di Alessandra Cigala
L'ultima edizione della Biennale di Venezia, nata nel segno delle ILLUMInazioni, si è appena conclusa e forse solo adesso, con la giusta distanza, si può provare a riflettere sull'intera manifestazione e sul senso stesso di cui si caricano eventi di questa portata.
Più di 400.000 visitatori, sei mesi di "occupazione" permanente della città, in una galassia di mostre, padiglioni nazionali, eventi collaterali, come avviene ormai da qualche anno, che trasformano la città e l'intera laguna in una formidabile macchina espositiva che rischia sempre più di diventare una sorta di grande parco a tema dell'arte contemporanea. Del resto il pericolo di "disneylandizzazione" aleggiante sulla Biennale era stato già evocato nel 2005 da Antoni Muntadas, nell'installazione On translations: Giardini, al centro del Padiglione spagnolo, dove a una precisa contestualizzazione storica sulle origini dell'Esposizione Internazionale d'Arte nell'ambito delle varie Esposizioni Universali fin-de-siècle, con un accento posto sul mettersi in mostra delle singole nazioni partecipanti, si accompagnava una lettura che vedeva nella Biennale così come era stata concepita alle sue origini una sorta di luogo immaginario dell'arte, al pari del Paese delle Meraviglie, della terra del Mago di Oz o delle contemporanee città del desiderio, le Disneyland dell'attuale mondo globalizzato.
Indubbiamente la struttura stessa del nucleo storico principale della Biennale, gravitante intorno ai padiglioni dei Giardini, riflette un modello obsoleto, ma non privo di fascino. Proprio per questo, negli anni, la manifestazione si è aperta sempre di più al nuovo, alla mescolanza, alle letture tematiche proposte dai curatori negli spazi dell'Arsenale, sempre più estesi, a partire dalle mostre di Aperto fino alle ultime acquisizioni odierne, in un pullulare di luoghi in città che sono ponti gettati verso altre culture e identità. Nel bel saggio in catalogo di Beat Wuss e Jorg Scheller, Il Bazar di Venezia, viene ripercorsa tutta questa storia per arrivare a definirne l'essenza nella "sublimità del globale", nel senso del sublime kantiano, del "piacere negativo" che si prova da un'esperienza attraente che contemporaneamente atterrisce per la sua grandezza, un'esperienza che si può vivere proprio nell'eccesso di visibilità della Biennale che paradossalmente, proprio per questo, si trasforma in invisibilità. Il suo essere diffusa, immensa ed eterogenea ne fa una rappresentazione plastica della globalizzazione contemporanea, rendendone impossibile un'esperienza di visione e comprensione totale, "come una luce abbagliante che acceca" (in ILLUMInazioni, p.28).
Ed ecco che allora, nel quadro di questa sublimità del globale che ormai attiene a manifestazioni come la Biennale, la curatrice dell'edizione appena conclusa, Bice Curiger, ha spostato l'accento provocatoriamente sul mosaico delle nazionalità che la compongono, le nazioni (in minuscolo) del titolo, favorendo una visione comparativa delle varie sfaccettature del globale. Partendo dall'assunto che nessun direttore artistico, pur investito di un ruolo sempre più demiurgico, può eguagliare la competenza dei singoli curatori nazionali nel documentare l'arte del proprio paese, Bice Curiger ha proposto una riconsiderazione della vitalità dei differenti e variegati apporti che le diverse culture, le diverse identità fanno confluire in questo enorme blob sullo stato dell'arte che la Biennale veneziana propone a cadenze fisse. Ma, proprio per fugare dubbi e critiche su quello che potrebbe essere inteso come un anacronistico ritorno al catalogo delle rappresentazioni nazionali dell'arte, la curatrice ha inserito l'elemento drammaturgico dei para-padiglioni, per sparigliare le carte, rompendo il flusso regolare di visita alla mostra, rappresentando un'altra prospettiva espositiva e mettendo in relazione - ma anche in tensione - l'opera di chi ha progettato il contenitore con chi è stato chiamato a esporvi. Una rivisitazione, quindi, del concetto di nazionalità, intesa come "differenza", in un'ottica che ha tenuto conto di quale ruolo ancora giochino le nazioni per definire concetti quali identità culturale, singolarità, a dispetto e nonostante la globalizzazione che sembra omologare e omogeneizzare tutto.
