Il cerchio era muto, avvolto nel silenzio, svuotato del suono, costituito strutturalmente di immagini e silenzio o forse della visione mobile del silenzio stesso. Un processo in blu siderale che disegna l'orizzonte sulla linea di un confine estremo, ai confini del mondo... La metafora respirante del freddo e della solitudine abissale. Il mio compito è stato quello di dare un suono ad un'opera audiovisiva pensata e nata senza suono e forse la cosa più interessante è proprio che Le Cercle di Robert Cahen non soffriva, a mio avviso, di questa che sulle prime può apparire come una privazione, un'amputazione...
Perché? È possibile un'audiovisione in cui il silenzio partecipa al posto del suono?... Per 10 minuti lo sguardo dello spettatore veniva ammantato da un visibile abnorme in cui l'uomo, anche se adeguatamente attrezzato, resta minuscolo nell'apertura sterminata di un paesaggio glaciale simbolico della natura più rigida e incontaminata, la più impervia e lontana da lui. Forse Robert voleva far emergere da quel profondo silenzio proprio la metafora di questa distanza, così estesa da disperdere nel tragitto le tracce sonore della sua esistenza e farci giungere a portata di vista l'imperscrutabilità di quei luoghi. Quando ho avuto per la prima volta l'esperienza visiva di questo organismo audiovisivo a cui il suono partecipa così intensamente ma per assenza, pensando al fatto che io avrei dovuto dargli un sonoro "presente" mi sono sentito inizialmente come una sorta di ingegnere genetico che in laboratorio modifica i prodotti della terra, il lavoro della natura...
Come uno che cerca di far diventare i cavoli dolci per darli meglio ai bambini o qualcosa del genere, non so, come uno che aggiunge alle galline una zampa centrale anteriore per evitare che cadano in avanti... Ma le galline si sono sempre rette in piedi benissimo con due sole zampe e Le Cercle era già un'opera audiovisiva "equilibrata"... Cosa dovevo fare allora? Perché Robert mi aveva proposto proprio questa opera? Non gliel'ho ancora chiesto... Ho pensato invece che forse poteva non essere ingegneria genetica, che avrebbe potuto essere un'esperienza di altro tipo, si poteva fare altro e forse questo era ciò che aveva pensato anche Robert. Mi sono dimenticato del fatto che Le Cercle era già un'opera "conclusa" in quella silenziosità che era parte integrante del suo proprio processo di "illuminazione e nascondimento" e l'ho ri-vista come se si trattasse semplicemente di un montaggio mancante di audio...
Il suono senza più impedimento alcuno ha cominciato a sgorgare dalle casse seguendo quella time-line affidatami dall'amico Robert. Dopo una sola intera notte insonne Le Cercle aveva ora un sonoro e all'indomani quando l'ho proposto in audiovisione all'amico Gianni Piacentini, che non conosceva l'opera nella sua prima silenziosa versione, lui mi ha detto più o meno così: «Non avrei mai detto che si trattasse di una traccia sonora sovrapposta in un secondo tempo, di solito queste cose vengono male e invece sembra che non avrebbe potuto essere che così, con questo sonoro!»... Prima o poi mi piacerebbe far vedere a Gianni anche l'opera senza il mio sonoro e sentire che ne pensa, vedere se magari cambia o modifica idea... Ma cosa è successo? Quali sensi si possono "raccogliere" da questa esperienza?...
...Forse non è l'esempio più adeguato ma pensando a tutto ciò continua a venirmi in mente la famosa performance di John Cage in cui per alcuni minuti questo geniale artista si sedeva allo sgabello del pianoforte e non suonava niente... Faceva silenzio? Sia se si risponde si che se si creda di no in entrambi i casi si propone a mio avviso una totale riconsiderazione del concetto stesso di silenzio! Cos'è? Esiste davvero? C'è davvero differenza o addirittura contraddizione tra silenzio e suono? Il silenzio è assenza di suono o esiste un suono del silenzio? Per me appare evidente che il silenzio come assenza di suono è una costruzione concettuale limitata e presuntuosa strettamente legata ad una visione coattamente antropocentrica dell'esistenza che non riesce ad immaginare l'infinito oltre l'umana percezione. Al mondo, o meglio, sul pianeta, tutto suona e quello che per l'uomo è un debole fruscio per altre forme di vita è un boato assordante...
