Partiamo dalla tua recente performance dal titolo "b&w". È un lavoro in cui hai usato anche una videoproiezione che tra l'altro rinviava lo sguardo dello spettatore - mediante la grafica in movimento - all'universo alfabetico della scrittura... Il corpo danzante si stagliava dunque sullo sfondo delle sequenze di tipografia cinetica che troviamo nel video. Immagino che il titolo, "bianco e nero", offra già una chiave di lettura simbolica, connotando forse una ricerca dell'essenzialità espressiva pur nella complessità scenica dischiusa dall'uso dei media tecnologici. Puoi parlarci di questo lavoro?
Sicuramente b&w è un titolo che allude alla mia ricerca di semplicità ed essenzialità espressiva seppure nel complesso contesto della simultaneità dei linguaggi espressivi. C'è un corpo tridimensionale che interagisce con l'universo bidimensionale della grafica del video. Si staglia, come dici tu, sullo sfondo, a tratti si mimetizza e diventa parte del video, gioca con l'elemento scenico di una sedia girevole, ulteriore occasione cinetica, ironica citazione delle innumerevoli sedie partner delle donne platinate e fatali del cabaret tedesco. Stefano David del Brancaleone mi ha chiesto di presentare un nuovo lavoro (è la mia terza performance al Brancaleone) e ho pensato a qualcosa che potesse essere adatto al luogo, al tipo di pubblico, allo spazio performativo (un palco senza quinte - quasi un ring - con uno schermo, che ho chiesto di mettere in basso, all'altezza del palco, perchè facesse da fondale su cui proiettare le immagini). La parrucca dai lunghi capelli platino, il soprabito nero, i tacchi altissimi bianchi, gli occhiali scuri all'inizio della performance servono per creare, un pò ironicamente, un personaggio sofisticato, una dark lady tecnologica che progressivamente si libera dei suoi accessori matrixiani, da locale notturno musical-elettronico, e diventa, oltre l'artificio, un corpo plastico, vivo ed espressivo che respira e danza insieme alla luce, scrive, disegna forme, duettando con le immagini proiettate.
I contributi video e la musica originale della performance sono di Marco Schiavoni, autore delle musiche di scena di alcune tra le più note compagnie di danza italiane ed esperto videomaker. La mia collaborazione con questo artista è iniziata nel 2005 con la performance "Bolero del drago rosso" e prosegue con lo spettacolo "Di qui a cinque anni" dal testo surrealista di Federico Garcia Lorca (che sarà al Teatro de' Servi dal 26 maggio al 6 giugno 2008), in cui la sinergia dei linguaggi espressivi è portata alle estreme conseguenze. Da sola in scena interagisco con attori digitali, spazi virtuali, musica, danza, parola, video.
La tua formazione coreografica è avvenuta in Germania alla Folkwangschule, con i maestri del Wuppertaler Tanztheater di Pina Bausch. La tua successiva esperienza ha riguardato la danza Butô, prima con Yumiko Yoschika a Berlino e poi con Tetsuro Fukuhara a Roma. Puoi riassumere il senso di queste esperienze facendo un bilancio complessivo di ciò che hai appreso da queste particolari concezioni della danza?
La formazione alla Folkwagschule è un'esperienza molto profonda. A Essen non si impara una tecnica definita. Non si esce dalla scuola ballerini classici o esperti in una tecnica di danza contemporanea codificata, sebbene ogni giorno, per quattro anni, si cominci la giornata alle nove del mattino con la classe di balletto e progressivamente si aggiungano le altre numerose materie della scuola (danza moderna, improvvisazione, composizione, folklore europeo, scrittura Laban, musica ecc.). La tecnica classica è necessaria, è la base di una solida preparazione atletica, semplice, musicale, lineare, ritmica, elegante e potente sulla quale costruire (o, in alcuni casi, de-costruire) il più complesso e difficile vocabolario del Tanz-Theater. In linea con le speranze del suo fondatore, Kurt Joos, la Folkwangschule cerca di trasmettere ai suoi allievi una sintesi tra danza classica e danza moderna, tra diversi stili e tecniche, per arrivare a formare un danzatore completo, un interprete versatile, musicale e creativo, forte e preparato, ma libero dai manierismi di ogni singolo stile di danza. Alla scuola di Essen, con i maestri del Wuppertaler Tanztheater (Malou Airaudo, Lutz Forster, Dominique Mercy), ho imparato l'esattezza della forma, definita e leggibile , intagliata con la precisione del diamante; ho imparato che l'esattezza e la leggibilità sono condizioni indispensabili per un corpo che scrive parole drammatiche nello spazio e nel tempo, assolutamente fedele alle proprie motivazioni interiori, alla necessità fondante del movimento. Troppo spesso la danza codificata dimentica le regole di un linguaggio che si muove all'interno di semplici leggi plastiche e dinamiche, ritmo, energia, espressione, e si svuota di significato, perde forza e intensità, diventa puro esercizio di stile, sfoggio di bravura, tecnica fine a se stessa.