Nella visione allargata di Bice Curiger gli artisti sono visti come gli abitanti di un'unica nazione mentale che non abbraccia solo nord e sud, oriente e occidente del mondo, ma si estende a comprendere passato e presente. La mostra nasce infatti nel segno di Tintoretto, della luce-folgorazione che squarcia le sue tele, la luce-epifania che illumina improvvisa l'oscurità, la luce che si riverbera e illumina gli spazi dei suoi teleri. Un omaggio a Tintoretto, l'anticlassico, l'irregolare, il pittore manierista che fa lampeggiare le sue pennellate rapide in spazi sempre più arditi. Tintoretto, quindi, come genius loci, con cui confrontarsi, a cui dedicare una mostra che vuole anche suggerire quanto l'arte possa ancora illuminare il nostro mondo.
E veniamo perciò alle ILLUMI (in maiuscolo) nazioni del titolo, che ci riportano al significato che attribuiva loro Benjamin: "immagini che guizzano via e che illuminano per un istante il presente", come la luce di un lampo che balena nel cielo notturno. Lo stesso shock percettivo dello straniamento, della decontestualizzazione, della citazione che, come scrive Sklovskij, "muta il riconoscimento in visione". Così usati da artisti e poeti per il loro potere spaesante, perturbante. Per la funzione di contrastare il flusso dell'abitudine, della quotidianità dell'esistente. Scintille che illuminano, inaspettate, le nostre vite. Lampi magici che spezzano le catene della consuetudine, dando alle immagini nuovi pensieri. È a questa indispensabile funzione dell'arte che probabilmente Bice Curiger pensava nel comprendere sotto il polisemico e beneagurante titolo ILLUMInazioni la selezione di artisti per la mostra. Non sono sembrate però troppe le opere capaci di accendere folgorazioni, molte quelle che tautologicamente facevano riferimento alla luce, poche quelle in grado di stabilire una corrente di attrazione, di coinvolgimento, o, per dirla con Barthes, di "pungere", di "avvenire", di "animare". A illuminare un itinerario che si snodava tra gli elementi primari della luce e dell'acqua, intrecciandosi con i temi del tempo, del limite, del confine e del suo superamento, del viaggio.
La luce è stata spesso citata, protagonista di molte opere, a partire dalla "dedica" minimalista di Monica Bonvicini alla Presentazione di Maria al Tempio di Tintoretto, custodita nel silenzio della chiesa della Madonna dell'Orto, vicino alla tomba dove riposano le sue ceneri, viatico ideale per intraprendere questo viaggio. Diventava davvero "illuminante" nel disorientamento percettivo dello straordinario Spazio elastico di Gianni Colombo, qui ricostruito per un omaggio postumo dopo più di quarant'anni dalla sua prima apparizione alla Biennale, per accogliere i visitatori del Padiglione Centrale. Interminabili file di persone hanno atteso pazientemente di camminare nella luce cangiante di The Ganzfeld Piece, annegando nello spazio colorato, prive di punti di riferimento, per provare quel "vedere nel sentire" che James Turrell persegue tenacemente modellando i suoi spazi di luce. Ma, per quest'opera, più che di "illuminazione", nonostante l'effetto perturbante, è forse il caso di parlare di "rivelazione". Al contrario, la luce chiara delle piccole fotografie di Luigi Ghirri, i suoi Paesaggi di cartone, con lieve tocco poetico e spaesante riesce davvero a farci trovare per gli oggetti e le immagini "nuovi pensieri".
