di Enrico Cocuccioni
«I limiti del mio linguaggio significano
i limiti del mio mondo» (Ludwig Wittgenstein)
Tuttavia, se è vero che l'argomento si presta alle più evasive e inconcludenti generalizzazioni, è anche vero che a volte sentiamo il bisogno di affrontare non già un singolo problema, ma l'ambiente stesso in cui il singolo problema può presentarsi. Vorremmo insomma procurarci una qualche idea orientativa in merito all'intero contesto in cui ci troviamo. Internet diventa allora l'esempio pratico più evidente per proporre in termini di comprensione estetica non tanto questa o quella esperienza, bensì l'esperienza in quanto tale dell'uomo del XXI Secolo. Il Web è una realtà virtualmente condivisa da milioni di persone, per cui riflettere su come questo particolare modo di "interconnettersi" può cambiare il nostro rapporto con le cose è questione tutt'altro che oziosa.
Quel che è in gioco, forse, è proprio un diverso modo di sperimentare il rapporto tra la realtà quotidiana in cui siamo immersi e quell'attività formatrice elementare che presiede alla incessante configurazione delle nostre individuali mappe del mondo. Attività che riguarda in primo luogo la sfera della percezione e la correlata elaborazione mentale del percepito. Ma cosa accade quando percepiamo qualcosa all'interno di un monitor, o meglio dentro il "quadro" di una specifica fenomenologia dell'apparire? È possibile che il nostro comune modo di rapportarci con le cose non si trovi sempre più coinvolto in quelle stesse modalità di pensiero indotte dalla onnipresenza dei media tecnologici? E come ciò potrà influire a lungo termine sulla nostra "visione del mondo"?
Rapporto ineludibile, dunque, di ciascun individuo o di una comunità qualunque, con un più ampio contesto eco-tecnologico, entro cui accade a volte che l'impatto con le nuove "inquadrature" della realtà fenomenica, ovvero con la cornice del percepibile e del rappresentabile, risulti traumatico e imponga quindi una nuova strategia di adattamento all'ambiente. Una nuova tecnologia può dunque provocare pericolosi smottamenti, grandi catastrofi ambientali, ma può anche lasciar emergere nuovi squarci di realtà il cui significato "spirituale" per la nostra condizione presente (in termini, per esempio, di processi creativi sottesi al cambiamento in atto) può essere compreso, o meglio "sentito", presagito sul piano estetico, a partire da un disvelamento preliminare del senso, da una esplorazione preventiva di nuovi equilibri esistenziali (1) e da una conseguente ristrutturazione dell'agire umano che può manifestarsi esemplarmente nell'arte.
L'incontro con l'opera d'arte è, secondo Heidegger, l'incontro con l'evento che segna l'origine stessa di un "mondo storico" (2) e, quindi, il punto d'avvio di una possibile metamorfosi, di una trasformazione dei rapporti abituali con i nostri simili e con la realtà circostante nel suo insieme.
Ma cos'è oggi un'opera d'arte? La critica è chiamata ora a fornire puntuali risposte a questa domanda con riflessioni teoriche ed esempi concreti. I nuovi media appaiono nel nostro orizzonte come qualcosa che sembra perlopiù il graduale e logico sviluppo delle tecnologie precedenti. Tali strumenti rischiano dunque di essere da noi interpretati solo alla luce di quel che già sappiamo, come se fossero senz'altro, fin dall'inizio, presenze del tutto familiari e "naturali", da sempre appartenenti al nostro mondo, ovvero ad una quotidianità di cui ci fidiamo ad occhi chiusi. Così "elettro-addomesticati" da inserirsi agevolmente in una totalità di rapporti preesistenti. E, dunque, con quel tipico aspetto amichevole, rassicurante, di ciò che si "autopromuove" nei termini di una sostanziale conferma, per l'utente, circa l'adeguatezza delle mappe del mondo che egli ha già elaborato.
