Intervista a Michel Chion
di Valeria Bruni e Silvana Vassallo
Si può pensare ad un rapporto inverso?
VALERIA BRUNI: Nel rapporto suono immagine, in un film per esempio, tendiamo a ricordare l'immagine dimenticando il suono. Però in realtà è questo che ci imprime nella mente un certo tipo di valenze. Non si potrebbe dunque pensare ad un rapporto inverso?
MICHEL CHION: In un certo senso si hanno più spesso degli effetti visivi, ma non sono sempre le immagini reali di un film quelle che si ricordano. Posso fare un esempio molto semplice: da piccolo avevo visto il film Un condamné a mort s'est echappé di Robert Bresson, che racconta la storia dell'evasione di un partigiano francese, e che si svolge quasi interamente nella sua piccola cella di prigione. Lo avevo visto una sola volta, e mi erano rimaste impresse immagini molto precise di grandi spazi di prigione. Quando ho cominciato a lavorare sul rapporto suono - immagine, ho fatto vedere il film di Bresson a degli studenti francesi di cinema, ho provato a eliminare il suono e a guardare solo le immagini.
Mi sono accorto allora, che il film mostrava solo dei piccoli frammenti di spazio, ma che il suono ne evocava uno grande, infatti si sentono i richiami dei guardiani di altri piani, passi che si avvicinano e si allontanano, e così via: nella mia memoria le immagini del film non erano quelle reali, ma quelle fabbricate attraverso una sintesi dei ricordi. Questo mi ha dimostrato che le immagini create dal rapporto audiovisivo sono immagini complesse, costruite non solo sul "visivo", su ciò che realmente passa sullo schermo, ma sono delle rappresentazioni più mentali.
VALERIA BRUNI: Nel suo libro La voce del cinema (Pratiche Editrice, 1991) tende a dare, a quella che definisce con un neologismo la "voce acusmatica" - vale a dire la voce non ancora visualizzata, priva di corpo -, un valore superlativo, come qualcosa fortemente evocativo, e che però decade non appena la voce ha un corpo - immagine. È come se in questa sincronia, in questo avvicinarsi sempre più al reale, lei vedesse una sorta di perdita del significato.
MICHEL CHION: Non direi perdita del significato, ma piuttosto perdita di potere magico. Nel Mago di Oz o in Kiss me baby, o nel Testamento del dottor Mabuse, è il film stesso che racconta questa storia: non è una perdita di significato ma una sorta di racconto, un po' come la storia della Sirenetta che, per poter diventare umana ed avere un corpo, deve perdere la propria immortalità. È un racconto dal significato universale, e il cinema allegoricamente può raccontare una storia analoga attraverso il rapporto tra la voce e il corpo.
Un oggetto fantasma che non è in nessun luogo...
VALERIA BRUNI: Sempre nello stesso libro parla di voce che infrange i confini (L'intendente Sansho), attraversa il tempo e lo spazio e che si può udire e non ascoltare. Parla cioè di un oggetto fantasma che non è in nessun luogo preciso, ma ovunque, cosa è questo oggetto fantasma?
MICHEL CHION: Nel film L'intendente Sansho la voce della madre che chiama i suoi bambini, dopo che sono stati separati, sembra essere trattenuta in tutto lo spazio. Questo è il mito delle Sirene, che sono spesso associate all'idea di riva, di bordo, perché attirano le navi verso il bordo. C'è un simbolismo del limite che può essere paragonato al limite del corpo. In questo libro utilizzo molto le teorie dello psicanalista francese Denis Vasse che ne ha formulata una molto bella per parlare del rapporto tra voce e limite. Cito una frase "la voce fonda il limite che traversa".
VALERIA BRUNI: Durante l'incontro di ieri mattina lei ha parlato della possibilità del suono di contribuire alla manipolazione delle cose, soprattutto all'interno del mezzo televisivo. Sembrava tuttavia che lei non avesse una posizione del tutto contraria rispetto alle manipolazioni. Potrebbe chiarire meglio?
MICHEL CHION: Quando si filma qualcuno in televisione, spesso la telecamera tende a sottolineare il comportamento fisico della persona - i gesti, i movimenti delle mani, le espressioni del volto -, enfatizzando le manifestazioni di emozione o di nervosismo a scapito degli aspetti più discorsivi, cioè del fatto che la persona dice cose su cui ha riflettuto e ragionato. Questo può portare ad una sorta di scetticismo generale di fronte ad ogni forma di discorso, può portare a credere che ogni discorso è di facciata, perché può essere contraddetto dal comportamento fisico ed emotivo della persona.
È un atteggiamento che mi fa paura e che ho constatato in alcuni studenti francesi, una sorta di atteggiamento distaccato, come da rettili, davanti a qualcuno che parla con passione, poiché la passione diviene subito sospetta, anche se è al servizio di qualcosa su cui si è riflettuto e ragionato con competenza.dico che non ho niente contro le manipolazioni, lo dico in maniera un po' provocatoria: c'è un genere che si chiama pamphlet, che in letteratura esiste da molto tempo, e che non si può rifiutare completamente, perché spesso serve per far trionfare delle giuste cause.