Cos'è allora il silenzio? Forse il silenzio è suono, forse il suono è silenzio... Magari silenzio e non silenzio sono due tempi del medesimo infinito processo di suono. Ma quella estesissima distanza che caratterizzava Le Cercle? Che fine ha fatto ora? C'è ancora? Si è ridotta o si è acuita? O magari, quasi per assurdo, è rimasta intatta? Certo è che "intatta" o "inalterata" non sono proprio le parole giuste, l'alterazione c'è stata ma non si tratta di un'alterazione arbitraria e posticcia come quella che temevo inizialmente, appare bensì come una sorta di evoluzione naturale, come se due ecosistemi distinti si fossero ad un certo punto incontrati, sposati e fusi, come quando l'ossigeno e l'idrogeno diventano acqua e vedendo e bevendo l'acqua non si riesca più ad immaginare quel composto diviso. In fondo anche la natura è infatti un enorme laboratorio permanente a cielo aperto in cui però gli elementi si processano e non sono processati, si mutano, si uniscono e si dividono, si alterano, non sono alterati...
...E Allora? Posso supporre che il mio intervento sia stato parte di un processo "naturale"? Per farlo è necessario ri-allargare di molto le maglie del concetto di natura e poi magari riuscire ad allargarle ulteriormente per portarle ad una larghezza mai vista prima. Senza indugiare più di tanto basti ora ri-pensare alle chiare e semplici (ma importantissime) parole di Steina Vasulka: «C'è una visione umana e una visione della macchina»... Da queste andiamo oltre per semplice logica deduttiva: c'è una percezione umana e una delle macchine (perché possiamo contare almeno per ipotesi su un udito delle macchine benché sappiamo che da anni si ricerca anche in altri "sensi"), c'è quindi un mondo umano e uno delle macchine, insieme a tanti altri mondi. Io ipotizzerei persino che ci sia una 'natura naturale' e una natura delle macchine, altrettanto "naturale", esistenti in un più ampio contesto / organismo naturale infinitamente pluricellulare e diversificato. Ma forse sto andando un po' fuori strada... provo a ricominciare da qualche passo indietro: l'uomo è una "macchina" naturale come Le Cercle è una natura "macchinale"?
Forse una chiave potrebbe trovarsi a partire da qui, inoltrandosi nei sentieri di senso del concetto spesso riassunto in due sole lettere dell'alfabeto: I. A. o A. I., l'intelligenza artificiale, ma si aprirebbe da queste righe una voragine profondissima che troppo a lungo ci porterebbe altrove dal luogo che tentiamo di perlustrare ora. A questo punto credo sia meglio finalmente partire dal lavoro concreto che ho svolto, dalla traccia audio che ho realizzato per Le Cercle: in primo luogo può interessare che non vi è alcun suono "naturale", bensì solo sintetizzatori, suoni puramente elettronici con i quali ho cercato di "disegnare" un paesaggio sonoro "astratto", non un paesaggio naturale narrato dal suono, come era stato nelle ricerche di R. M. Schafer, ma un paesaggio di solo puro suono, nessuna imitazione di suoni reali della natura, del suono di strumenti musicali o dei vari possibili segnali "dal mondo", un organismo sonoro elettronico che non descrive un posto ma è un posto, un luogo, un ecosistema di suoni, un paesaggio in un mondo a se stante che credo potrebbe essere esposto come installazione sonora, senza le immagini. Così come Le Cercle era già un'opera a se stante!
