(E.C.): Sembra che una delle caratteristiche salienti della specie umana sia di dover essere “creativa” per necessità. Se per sopravvivere occorre inventare a getto continuo qualcosa di nuovo, tale incessante ricerca di alternative all’esistente comporta una strana mistura di progettualità e destino: una “libertà-necessità”, insomma, che in base al classico principio di non contraddizione dovrebbe risultare impossibile.
Questo atavico imperativo che ci obbliga al “libero azzardo” per non soccombere a causa di un ambiente naturale che in determinate circostanze può rivelarsi ostile, non getta forse l’esistenza umana in una sorta di “doppio vincolo” originario senza vie d’uscita? In termini un po’ meno astratti e, per così dire, più attuali, sappiamo che per abitare senza panico in una moderna metropoli occorre sviluppare una sensibilità in grado di trasformare gli aspetti potenzialmente angosciosi di un simile ambiente artificiale in fenomeni con cui non solo occorre imparare a convivere, ma in cui addirittura cerchiamo talora qualcosa di realmente godibile sul piano estetico (trovandolo magari nei ritmi frenetici dei consumi, nelle “moltitudini anonime”, negli stereotipi “pittoreschi” del degrado urbano).
Viene da chiedersi se questa strana compresenza di libertà e costrizione sia riconducibile ad una spiegazione logica plausibile al di là della vistosa contraddizione che comporta al primo sguardo. Sappiamo che anche nelle arti ispirate ad una qualche estetica del sublime troviamo questo paradosso di un’esperienza che può essere dolorosa e piacevole nello stesso tempo. Ma oggi la questione si pone in termini ben più quotidiani e tangibili agli occhi d’ogni osservatore attento: pensiamo a quelle tecniche mediatiche di comunicazione persuasiva che sembrano ormai configurare uno scenario avvolgente, sempre più “immersivo”, entro il quale non è improbabile che alcune delle più raffinate strategie di marketing per funzionare abbiano bisogno di mobilitare le stesse risorse creative dei destinatari con forme di coinvolgimento che talora prevedono un alto grado d’interattività.
Per ottenere questo forte coinvolgimento estetico e motivazionale dei potenziali “clienti”, tali strategie adottano tecniche di seduzione il cui carattere “costrittivo” si può dedurre proprio dalla loro efficacia, ossia dal fatto che pare ormai pressoché impossibile resistere al potere d’attrazione dei nuovi “feticci multisensoriali”. Del resto, com’è noto, nella comunicazione non c’è mai violenza in senso stretto: l’aspetto coercitivo non consiste dunque nell’ottenere il consenso con la forza, ma nel saper far leva, appunto, sull’energia che l’interlocutore ha già in sé. Il quale, almeno in linea di principio, si continua a supporre libero di scegliere se rispondere al messaggio con un’accettazione o un rifiuto.
Come però rispondere in modo altrettanto efficace ad un simile “assalto persuasivo” spesso così ben pianificato e mirato? Come resistere – almeno in parte – al canto delle Sirene, se non con strategie critiche o di “détournement” estetico altrettanto sofisticate? Sappiamo che già nel secolo scorso alcuni intellettuali e artisti d’avanguardia hanno tentato la via della “sovversione” dei codici attuata con una “distorsione” dall’interno anziché con ipotetiche “distruzioni radicali” rivelatesi perlopiù chimeriche, ossia sperimentabili in vitro solo a partire da gesti iconoclastici estremi (ma tali ormai da risultare, agli occhi “post-ideologici” del nostro tempo, sempre più velleitari e maldestri).