L'arte, invece, ha un effetto spaesante su di noi e mostra l'impatto epocale (lo Stoss: l'urto, la scossa in senso heideggeriano) sull'intero contesto antropologico, dell'alterità dell'essere che in essa si dischiude, e precisamente nei modi di un peculiare e fondante "porsi in opera". Oggi tale tendenza della verità a storicizzarsi nell'opera può essere considerata - perché no? - anche in relazione all'avvento delle nuove tecnologie produttive nei diversi campi della ricerca: sia nelle arti che nelle applicazioni del design.
Uno strano disvelamento, quello della verità nell'arte: se accade è pur sempre nei termini paradossali di una "illuminazione" che presume, al contempo, il singolare occultarsi della propria istanza fondante. Un mostrarsi dell'ente che è, insieme, un sottrarsi dell'essere nel quieto riserbo di una determinatezza "terrestre". Un evento perturbante che, proprio in quanto si presenta come inatteso e imprevedibile, supera nel suo palesarsi quella soglia dell'assuefazione che ci fa confidare abitualmente sul pieno controllo e sulla presunta neutralità dei nostri più consueti strumenti operativi e conoscitivi.
Scopriamo allora con stupore, come se non ci fosse stato mai dato dall'arte alcun preavviso, che siamo fatalmente impreparati ad affrontare le rischiose conseguenze ad ampio raggio dell'odierna espansione senza limiti del dominio tecnico, nonché le implicazioni etiche dei nostri stessi atti riferibili all'uso maldestro dei sempre più potenti e complessi strumenti che ci troviamo a maneggiare (3).
Ma appunto per questo l'arte sollecita nella cultura contemporanea l'apprendimento di nuove modalità operative e una approfondita riflessione transdisciplinare su di esse. Come aveva già intuito McLuhan, l'arte (che nell'età della tecnica è sempre, per definizione, "sperimentale") disvela così un "controambiente" (4) che ci consente di comprendere meglio proprio l'ambiente in cui già siamo. I tradizionali confini disciplinari non possono che entrare in crisi a seguito dell'impatto di strumenti ipermediali sempre più leggeri, diffusi e facili da usare. Il suggerimento di René Berger è che per affrontare questo nuovo contesto occorre spingersi verso l'evocazione di una dimensione transculturale e oltredisciplinare che egli mette in relazione non già con i tradizionali paradigmi metafisici e umanistici, bensì con l'apparire di una inedita costellazione dell'Oltreumano di cui è per ora assai arduo definire i contorni (5).
Nella interpretazione heideggeriana l'arte non è un valore in sé come per Nietzsche (che vedeva in essa la liberazione da ogni verità che non si dimostrasse utile agli interessi vitali del Superuomo o all'espansione incondizionata della sua volontà di potenza). Ma, al contrario, per Heidegger l'arte è una potenzialità creativa di cui il soggetto umano non può disporre a suo piacimento, proprio in quanto implica il rapporto costitutivo dell'Esserci con uno svelamento originario della verità. Del resto, persino all'interno del più radicale costruttivismo novecentesco, gli artisti hanno spesso avvertito il senso di una Necessità, prima ancora che di una presunta libertà totale dell'arte.
Ma se l'arte è ben più che una mera "risorsa creativa", se lo spazio dell'arte è quella inaugurale apertura, quella radura luminosa in cui può mostrarsi l'evento inatteso di una rivelazione del senso più autentico e profondo della realtà in cui viviamo (e se la Terra che abitiamo non è solo il "fondo" che si rende disponibile per la costruzione del Nuovo o per l'affermarsi di una incondizionata "potenza dell'installare"), allora l'arte può essere ancora il luogo di un disvelamento che investe anche l'essenza della tecnica, al punto da consentirci di ricercare un confronto libero persino con le vincolanti esigenze produttive dell'apparato tecnologico. Se dunque ci manteniamo in rapporto con quella dimensione poetica entro cui la "verità" si manifesta come "evento storico", possiamo forse comprendere i limiti contingenti di una visione puramente strumentale delle risorse terrestri. Una simile comprensione estetica non si pone come una banale soluzione romantica alla "questione della tecnica": essa non fa appello esclusivamente alla sfera dell'interiorità o alla psicologia dei sentimenti, si tratta bensì di un presupposto da mettere in pratica più che da enunciare teoricamente.
