sociologica dell'attuale contesto che possiamo già trovare una crescente consapevolezza del fatto che i singoli ruoli, le singole componenti del sistema, non hanno un valore autonomo e assoluto, ma sono parti di una «gestalt», di una configurazione reticolare, di un insieme globale che non è la semplice somma delle singole parti.

Per conseguenza, l'artista, il critico, il gallerista, il direttore di museo ecc., sono tutti elementi essenziali di quei "giochi linguistici" e di quella pragmatica relazionale su cui si basa la sopravvivenza stessa dell'arte contemporanea. In qualche modo, tutti questi soggetti sono considerabili come i coautori di un'unica grande opera che è appunto il sistema stesso. Occorre poi aggiungere, naturalmente, che esiste oggi anche un ulteriore fattore di cui tener conto: il potenziale ruolo attivo da parte di un pubblico ben più vasto rispetto a quello dei tradizionali circuiti elitari delle avanguardie. Si tratta ora, forse, solo di rendere più esplicita questa condizione...

PATRIZIA FERRI:  Che potrebbe produrre proprio una rinnovata esistenza dell'arte stessa, in un certo senso, un'arte che si riprenda una sua funzione "vitale", nella coscienza dei suoi limiti storici, ontologici ed epocali, con una capacità rinnovata di perdersi nella realtà, sparire per poi riemergere sotto altre spoglie e, magari sotto un'altra identità, tremendamente umana e tutta da riconfigurare. Certo per chi ha coraggio ed è pronto a mettersi in gioco, un compito a dir poco stimolante...

Roma, Marzo 2000
 


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