Alla luce ideale di bellezza nell'estetica occidentale si è contrapposto il concetto tutto orientale di "pervasività", nella delicata messa in scena polisensoriale del Padiglione cinese che dagli spazi interni delle Artiglierie si espandeva sul prato antistante (Pervasion). Lo spargersi degli aromi diffusi nell'aria, partendo da una fusione tra gusto e olfatto arrivava a coinvolgere tutti i sensi, avvolgendo i visitatori in un'esperienza sinestetica unica: le nuvole bianche alla fragranza di tè posate sull'erba (Cloud-Tea di Cai Zhisong), i vapori profumati d'incenso che come una nebbia a intervalli regolari nascondevano alla vista le Artiglierie per un'immersione in un'atmosfera ovattata (Empty Incense di Yuan Gong), gli odori delle erbe medicinali che emanavano dalle migliaia di vasetti in terracotta, impregnando l'aria pur non essendo visibili (All Things are Visible di Yang Maoyuan), il colore e l'aroma del liquore pompato in una sorta di trasfusione meccanica (I Plead: Rain di Liang Yuanwei) e infine l'opera che più ha fatto riflettere sull'incontro tra le nostre culture, Snow Melting in Lotus di Pan Gongkai. Sulle pareti di un lungo tunnel una nevicata di lettere luminose dell'alfabeto occidentale si posava leggera su cespi di fiori di loto appassiti tracciati con inchiostro di china, per poi scomporsi a terra. In una videoproiezione continua i caratteri occidentali illuminavano i tradizionali fiori di loto orientali di una luce bianca, ma cadendo si frantumavano, si confondevano. Sono stati qui sintetizzati i due diversi punti di vista nell'approccio alla cultura dell'altro: l'Ovest guarda all'Est ancora e sempre in chiave di penetrazione, l'Est ha un'altra prospettiva, quella dell'assorbimento, della mescolanza, della rielaborazione. Della pervasività, appunto. Cinque opere quanti sono i Cinque Sapori, parte integrante di quei Cinque Elementi sui quali si fonda l'origine del tutto, secondo l'antica cultura cinese. Ma anche un riferimento alla frase "Cinque sapori" che tutto tiene in sé, fondendo le diversità fra loro e alludendo alla ricomposizione armonica tra universale e particolare.
Un altro tipo di viaggio tra due culture ci è stato raccontato da due sorelle, Raja e Shadia Alem, una scrittrice, l'altra artista, nel Padiglione dell'Arabia Saudita. The Black Arch, la nera porta che in un'antica fiaba araba era preclusa alla principessa, perché si apriva sulla pericolosa e inconoscibile realtà esterna, dava il titolo alla grande installazione delle Corderie. È un viaggio dell'anima, tra passato e presente, tra oscurità e luce, tra due città antiche attraversate da genti diverse, La Mecca e Venezia. Ispirata a Marco Polo e alle Città invisibili di Calvino, ha portato a Venezia un pezzo de La Mecca con la presenza del nero ricorrente, come il telo che ricopriva un lato dello specchio ellittico, chiaro richiamo al telo della Ka'ba, alle vesti delle donne saudite, alla pietra nera. Dall'altro versante dello specchio si riflettevano ancora presenze ricordo dei luoghi d'origine: un cubo specchiante in equilibrio su un lago di ciottoli/sfere riflettenti, un flusso d'immagini proiettate con i colori de La Mecca, il brusìo dei pellegrini, il richiamo del muezzin, mescolate alle figure dei visitatori della mostra. Ma il baluginare delle sfere specchianti (di nuovo un'illuminazione) rimandava ai luccichii delle onde di un mare che dall'Arabia conduce a Venezia porta d'Oriente e allora le immagini proiettate mutavano: si susseguivano dettagli di mosaici, di dipinti, e come colonna sonora il vociare e le risa dei turisti. Viaggiare, sin dai tempi di Marco Polo, ha significato gettare ponti fra culture diverse, lasciandosi ispirare, come le due sorelle Alem nel loro itinerario da La Mecca a Venezia.