In altri termini, nessun decisivo cambiamento nelle nostre "forme di vita" può avvenire senza l'esperienza concreta di una operatività diversa da quella che riduce ogni atto creativo alla risoluzione di un problema o al perseguimento di un determinato obiettivo. Si tratta insomma di una condizione preliminare affinché la cosiddetta età della tecnica non si assolutizzi. Non si presenti, cioè, come la più appropriata ed esaustiva determinazione dell'ambito umano, nonché come il nostro unico orizzonte possibile. Ma è bene sottolineare che l'essenza della tecnica, per il filosofo, si pone come qualcosa d'altro rispetto alla tecnica comunemente intesa: una volontà di dominio che può affermarsi solo sulla base di alcune premesse "metafisiche"(6).
Tale necessario disvelamento, insomma, non può darsi semplicemente all'interno delle categorie della razionalità astratta, del pensiero calcolante, ovvero della logica stessa che presiede alle categorie della tradizione metafisica dell'Occidente su cui si fonda il moderno dominio tecnico del mondo. Ma può essere solo, se abbiamo ben inteso il discorso di Heidegger, un disvelamento autopoietico in senso ontologico che presume il sentimento avvolgente di alcuni stati d'animo fondamentali, ovvero una precomprensione emotiva o intuitiva del rapporto con la totalità del contesto entro cui ci muoviamo; un coinvolgente incontro sensoriale (estetico) con l'intimità e la singolarità delle cose presenti; una esperienza estatica e apofatica (basata cioè sull'ascolto meditativo) dell'autorivelazione dell'essere nel linguaggio (un linguaggio che non si lascia dominare dall'io parlante, ma da cui siamo bensì "parlati", come ha da tempo suggerito una ben nota riformulazione psicanalitica di Lacan dell'assunto heideggeriano, secondo la quale, dunque, l'alterità dell'essere s'identifica in qualche modo con la topologia freudiana dell'inconscio).
Insomma, il confronto decisivo con la tecnica può essere solo quello attuato all'interno di una vera e propria prassi artistica (non già tecnica in senso stretto né esclusivamente teoretica). Mentre il mito del superuomo nicciano è destinato a risolversi nella logica della pura organizzazione, del corpo collettivo o delle "corporazioni"(7), fino a coincidere con quel grande apparato tecnologico evocato dagli odierni discorsi sulla "globalizzazione" (quel mondo, insomma, già inteso con grande lungimiranza da Nietzsche come entità sovraindividuale, totalizzante, anonima opera d'arte planetaria che non ha certo più bisogno degli artisti per "partorire se stessa"); per contro, le figure dell'Oltreumano che emergono dalla trasfigurazione della tecnologia nell'arte lasciano bensì intravedere fin d'ora la possibilità di un orizzonte diverso che però solo in poche tracce e in rare occasioni sembra poter essere testimoniato nel presente.
In quanto evento illuminante-nascondente, nonché operoso abbandono all'ascolto del linguaggio dell'essere, l'apparire dell'opera d'arte implica un operare che non "produce" semplicemente nuove cose, bensì "raccoglie il testimone", per così dire, di un più essenziale processo creativo: il puro movimento della trasformazione nell'Altro in cui il Sé consiste e in cui, paradossalmente, esso ritrova la propria Origine (8). L'uomo non è dunque l'origine, non è il creatore: è semmai il "pastore dell'essere", ovvero colui che "si adopera" per accogliere degnamente ciò che sopraggiunge come evento, nonché per vigilare affinché il processo in atto giunga presso la soglia del suo ideale compimento. Lo spazio dell'arte è appunto quello in cui, solamente, può annunciarsi l'imminente irruzione di una nuova sensibilità, intesa ora poeticamente come un "sentire oltreumano".