Quale è allora la relazione tra suono e visioni in questa nuova opera? Come nelle Soundscape compositions, che l'autore canadese sviluppava alla fine degli anni 70, la traccia conta su tre elementi strutturali quali Tonica (termine musicale riconducibile all'armonia tonale che indica sia la prima nota di una scala, sia una funzione armonica di stasi) che nella terminologia elaborata dal World Soundscape Project sta ad indicare un suono che potrebbe non essere sempre udito coscientemente, ma che evidenzia il carattere di quel luogo. Le toniche sono spesso "suoni di fondo", "tappeto sonoro" della natura come il vento, l'acqua ecc. Nelle aree urbane il traffico è un esempio di tonica in questo senso. Segnali che per Schafer sono i suoni cosiddetti in primo piano, uditi coscientemente. Ad esempio: dispositivi d'allarme, campane, fischietti, corni, sirene, ecc (tendenzialmente si tratta di frequenze alte che sono chiaramente percepibili dall'orecchio umano). E infine Impronte sonore: i suoni caratteristici di un'area che secondo Schafer rendono unica la vita acustica di una comunità. Questi tre elementi sono presenti nel sonoro di Le Cercle in maniera abbastanza equilibrata ma con la differenza enorme che, differentemente dai Soundscapes che cercavano di realizzare un ritratto sonoro di un ambiente acustico, ho cercato invece di creare un ambiente acustico "nuovo", "puro", non astratto ma astratto / concreto, strutturato come un paesaggio mai visto e, forse, neppure mai esistito finora nella realtà del mondo...
Un paesaggio è la visione relativamente 'complessiva' di un ecosistema, un ecosistema è qualcosa di vivo, perciò respira. In primo luogo ci voleva quindi una respirazione, una pulsazione, "empatica" a quella visiva, ma indipendente, autonoma da essa. La relazione tra audio e video è infatti fondata nel tempo, o meglio nei tempi, nei ritmi di auto-processamento di singoli organismi pluricellulari che, il più naturalmente possibile, si uniscono in ulteriori nuovi organismi... Come prima cosa ho cercato di formare un suono a forma di battito, irregolare ma costante, una sorta di respiro / sospiro, asmatico ma profondo, genuinamente artificiale nella sua naturalezza. E questo suono, variamente modulato, è la tonica dominante della traccia... Una prima interpretazione sonora della metafora del freddo e della solitudine che aveva cercato Robert, quasi per stabilire un contatto sonoro con la metafora sottesa a quel paesaggio e non una tautologia sonora del paesaggio naturale...
Ho dunque cercato di sintonizzarmi sulla metafora visiva con una metafora sonora. Poi ho lavorato molto sulla distanza sovrapponendo progressivamente pads pseudovocali bassi e profondi, come provenienti dall'oltretomba, da un oscuro pertugio ai confini del mondo da cui risuona quale eco un flebile quanto maestoso vagito primordiale incarnato in uno scrosciante frinire di sub-woofer. Più avanti, progressivamente, i toni e i volumi prendono ad alzarsi fino ai confini delle tastiere virtuali, perché ho cercato nei bassi più gravi, e gli alti più acuti e pungenti, nel loro alternarsi, la metafora sonora di quella profondità e quella distanza che sono il primo carattere che ho trovato in Le Cercle. Questi elementi alti sono i segnali del brano ma non segnalano la presenza di elementi o "oggetti sonori" bensì la presenza di un livello espressivo / sonoro della "metafora concreta" in questione. Comunque la composizione nella sua interezza si caratterizza come una lentissima escalation "volumetrica" e tonale di suoni elettronici interrotta da brevi stacchi musicali che potremmo riferire ad un linguaggio più chiaro e scandito, ma anch'essi di estrema lentezza, in corrispondenza alle immagini delle visioni ingrandite della presenza umana, un piccolo ma coraggioso gruppo di esploratori su cui episodicamente una luce abbagliante viene a farci vedere da più vicino quello che nel blu infinito appare invece più o meno microscopico.
Questi sprazzi di audiovisione sul gruppo di esploratori che sono una sorta di sineddoche della comunità umana in un ambiente altrimenti deserto sono, per così dire, la anti-impronta sonora su Le Cercle. Ma scaduti i brevi momenti di attenzione sull'uomo, la visione di Le Cercle continuava a riportare le manopole virtuali e la mia mente verso quella distanza silenziosissima che con il suono ho cercato di squarciare e favorire, graffiare e rispettare, ammettere e negare, amare e violentare allo stesso tempo. Perché intanto nel silenzio c'è sempre un urlo, forse lontanissimo, e comunque c'è ancora l'ormai affannoso ma profondissimo respirare della terra.
Roma, 14 Gennaio 2009