Ho conosciuto il Buto per la prima volta a Berlino, negli anni della scuola, partecipando ad un laboratorio di Yumiko Yoschioka. Il linguaggio visionario del Buto, vicino all'espressionismo tedesco degli anni Venti, mi affascinava. A scuola studiavamo molta tecnica e mi sentivo oppressa dalle regole. Il Buto sembrava promettermi quella libertà d'espressione che mi sembrava d'aver perduto a Essen.
A Roma, in seguito, ho lavorato con Tetsuro Fukuhara. Dopo aver conosciuto ed assimilato profondamente il teatro di Pina Bausch diventa molto difficile trovare spettacoli e interpreti di simile intensità espressiva. I danzatori Buto riescono ancora a compiere il miracolo. Per me il Buto significa riuscire ad attraversare con lo sguardo il corpo del danzatore per intuire una bellezza diversa, qualcosa di molto potente e delicato, vitale, vero, emotivo, etico, estetico.
C'è una frase nel tuo sito che mi ha colpito per le sue implicazioni filosofiche: "Imparare a camminare portandosi dietro lo spazio". Mi sembra evidente che qui il presupposto è un'idea dello spazio inseparabile dall'esperienza percettiva e "motoria" di un soggetto in carne ed ossa. In altri termini, il paradigma da te evocato non è quello - più consueto e, per così dire, "oggettivo"- di uno spazio fisico in cui siamo semplicemente immersi o entro cui ci muoviamo. Non si tratta dunque di camminare nello spazio bensì con lo spazio, insieme allo spazio: come se la spazialità in questione fosse una scia impalpabile o un'aura leggera che il corpo danzante può lasciare al suo passaggio (tutt'altra cosa, quindi, rispetto allo spazio inteso come "griglia cartesiana" statica, infinitamente estesa e indifferenziata, ossia priva di qualità locali e specifiche...). È una sottile esperienza percettiva, dunque, a cui inviti i partecipanti ai tuoi seminari...
Sì, con quella frase mi riferisco proprio all'esperienza percettiva dello spazio che ho fatto con il Buto. La Folkwangschule mi ha allenato ad una nuova concezione dello spazio: facendo proprie le ventiquattro direzioni spaziali di Laban, la scuola va oltre la concezione cartesiana del balletto classico, e il corpo è inserito in uno spazio che moltiplica le sue dimensioni. Nonostante la concezione dell'icosaedro di Laban fosse innovativa, il corpo è sempre concepito "nello spazio", all'interno di figure geometriche complesse, attraversato da piani, capace di generare a sua volta complesse figure muovendosi "nello spazio". L'esperienza del Buto è completamente diversa. Trattandosi di una sottile esperienza percettiva è anche difficile da esprimere a parole. Bisognerebbe vedere qualcuno che "cammina portandosi dietro lo spazio" per capire. Intorno al corpo del danzatore, che si fonde con lo spazio, si crea un campo magnetico, impalpabile ma molto denso. L'esperienza può essere approfondita all'infinito in una direzione che si avvicina sempre più alle tecniche esoteriche.
La "questione della tecnica" si pone dunque anche nel microcosmo della tua esperienza coreografica... Il filosofo Martin Heidegger vedeva nel mondo attuale il serio pericolo che il dominio tecnologico dissolva la nostra essenza più autentica, per cui diceva che occorre ritrovare il senso profondo - o, per così dire, "poetico" - della "Tecnica" (che nel pensiero greco antico aveva il significato anche di un "disvelamento"...), e sosteneva che a questo diverso modo di concepire la tecnica si potrà risalire solo attraverso l'arte. Nel caso della danza, immagino che il problema sia quello di superare una concezione esclusivamente "biomeccanica" del movimentio corporeo e di ritrovarne invece le radici espressive interiori, i moventi più "autentici" proprio in quanto legati alla singolarità creativa del soggetto danzante... Ma nella danza quale verità originaria può "disvelarsi", secondo la tua visione, attraverso questo ipotetico superamento di un controllo puramente "tecnico" dei propri mezzi espressivi?