In campo teorico, una strada interessante quanto impegnativa è quella percorsa da Daniela Ranieri nell’orizzonte etnografico della comunicazione visuale contemporanea, ossia nell’ambito di un’analisi critica – che potremmo definire “militante” in quanto presume un osservatore consapevole di far parte dell’oggetto osservato – circa le attuali tendenze nelle arti, nella moda, nella pubblicità. I temi affrontati da Daniela Ranieri nel libro De Erotographia, nuove scritture del desiderio (Castelvecchi, 2004), mantengono a mio avviso una notevole attualità, meritando forse oggi di essere riproposti anche in relazione alle tendenze che si stanno affermando nella dimensione della Rete: pensiamo al cosiddetto Web 2.0, in particolare al fenomeno dei Social Network, i quali per molti versi si presentano come nuovi spazi di libertà in cui gli utenti costruiscono direttamente i loro stessi “avatar” identitari, condividono esperienze, pubblicano contenuti fotografici e audiovisivi, istituiscono gruppi di discussione... ma, nel medesimo tempo, offrono pur sempre alle nuove tattiche pubblicitarie informatizzate l’occasione ideale per “colpire il proprio target” con una precisone sempre maggiore.
Nel rivolgere alcune domande all’autrice, partiamo dunque dalla proposta di una “erotographia critica” che troviamo nel libro: un approccio non riducibile a una singola prospettiva disciplinare, pronto com’è ad avvalersi di una pluralità di strumenti teorici, con uno slancio interpretativo che osa “divinare i segni” di questo scenario comunicazionale in cui spesso ci ritroviamo coinvolti, appunto, nel doppio legame di una ipotetica “liberazione tramite costrizione”.
(E.C.): Nel tuo libro il tema di una liberazione tramite costrizione sembra quasi somatizzarsi, per così dire, in senso espressivo (in termini di suggestioni poetiche e originali modalità argomentative), nella tua scrittura. Una scrittura che manifesta una particolare cura per il dettaglio e che certo non si lascia configurare come un semplice flusso di libere associazioni, bensì implica un’incessante tensione critica, una “torsione” in chiave metaforica anche del linguaggio scientifico, un ampio ventaglio di sguardi esplorativi, un repertorio di figure esemplari sostenuto e ispirato da una pluralità di strumenti teorici e rimandi poetico-letterari.
Decisivo in tale discorso è il ruolo attribuito alle nuove tecnologie riguardo a quella che chiami “superficie scorrevole dei corpi”, in quanto esse inducono (o facilitano) una sorta di “fluidificazione somatica” o di trasfigurazione allucinatoria non riducibile alla logica convenzionale di una rappresentazione in cui i simulacri del soggetto e dell’oggetto si contrappongano frontalmente come entità monolitiche, ben determinabili o nettamente separabili. In questo processo d’incorporazione ed estensione tecnologica, in questo vertiginoso cortocircuito, la focalizzazione sul corpo senziente o sull’occhio desiderante, non fa che rivelare le nuove deflagrazioni di un Io che si “vaporizza” in una pluralità di istanze giustapposte, ben oltre la vecchia “spaltung” freudiana che pure già aveva messo seriamente in crisi l’idea di un Io inteso come luogo sicuro di sintesi, centro unitario della psiche, stabile puntello cartesiano del pensiero.
Ma se la rete e i nuovi media digitali favoriscono virtualmente questa disseminazione creativa, c’è da chiedersi se gli eventuali risvolti positivi di questa condizione possano emergere senza una ricerca espressiva e un impegno critico in grado di misurarsi a più livelli con tale contesto tecnologico. Più in dettaglio, quando si cita oggi da più parti l’idea ecologica cara a Bateson di “una trama che connette”, lasciando intendere, non senza una buona dose d’ottimismo, che ormai è la stessa tecnologia a impedire ai nuovi ‘feticci visuali’ di assolutizzarsi (o di occultare del tutto proprio quella “trama di rapporti” che li costituisce come oggetti del desiderio), viene da chiedersi se ciò possa realizzarsi senza un impegno critico di qualche tipo o se sia comunque necessario impegnarsi anche in una ricerca teorica (e direi anche artistico-poetica) come la tua. Quale ruolo “emancipatorio” assegni dunque oggi al Web e ai media digitali? E in che modo possiamo oggi favorire il costituirsi di una “ecologia” della comunicazione visuale?