C'è poi un altro orizzonte del viaggio particolarmente frequentato in questa mostra, quello romantico dell'impresa titanica. Evidente sin dall'ispirazione a Fitzcarraldo nella lunga azione di Thomas Huber e Wolfgang Aichner (GAEG), Passage 2011. An actionistic transalpine drama, qui documentata fotograficamente: l'attraversamento delle Alpi con una barca rossa costruita con le proprie mani da varare in laguna nei giorni d'inizio della Biennale. Dello stesso tenore il mettersi in cammino di Giorgio Andreotta Calò da Amsterdam a Venezia, sua città natale, un Ritorno evocato dalle sue parole che risuonavano nello spazio vuoto del Giardino delle Sculture di Carlo Scarpa. Più visionario At the Back of the North Wind di Anton Ginzburg, che ci portava alla scoperta del mitico paese di Iperborea in una iperdocumentata spedizione immaginaria.
L'andare oltre, il superamento del limite può riguardare anche i confini mentali, come nei video di Sigalit Landau, nel Padiglione israeliano, invaso da un sistema di enormi tubature dove si sentiva scorrere l'acqua, come se idealmente dalla laguna fosse stata convogliata in quelle terre dove è così preziosa e contesa. Come contesa è la terra stessa. In una videoproiezione sul pavimento si potevano vedere degli uomini intenti a un passatempo che gioca proprio con l'idea di confine: a seconda del lancio di un coltello sulla sabbia, la linea dei confini immaginari dei loro "paesi" era continuamente cancellata e ridefinita. Il titolo del video è Azkelon, un'ibridazione tra Aza (la Gaza palestinese) e Ashkelon, israeliana: due città che condividono una spiaggia - e anche un gioco - ma sono separate da un confine. L'artista israeliana è tornata più volte su questo tema - in Mermaids (Erasing the border of Azkelon), in Dancing for Maya - e del resto il senso di un confine come linea che divide e rende esplicita l'incomunicabilità fra due popoli è già tutto nel titolo dell'intero progetto per il Padiglione di Israele: One Man's Floor Is Another Man's Feelings, il pavimento, ma anche il suolo, di un uomo è il soffitto, ma anche il sentimento di un altro, con un gioco di parole tra ceiling e feeling. Incomunicabilità e lacerazioni ribadite dall'uso di metafore come acqua, sale, angurie spaccate come rosse ferite aperte.
L'acqua ha inondato il Padiglione greco e si procedeva nella penombra silenziosa su passerelle in lieve salita fino alla luce piena che ci attendeva all'uscita, una metafora ascetica quanto un'architettura di Tadao Ando sulla difficile recessione greca, un'immagine pura regalataci da Diohandi. L'artista greca, con il suo intervento radicale sull'intero Padiglione della Grecia, Beyond Reforme (ne è stato alterato anche l'esterno: la ricca facciata di ispirazione bizantina si intravedeva appena tra le fessure della recinzione da "lavori in corso"), ha immaginato che l'"acqua alta" della marea lagunare fosse arrivata fin qui e per rendere praticabile l'attraversamento del suo paese fosse necessario servirsi delle passerelle così familiari ai veneziani. Un percorso di disagio, in salita, ma ce la si può fare. La purezza minimale degli spazi e l'uso essenziale degli elementi acqua e luce ne hanno fatto una delle opere più alte di questa Biennale.
Poco distanti, le acque di dodici mari del mondo scorrevano fragorose sulle chiglie di dodici nere ed enormi imbarcazioni conficcate verticalmente al suolo della mezzaluna del Padiglione Venezia: erano i Mari verticali di Fabrizio Plessi. Nel flusso continuo delle onde si mescolavano i suoni, invitandoci al viaggio. Più lontano, nella mostra collaterale One of a thousand ways to defeat entropy all'Arsenale Novissimo, le acque di otto cascate apparivano per poi scomparire alternativamente su otto schermi sospesi (Octfalls), una sorta di giardino giapponese digitale per contemplare il flusso del tempo, come spiegava Ryoichi Kurokawa.