Continuiamo a parlare di esperienza percettiva quasi esoterica. La verità originaria contenuta in ogni essere vivente (e anche nelle cose inanimate) è una specie di "polvere di stelle". Ogni particella dell'universo contiene tutto l'universo. In ogni cosa esistente c'è come un DNA universale, una legge che governa tutte le cose. Attraverso l'esperienza della danza si può toccare questa essenza e, grazie al controllo della tecnica, è possibile renderla leggibile, condivisibile.
Trovo di particolare interesse il tuo concetto di "scrittura automatica" applicato alla danza. Ma ho l'impressione che quando nell'arte si giunge, per così dire, ad un "movimento che muove se stesso" ovvero che trova in primo luogo dentro di sé il proprio "movente" vitale, non sia tanto in gioco - almeno nei casi più esemplari - la semplice "spontaneità" di una presunta improvvisazione priva di regole, quanto piuttosto la credibilità di un gesto che sembra "naturale" forse proprio in virtù di una raggiunta "maestria" da parte di chi lo compie...
Nella precedente risposta ho già parlato di "leggibilità" e "condivisibilità" di un'esperienza individuale, percettiva, quasi esoterica della danza. La scrittura automatica del movimento si innesta, per quanto mi riguarda, in un corpo che ha interiorizzato una profonda consapevolezza del gesto. Ho già parlato di "esattezza", purezza del diamante. Soltanto in virtù di questa "esattezza" è possibile improvvisare con la danza, "scrivere automaticamente" le proprie parole cinetiche, rispondendo ai propri autentici impulsi espressivi, riuscendo, "automaticamente", a organizzarli in maniera leggibile, con la capacità istantanea di guardarsi dal di fuori. Ecco, forse questo è uno dei punti fondamentali: essere allo stesso tempo dentro e fuori, vivere dal di dentro la danza e, contemporaneamente, guardarsi da fuori, avere la chiara percezione di ciò che si vede.
Wassily Kandinsky, agli inizi del secolo scorso, fece com'è noto una sorta di profezia nel suo famoso libro Lo spirituale nell'arte proprio in relazione alla danza. La sua idea, infatti, della "danza del futuro", si riassumeva come sappiamo nel concetto di "composizione scenica", intesa come ideale sintesi espressiva di "movimento musicale, movimento pittorico e movimento coreografico". Dopo cento anni possiamo dire che quella profezia ha trovato nell'uso artistico delle tecnologie multimediali una qualche verifica concreta... Ora possiamo tentare ulteriori passi... Insomma, hai qualche "presentimento" circa il futuro dell'arte da offrirci? Più in particolare, che cosa intravedi negli orizzonti espressivi delle arti performative?
Posso risponderti esprimendo un desiderio: che l'arte vada sempre più nella direzione di una sintesi dei linguaggi espressivi. Mi piacerebbe una Bauhaus contemporanea, un nuovo Monte Verità (l'officina di sperimentazione coreografica di Laban). Luoghi di sperimentazione, ricerca e scambio tra le arti (figurative, musica, cinema, danza, architettura, teatro). Mi rendo conto che nell'attuale situazione mondiale, l'idillio di questi ipotetici centri per la ricerca di nuovi linguaggi sia pura utopia. Per quanto riguarda in particolare le arti performative, sarebbe vitale che ritrovassero la spinta originaria e divenissero un'esigenza poetica irrinunciabile per il pubblico. L'esperienza sociale, estetica, catartica del teatro è fondamentale. Prevedo uno sviluppo dell'arte performativa sempre più fuori dai teatri, nelle strade, nelle piazze, nelle metropolitane, nelle architetture urbane, negli ospedali, nei musei ecc. oppure, in video, inserita nei grandi schermi urbani pubblicitari (come quelli delle stazioni o degli aereoporti) e sul web.
Roma, Novembre 2007