Daniela Ranieri: Sappiamo ormai tutti, fin troppo bene, come le tecnologie non siano buone o cattive di per sé, e come siano invece l’investimento e l’uso umano a fornire una caratterizzazione positiva o negativa alle tecnologie, in termini simbolici e valoriali. Credo che le tecnologie di rete favoriscano in ogni caso una espansione del sé e un incorporamento, un farsi corpo proprio, delle istanze esterne, in questo senso inserendosi perfettamente dentro un’idea connettiva di tessuti di trame e narrazioni multividuali.
Le opposizioni tipiche dell’umanesimo tra tecnica e sfere dell’umano perdono oggi ogni significato: non per sminuire la complessità delle categorie (o meglio, dei processi di assegnazioni semantiche alle categorie), ma al contrario per proporre letture che non siano autolesionistiche e autocastranti.
Lo spiega bene Roberto Marchesini nel suo Post-human: se la tecnologia è parte fondante del nostro quotidiano panorama visuale, mentale, somatico e concettuale, è chiaro che la capacità emancipatoria del “mezzo” è già all’interno del mezzo stesso, è la sua ragione d’essere, e lungi dal configurarlo come mero strumento e protesi o, peggio, come nemico o macchina infernale, lo rende automaticamente un soggetto, un capo del filo, in un immateriale quanto reale flusso “ecologico”.
A parte questo, che è la premessa fondamentale per qualsiasi impresa di incoraggiamento di una ecologia dei media digitali, credo che oggi sia auspicabile un allargamento del concetto di condivisione, in particolare in relazione alla questione dei diritti digitali e del copyright: se con l’avvento del post-umano si sbriciolano le dicotomie e le opposizioni tra tecniche e soggetti, tra prodotti e creatività, tra macchina ostile e ispirazione divina che ne anima il movimento attraverso le mani umane, allora anche la strenua protezione del diritto d’autore e della mitizzazione del processo creativo (non a caso figli del Rinascimento e dell’Umanesimo occidentale) vanno a decadere, oppure vanno riviste sulla base di accordi che a livello internazionale tengano conto della capillarizzazione e della diffusione per fortuna inarrestabile delle informazioni e del sapere, come le licenze Creative Commons.
(E.C.): Il tuo approccio interpretativo muove soprattutto da un taglio etnografico-critico che differenzia i tuoi testi – anche in virtù di quel ricco repertorio di esempi che integra il discorso con riferimenti concreti – dai saggi filosofici di estetica. Di particolare interesse per me è proprio questo continuo rimando all’iconosfera esplosa dei nuovi feticci visuali. Quali altri esempi raccolti dall’arte, dal design, dalla moda o dalla pubblicità, aggiungeresti oggi in una ipotetica nuova edizione “riveduta e ampliata” di De Erotographia?
Daniela Ranieri: Mi trovo continuamente a collezionare immagini nuove e a collocarle in un ipotetico post De Erotographia mentale, soffrendone e godendone insieme. Nel libro ho privilegiato le immagini di moda e pubblicità, avendone combinato il gabinetto di curiosità in un momento in cui imperava un tipo di comunicazione generalista e questi piccoli casi iconografici, densissimi di significati a volte volgari a volte raffinati, costituivano una rottura. I social media e i social network ancora non avevano esploso tutto il loro potenziale comunicativo, e la condivisione era – per quanto riguarda il mio vissuto – limitata al passaparola off-line (cioè al passaparola tout court) o alle occasioni di lezioni non accademiche.