L'acqua è ritornata poi con ironia come genius loci di Venezia nella macchinosa installazione ambientale di Ayse Erkmen nel Padiglione turco alle Corderie, Plan B. Il piano B è notoriamente quello di riserva, alternativo al piano A, quello prioritario. Abbastanza surreale appariva quindi il complesso macchinario per la trasformazione dell'inquinatissima acqua della laguna in acqua potabile, un intricato sistema di tubi colorati e filtri tra cui si aggiravano divertiti i visitatori, che ricordava su scala gigante le Macchine inutili di Munari, esemplare metafora dell'inanità di simili progetti: l'acqua pulita alla fine del processo tornava infatti alla laguna.
È stato rappresentato ovviamente anche in questa Biennale il versante della ricerca più politica, che non poteva fare a meno di rammentarci che l'acqua è una risorsa prioritaria ma mal distribuita nel nostro pianeta e Acqua ferita (Wounded Water) era infatti il titolo rivelatore del Padiglione dell'Iraq alla sua prima comparsa sulla scena della Biennale.
Ma era la primavera araba la vera protagonista con due presenze. Una davvero toccante, l'omaggio postumo del Padiglione dell'Egitto a Ahmed Basiony, un giovane artista egiziano che ha partecipato attivamente alle giornate di piazza Tahrir filmando e poi caricando in rete tutto ciò che gli accadeva intorno nei primi giorni della protesta, fino a morirne per mano dei cecchini il 28 gennaio 2011, il "venerdì della collera". All'ingresso del Padiglione erano riportate le ultime parole che ha scritto sulla sua pagina facebook, commoventi nella determinazione a continuare pacificamente la lotta nonostante le violenze e all'interno, su una serie di schermi, si potevano vedere le sue riprese della protesta a piazza Tahrir accanto alla documentazione della sua performance dell'anno precedente, 30 Days of Running in the Place, con la rappresentazione visiva del suo sforzo fisico, una corsa sul posto di un'ora per la durata di un mese, rilevata da un sistema di sensori autocostruito sui propri abiti.
L'altra presenza, di ispirazione situazionista, era quella di Norma Jeane, un artista singolo o forse un collettivo che si nasconde dietro il nome reale di Marilyn Monroe e che, al contrario dell'attrice, sfugge i riflettori non rivelando la propria identità e si concentra su lavori di forte impronta politica. Qui ha dato vita a un'opera fortemente ludica e partecipativa: un gigantesco cubo in plastilina che riproduceva in tre strati orizzontali i colori della bandiera egiziana - nero bianco rosso - e allegramente negava la durezza dell'opera minimal con la morbida tattilità e duttilità del materiale scelto, in un invito al pubblico a dargli forma, disperdendolo per l'ambiente, trasformandolo così in un'opera collettiva: # Jan 25 (# Sidibouzid, # Feb 12, #Feb 14, # Feb 17...).
Un'inedita critica fortemente politica a nazionalismo, militarismo e competitività è venuta dal duo Allora & Calzadilla nel Padiglione degli Stati Uniti. Intervenendo surrealisticamente su una catena di associazioni metaforiche e metonimiche ci hanno offerto immagini ironicamente destabilizzanti (Gloria). Prima fra tutte quella che accoglieva i visitatori di fronte all'ingresso del Padiglione nei giorni dell'inaugurazione: sui cingoli di un carro armato rovesciato faceva la sua performance di jogging un campione olimpionico americano, usandoli come un tapis roulant per correre (Track and Fileld, "atletica leggera", in inglese, ma anche allusivo al gergo militare della pista - track - e del campo di battaglia - field). Se la Danimarca consacrava l'intero spazio del suo Padiglione alla libertà di parola (Speech Matters), invitando artisti di diversi paesi con le loro opere politiche e sollecitando i visitatori ad appropriarsi di una sorta di speakers' corner appollaiato come un'altana sull'edificio stesso, il Padiglione dell'IILA - l'Istituto Italo-Latino Americano - ha riletto gli ultimi duecento anni di indipendenza dell'America Latina attraverso lo sguardo di molti artisti che ancora colgono nel presente la passata eredità del passato coloniale (Entre Siempre y Jamas).