Un sentimento che per ora, forse, può apparire solo nel chiaroscuro di una incerta premonizione, tanto più se riferita agli ambiti ancora troppo separati e circoscritti delle odierne audiovisioni tecnologiche. Anche il tradizionale mercato dell'arte finirà probabilmente per subire profonde trasformazioni a partire dalla crescente consapevolezza delle implicazioni sistemiche del concetto di "rete" che sostanziano il suo stesso definirsi, appunto, come "sistema dell'arte".
Già nel 1972, come ci ricorda Francesco Poli, il critico Lawrence Alloway pubblicò su "Artforum" un articolo intitolato «Rete: il mondo dell'arte descritto come un sistema». Non è dunque solo Internet, o le neotecnologie in quanto tali a rendere inevitabile questa trasformazione, ma sarà probabilmente il medesimo sistema (economico e culturale) che ha reso possibile lo sviluppo di queste tecnologie a richiedere prima o poi una versione in chiave telematica anche dei settori trainanti del mercato dell'arte.
Le applicazioni informatiche e il ciberspazio non sono affatto entità nate dal nulla, ma sono il frutto di ricerche collettive mirate, sviluppate all'interno di una visione tecnoscientifica basata perlopiù su teorie cibernetiche e sul modello ipotetico del funzionamento connettivo e, appunto, sistemico della mente umana. A loro volta queste applicazioni innescano processi circolari di feedback che perturbano sensibilmente quegli stessi equilibri culturali omeostatici (tendenti cioè a mantenere costante la loro organizzazione, al pari degli organismi viventi) su cui si basano anche i nostri criteri d'identità, le "forme simboliche del pensiero", nonché i "giochi linguistici" delle relazioni interumane.
Il rapporto tra le visioni teoriche, tecnoscientifiche ma anche artistiche, e le relative applicazioni tecnologiche rese concepibili a partire da tali visioni anticipatrici, appare dunque ormai come un rapporto alquanto complesso, circolare, ricorsivo: un intreccio inestricabile di interdipendenze e d'influenze reciproche. Ecco allora che, anche senza alcun riferimento esplicito alla dimensione della rete telematica, già in una semplice prospettiva di analisi sociologica dell'attuale sistema dell'arte «...l'artista obiettivamente non risulta essere l'unico creatore dell'opera d'arte, ma solo uno degli agenti nel processo di realizzazione di questo specifico prodotto allo stesso tempo culturale ed economico...» (9).
Stiamo forse andando verso esperienze artistiche sempre meno riconducibili alle pratiche espressive convenzionali ma neppure confinabili entro le più o meno recenti specializzazioni "tecniche" (video, computer art, installazioni, performances ecc.). Le vecchie distinzioni rigide, ad esempio tra le cosiddette arti "autografiche" e le moderne discipline progettuali del design, perderanno forse sul piano critico gran parte della loro consolidata ragion d'essere, soprattuto se viste in relazione al diffondersi di nuove modalità operative basate sul paradigma connessionista della rete.
Ipotesi di lavoro ancora poco esplorate come tali, ma già praticabili nei termini di una qualche coscienza sovraindividuale dell'arte capace di produrre inedite forme corali di sintonia creativa, di autoregolazione estetica ed ecologica delle interazioni umane basate sulla qualità del rapporto invece che sul "dominio tecnico" di quella logica della separazione che può spingere il singolo artista verso l'illusione di una totale autosufficienza creativa. La versatilità degli strumenti ipermediali favorisce, infatti, l'insorgere di stati d'ingenua euforia: un senso di onnipotenza che in realtà non riesce quasi mai ad affrancarsi dalla condizione alienata di un isolamento solipsistico ben lontano da una effettiva condivisione di esperienze tra più soggetti ("autosegregazione" e ripiegamento nel privato che pure rappresentano un pericolo evidente della dimensione telematica).