Oggi, l’immagine è davvero esplosa: non si rigira più dentro una gabbia mostrando i denti e i segni dei legacci (cosa che piaceva assai agli intellettuali non sublimati che eravamo), ma si frammenta e defragmenta continuanemente tra lo spazio fisico dei nostri pc, dove viene sottoposta alle operazioni di disinfezione da parte degli antivirus e degli antispyware, e lo spazio immateriale del mentale che percorre le connessioni. L’immagine è ora davvero, almeno teoricamente, libera di sedurci, legarci, sparire. Il punto è se lo siamo noi, cioè se e per quanto tempo il web potrà essere uno spazio di libertà della fruizione, e non diventi invece uno degli spazi di azione dei poteri, economici e politici, come in Cina, Singapore, Thailandia, dove le immagini sono disinfettate all’origine della loro fioritura e negate da poteri esterni.
Il contenuto del web, cioè quello che viaggia dentro i cavi o nello spazio aereo sottratto al filo del –less, non deve mai venire sottoposto a un controllo di merito: la rete deve cioè essere neutra se vogliamo aumentare le nostre realtà, e quindi le nostre libertà, e non sottrarle.
Le immagini che mi piacciono oggi finiscono in album che condivido sui social network, che tutti possono vedere e incorporare nelle proprie bacheche, e che esprimono la loro bellezza nel passare dentro spazi mentali e materiali diversi. Sono immagini di database random, composti da migliaia di utenti comuni, artisti, illustratori, creatori di software iconogonici, videomaker, che wikipedizzano il sapere e l’esperienza. Un esempio su tutti: FFFFOUND.com, immenso database basato sui feed che pesca immagini nel mare immenso del web.
(E.C.): La tua ricerca teorica, in quanto implica un lavoro critico inteso nelle sue molteplici declinazioni, somiglia sempre più ad un’attività “compositiva” di tipo letterario, musicale o artistico in senso lato, necessariamente basata su una sorta di “sregolato bilanciamento”: sembra, infatti, che tale attività consista più o meno nel trovare il giusto peso da conferire ad ogni elemento che entra in campo, ma senza ovviamente la garanzia di regole precise, già istituite, ovvero esplicitabili e formalizzabili come prescrizioni vincolanti. Del resto, ciò è proprio quel che accade in genere a pittori, poeti o musicisti: ogni attività propriamente “creativa” non può dunque, per definizione, trovare garanzie in metodi normativi né certezze a priori in ciò che è stato già realizzato.
A questo punto, possiamo constatare che le stesse discipline accademiche tendono oggi per noi, in molti casi, a rivelarsi come un abito divenuto troppo stretto. Il prossimo passo da compiere, benché non privo di rischi, non potrebbe forse essere proprio quello di orientare la ricerca in vista di un orizzonte espressamente critico-artistico e performativo? Quando si è in bilico tra “messa a nudo” autoriflessiva, scrittura poetica e critica d’arte “militante” (ossia rivolta con passione al contemporaneo), si assume un atteggiamento volutamente non “incasellabile” in ambiti specialistici precostituiti. E’ la strada indicata a suo tempo da personaggi come Baudelaire, Benjamin o Bataille, che non a caso si trovano spesso citati nei tuoi testi…
Daniela Ranieri: Quello di non lasciarsi incasellare in un ambito specifico né di lasciarsi definire dalla unicità della propria vocazione è un metodo praticato tanto dalle menti eccelse, incontentabili, irriducibili, alcune delle quali hai citato, sia da chi non sente di saper fare bene niente in particolare ma assaggia e sa riconoscere il buono da qualsiasi parte provenga. Credo che oggi la maggior parte delle persone interessate all’arte, alla scrittura e alle dimensioni “creative” dell’esistenza sia collocabile più o meno a metà tra le due oscillazioni. Ho una idiosincrasia per la parola creatività e per i secoli di fraintendimenti che si porta dietro. Sono però abbastanza d’accordo che il momento performativo rappresenti la fine degli incasellamenti “formali” dell’arte e decreti l’entrata in una sfera del divenire del momento creativo, che invece siamo stati abituati a pensare statico e dato una volta per tutte. Le immagini scorrono incessantemente sugli schermi dei cinema, sui nostri screen personali, negli aeroporti e in metropolitana, sui cellulari, nei set di videoproiezioni musicate, sulla nostra pelle, e questa è performance continua, citazione (che per Benjamin era il tentativo di suturare una ferita), rimando, ipermedialità, rifrazione.