Nell'ambizioso intento di sconfiggere l'"oceano di omogeneità" che ci rieserverebbe l'ineluttabile avanzare del processo di entropia, Alexander Ponomarev ha indicato negli artisti negli ingegneri e nei poeti i possibili argini, allestendo all'Arsenale Novissimo una mostra che ha unito arte e tecnologia e, tra le altre opere, ha messo in scena il desolato day after di una tipica casetta suburbana con giardino, indice occidentale di benessere raggiunto, rischiarata appena da una luce flebile, sotto uno strato uniforme di mortifero grigio, come la cenere che ha ricoperto le case e le vite di Pompei dopo l'eruzione del Vesuvio (Hans Op de Beeck, Location 7). Entrava quindi in gioco anche un altro importante elemento, il tempo, così centrale in tante opere presenti alla Biennale. Ne ricorderemo solo poche, le più esemplari.
Come non iniziare dallo straordinario The Clock di Christian Marclay, tutto costruito sul cortocircuito temporale tra passato e presente? Un'opera video della durata di 24 ore, un gigantesco montaggio di brani filmici in cui è presente fisicamente lo scorrere del tempo, nei dialoghi tra gli attori e ancora più di frequente in insistite inquadrature di orologi. Ed è un tempo che coincide all'unisono con il tempo reale della visione, in una simultaneità tra passato e presente che, in senso perfettamente postmoderno, vive il presente citando il passato.
Del tempo, ma ancora di più del caso e della fortuna parlava l'opera di Christian Boltanski nel Padiglione francese, Chance. Come già l'installazione creata per la Fondazione Volume! a Roma poco prima, Sans fin, era una meditazione sullo scorrere del tempo, sulle vite che si susseguono, ognuna una singolarità eppure recante qualcosa di chi ci ha preceduto. Così i visi che ibridavano neonati e anziani già morti scorrevano incessantemente, come la vita e la morte nel mondo, ma il visitatore premendo un pulsante poteva fermare la catena e, casualmente, ricomporre un viso ad unità. Allora entrava in gioco la fortuna, si vinceva l'opera al suono di una musica e lo stesso si è potuto fare sul web per tutti i sei mesi di durata della Biennale. Anche nell'installazione del salone centrale, La ruota della fortuna, scorrevanono rumorosamente e velocemente su un nastro migliaia di fotografie di neonati tra ponteggi di tubi Innocenti. Ogni tanto il nastro, aleatoriamente, si bloccava e su un monitor appariva il volto di un neonato: uno tra mille, il caso aveva scelto lui e lui solo. Ma a prevalere era l'idea dell'incessante sostituzione di vite umane che avviene nel mondo, così mentre scorreva il tempo su due grandi contatori apparivano in tempo reale i numeri dei nuovi nati sulla Terra e di chi è appena deceduto.
L'intenzione nascosta di annullare il tempo della morte e risparmiare al Figlio il destino finale, sostituendosi a lui, era forse presente nella Pietas di Jan Fabre nella Scuola Grande della Misericordia, dove nella michelangiolesca Pietà in marmo di Carrara il volto della Madonna aveva le sembianze di un teschio e a sulle sue ginocchia giaceva adagiato il corpo abbandonato dell'artista, a prendere il posto del Cristo morto.
Il richiamo alla morte, al destino di consunzione del tutto è stato al centro dell'opera di Urs Fischer, che in tre sculture in cera ha fuso il tema del memento mori con quello delle ILLUMInazioni. Una copia del Ratto delle Sabine di Giambologna, il calco del suo amico artista Rudolf Stingel, la sedia del suo studio hanno preso la forma di tre grandi candele, che, rimanendo accese per tutta la durata della manifestazione, si sono trasformate in un ammasso di cera. Un'allusione all'inesorabilità dello scorrere del tempo, alla transitorietà di una mostra, ma anche all'illuminazione dell'arte che, come le fiammelle dello Spirito Santo, ironicamente illumina cose e persone, rinviandoci così al tema centrale dell'intera mostra.
Roma, Dicembre 2011