Ecco allora l'idea della rete al centro di una nuova utopia estetica: trasformare il vecchio mito dell'autorealizzazione del soggetto, nonché il classico traguardo ideale del compimento dell'opera, in una ben più ambiziosa possibilità, per l'umanità intera del XXI Secolo, di condividere le premesse culturali di una comunità dell'arte che sia davvero in grado di oltrepassare le mura fortificate dell'antica cittadella umanistica. Spazio prospettico che ha dato i natali alla moderna figura dell'artista. Mitica incarnazione di una soggettività sovrana, intesa appunto quale "misura di tutte le cose". Oggi però sappiamo che assegnare un "valore" centrale al soggetto umano comporta il paradossale effetto di privarlo della sua reale dignità (10). Riusciranno coloro che hanno visto dissolversi nel Novecento gli ultimi sussulti vitalistici di una soggettività egocentrica e cartesiana ad «abitare poeticamente» il nuovo Mondo? (11).
Roma, Marzo 2000
Note
(1) Sull'arte intesa come esplorazione preventiva di nuovi assetti ambientali e antropologici si veda il libro di Mario Costa, L'estetica dei media, Castelvecchi, Roma 1999. Secondo l'autore, che tra l'altro riprende e porta alle estreme conseguenze le riflessioni di Heidegger e McLuhan su temi analoghi, «...la tecno-scienza attuale ha costituito un'ormai imprescindibile ecologia tecnologica del pensiero e dell'immaginario». Per cui «...le vicende dell'immaginario non sono più distinguibili dalle tecnologie alle quali esso è inestricabilmente radicato e che ne hanno largamente condizionato il divenire e le forme» (p.28). Di qui il ruolo svolto dall'arte sperimentale: «Il lavoro delle avanguardie consiste nel tentativo di approntare una serie di risposte alla nuova situazione: si tratta, da un lato, di indagare nella logica oggettiva dei nuovi mezzi per lasciar trasparire le possibilità estetiche cui essi permettono di accedere, e si tratta, d'altro lato, di prefigurare, più in generale, dei modelli di adattamento adeguati e funzionali alle mutate condizioni antropologiche» (p.27).
(2) Cfr. Martin Heidegger (1950), «L'origine dell'opera d'arte» in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968.
(3) Il recente libro di Umberto Galimberti su "Psiche e Techne" inizia con il riferimento ad una notazione di Heidegger relativa all'ipotesi che l'aspetto più inquietante della nostra epoca non consista tanto nel completo dominio del mondo da parte della tecnica, quanto piuttosto nella probabile circostanza che l'uomo non sia affatto preparato al confronto adeguato con quel che emerge in questa nuova situazione. Di qui la diagnosi proposta da Galimberti: «Nata sotto il segno dell'anticipazione, di cui Prometeo, "colui che pensa in anticipo", è il simbolo, la tecnica finisce in questo modo col sottrarre all'uomo ogni possibilità anticipatrice, e con essa quella responsabilità e padronanza che deriva dalla capacità di prevedere. In questa incapacità, divenuta ormai inadeguatezza psichica, si nasconde per l'uomo il massimo pericolo, così come nell'ampliamento della sua capacità di comprensione la sua flebile speranza». Cfr. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, (p.48).
(4) Cfr. Marshall McLuhan, «I vestiti nuovi dell'imperatore» in Le radici del cambiamento, Armando Editore, Roma 1998, pp.125-150. La tesi qui esposta dal famoso massmediologo è appunto la seguente: «l'artista ci fornisce controambienti che ci consentono di vedere l'ambiente» (p.140).