(E.C.): La domanda forse più impegnativa riguarda l’ipotesi di un vero e proprio esercizio di ‘arte divinatoria’ per così dire. La premessa ormai quasi scontata è che siamo in un periodo di crisi economica globale che però presenta caratteristiche inedite rispetto a quelle del passato. Tenendo dunque conto di questo particolare momento storico, quali cambiamenti intravedi all’orizzonte? Quali tendenze ti sembrano oggi più interessanti, anticipatrici e potenzialmente trainanti?
Daniela Ranieri: Mi spaventa a morte la futurologia, da quella più sensoria a quella più teorica (che sulle impressioni della prima è d’altra parte fondata), quindi non posso forzare delle interpretazioni usando delle chiavi che non sono mai innocenti. Interpretazioni del genere, poi, rischiano di parlare a nome del pianeta quando sono frutto della porzione che detiene il potere cognitivo (o che pensa di detenere un potere anche cognitivo) dopo aver sentito e subito l’erosione di quello economico su cui aveva fondato le premesse della sua crescita a scapito della parte debole, i propri valori, le proprie letture, i propri ritmi di vita e di lavoro, e cercato di esportarle. Di fronte alla crisi, che non è solo economica e allo stesso tempo può essere un capitolo dei capi d’imputazione nel processo alle forme dell’economia occidentale, la prima soluzione è una riconfigurazione dei paradigmi vitali dell’essere umano e delle società in cui vivono donne e uomini. I contenuti dei discorsi di Obama offrono una luce nella direzione di questa riconfigurazione che non può che essere mondiale.
La forma di questi contenuti è altrettanto importante e epocale: senza dubbio con la sua elezione siamo entrati davvero nell’epoca post coloniale. Ma a favore di cosa? Il razzismo è ancora un groppo in gola del corpo sociale, così come l’omofobia, il modo in cui si tratta, umanamente e materialmente, la deformità fisica, la disabilità, la malattia, la povertà. In questo senso, le esplosioni e il crollo delle Torri Gemelle sembrano il simbolo del collasso di un corpo sociale che, benché artificialmente alimentato e tenuto in vita a forza di iniezioni di denaro, di sovra-alimentazione militare e colpi di fiducia di governi basati sulle forme politiche dell’Ottocento, 8 anni dopo ha smesso di respirare e vegetare, costringendo tutti alla presa di coscienza della morte del capitalismo e del fanatismo neoliberista che gli Stati Uniti hanno esportato e che l’Europa ha mangiato nel momento in cui veniva da quelli rigurgitato.
La net economy, è vero, rischia di generare un nuovo capitalismo cognitivo, perfetto marchingegno di produzione di proletari-consumatori del settore “quartario” dei nuovi media. Il totalitarismo mediatico cercherà di colonizzare la rete a colpi di leggi, come già sta cercando di fare anche da noi con le ridicole prese di posizione di esponenti politici che con la scusa della lotta al terrorismo e alla pedofilia vogliono imporre controlli e censure sui contenuti digitali non sapendo neanche di cosa parlano.
Ma forse è l’unica via, quella di organizzare delle forme di protesta non violente, mediate da una rete che si autoregola, fondate non sulla ricerca del benessere privato ma sulla condivisione e l’allargamento degli spazi di libertà, non sulla pretesa di totalità delle ideologie, tra cui quella comunista, ma sulla disseminazione di tempi e spazi dedicati a sé e agli altri, non sulla sregolatezza delle desublimazioni tipiche delle età decadenti ma sul fondamento epocale di un nuovo “Eros alato”*, non sull’egoismo e il ricatto monetario ma su forme mature di “autonomia interdipendente”.
* http://www.libreriauniversitaria.it/largo-eros-alato-kollontaj-aleksandra/libro/9788870186970
Roma, 7 Giugno 2009