(5) René Berger, Il nuovo Golem.Televisione e media tra simulacri e simulazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992. L'intimo connubio tra la macchina e l'uomo diviene ormai sempre più esplicito. L'ineluttabilità di tale fusione biotecnologica si palesa oggi anche nell'immaginario dischiuso dall'orizzonte dei nuovi media. Nonché, ovviamente, negli sviluppi prevedibili dell'Artificial Life e della manipolazione genetica. Scenario che pone in gioco il tema dell'imminente scomparsa dell'umanità o, quanto meno, dell'oltrepassamento della nozione di umanità come è stata finora intesa dalla nostra tradizione culturale. «Ma - si chiede Berger - la scomparsa è anche comparsa, altrove? In un altro modo?». Subito dopo la pubblicazione del libro di Berger abbiamo peraltro assistito, anche negli eventi dell'arte e nella riflessione critica più aggiornata, all'affermarsi delle poetiche del cosiddetto Post-Human. Tali tendenze testimoniano, sia pure talora in forme quasi caricaturali, una crescente sensibilità per questi temi e una sempre più diffusa consapevolezza culturale dei cambiamenti in atto. Si tratta di fenomeni che, comunque, sembrano andare proprio nella direzione indicata dall'autore del «Nuovo Golem».
(6) Cfr. Martin Heidegger, «La questione della tecnica» in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976.
(7) Si veda il commento di Heidegger al seguente aforisma di Nietzsche: «L'opera d'arte, dove essa appare s e n z a artista, ad esempio come Corpo, come Organizzazione (il Corpo degli ufficiali prussiani, L'Ordine dei Gesuiti). In qual modo l'artista è soltanto il primo passo. Il mondo come opera d'arte che partorisce se stessa...», in Sentieri interrotti, op. cit. p.221.
(8) Sul significato paradossale ed enigmatico di tale affermazione (che può forse richiamare alcune note formulazioni hegeliane), riportiamo qui un illuminante frammento di conversazione tratto dal seminario tenuto da Heidegger e da Hoseki Shinichi Hisamatsu all'Università di Friburgo il 18 maggio 1958:
HISAMATSU: «Nell'arte Zen la capacità ha un duplice significato: in primo luogo, l'uomo è condotto dalla realtà all'origine della realtà: l'arte è una via con la quale l'uomo è introdotto nell'origine; in secondo luogo, l'arte trova senso nel fatto che l'uomo, una volta introdotto nell'origine, ritorna alla realtà. L'essenza autentica dell'arte Zen consiste in questo ritorno». (...)
HEIDEGGER: «Nell'arte est-asiatica non è prodotto nulla di oggettuale che operi sullo spettatore. Insieme, l'immagine non è un simbolo, un emblema; piuttosto, io eseguo in colore, per iscritto, il movimento verso il Sé».
HISAMATSU: «Nell'azione, l'essenza di una linea segnata non sta nel carattere-simbolo, bensì nel movimento. Concordo pienamente con questa concezione del movimento. L'opera d'arte non è un oggetto, dietro il quale ci sia un significato o un senso; è piuttosto immediato operare, movimento. Ma finché si parla del pervenire nel movimento dell'origine stessa, non si è più o non si è ancora nell'origine. Se si è nell'origine allora il movimento muove se stesso».
Il testo sopra citato è tratto dal libro di Carlo Saviani, L'Oriente di Heidegger, Il melangolo, Genova 1998, pp. 100-102.
(9) Francesco Poli, Il sistema dell'arte contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari 1999, p.167.
(10) Martin Heidegger (1946), Lettera sull'umanismo, Adelphi, Milano 1995. «...Proprio quando si caratterizza qualcosa come "valore", ciò che è così valutato viene privato della sua dignità. Ciò significa che con la stima di qualcosa come valore, ciò che così è valutato viene ammesso solo come oggetto della stima umana. (...) Ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l'ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare. Lo strano sforzo per dimostrare l'oggettività dei valori non sa quello che fa». (pp.82-83).
(11) L'evocazione di una "via del costruire poetante e pensante" è nelle righe conclusive del celebre testo di Martin Heidegger, «Oltrepassamento della metafisica», in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p.65.