Nell'incontro di ieri ho parlato del film americano Roger and me, che certamente è manipolatorio, ma non nasconde la propria posizione contro coloro che sopprimono migliaia di posti di lavoro, rifiutandosi anche di incontrare le persone a cui hanno sconvolto la vita. Questo film non nasconde il suo carattere polemico, mi sembra più pericoloso quando i film si presentano privi di partito preso; di fatto sono molto più manipolatori.
VALERIA BRUNI: In alcuni film il suono anticipa l'immagine, è il suono che ci introduce. Mi viene in mente Al di là delle nuvole, dove da un paesaggio marino, con il rumore del mare, si passa ad un interno cittadino, un appartamento ad un piano alto. Il rumore di fondo rimane lo stesso, siamo noi poi a dargli un'altra rappresentazione, quella del traffico in lontananza. In questo caso il suono ha una valenza insolita, predominante, e noi lo pieghiamo e adattiamo all'immagine.
A volte il suono arriva prima dell'immagine
MICHEL CHION: Non c'è predominanza, si è per forza in un rapporto. Perché il suono ci fa immaginare delle cose diverse rispetto all'immagine? Perché il suo valore figurativo è più sfumato. È anche vero che certe volte in certi film il suono arriva prima dell'immagine di una scena, ed è un po' il riflesso di quello che succede nella nostra vita di tutti i giorni: noi abbiamo sentito prima di aver visto. Prima di nascere, e subito dopo la nascita per un po' siamo stati ciechi. Ci sono molti film americani recenti - come Rain Man - in cui i primi suoni del film non sono una musica, ma rumori sul nero, ed è solo dopo che ci si colloca nello spazio. E' un effetto molto poetico che parla a tutti perché è così che accade nella vita.
SILVANA VASSALLO: Come teorico dell'ascolto e dell'audiovisione, lei ha dedicato ampi studi all'analisi del rapporto suono - immagine soprattutto nel cinema; come compositore preferisce collaborare con videoartisti, penso soprattutto al suo rapporto con Robert Cahen. Quali sono i motivi di questa scelta?
MICHEL CHION: È molto legata alle circostanze. Robert Cahen mi ha chiesto di curare la parte sonora di molte delle sue opere video e da dieci anni lavoro con lui perché mi piace quello che fa. Se qualcuno mi chiede una musica per un video o più raramente per un film, parlo solamente di cortometraggi perché in Francia sono considerato un compositore elettroacustico, in genere rifiuto. Spesso quelli con cui ho a che fare pretendono di chiedere una creazione ad un musicista, senza volere realmente collaborare. Ho molti amici compositori che hanno vissuto situazioni difficili: facevano un lavoro per un balletto o per un video, e poi il loro nome non era neppure citato nei titoli o nei manifesti, e il loro lavoro era utilizzato male. Dato che ho una certa esperienza, e ho dietro di me molto lavoro, voglio che mi si richieda per quello che sono, e che la gente ami la mia musica.
SILVANA VASSALLO: Nel suo libro L'audiovisione. Suono e immagine nel cinema (Lindau, 1997), lei si sofferma sui differenti modi in cui si struttura il rapporto suono - immagine nei vari media: cinema, videoarte... È un argomento interessante che meriterebbe ulteriori approfondimenti.
MICHEL CHION: Quando ho scritto il libro non conoscevo molto bene la videoarte. Ora che la conosco meglio, e che la pratico io stesso, vedo di più le complessità del problema e la varietà dei dispositivi e delle soluzioni. Gli artisti video, se vogliono servirsi del suono, non devono pensare che il suono esiste magicamente, senza preoccuparsi della sua ricezione: sarebbe come se facessero immagini e non si accorgessero che il monitor è girato verso il muro, pensando che comunque l'immagine esiste lo stesso. Talvolta è questo che fanno con il suono. Ho parlato con dei videoartisti che avevano realizzato delle installazioni nel loro atelier, e che poi le hanno presentate in una grande sala con un'acustica completamente diversa. Questi artisti non avevano previsto che per il suono sarebbe cambiato tutto, perché, contrariamente all'immagine che resta nella sua cornice, il suono si diffonde nell'aria, si mescola con i rumori del posto. Quello che mi auguro è che certi autori diventino più coscienti rispetto al suono. Non sono obbligati ad usarlo, e se questo serve solo a fare da punteggiatura allora basta un semplice accordo musicale.
Anche un'opera è un rito
SILVANA VASSALLO: Molte sue composizioni - come Requiem, oppure Le messe de terre - une liturgie vidéo -, fanno riferimento ad argomenti religiosi. Ci può parlare dei motivi di questa scelta?
MICHEL CHION: Ho composto diverse opere di musica religiosa, e quella più lunga è Le messe de terre che è uno spettacolo audiovisivo multimediale, sul quale ho lavorato per diversi anni. È un'opera religiosa, e quindi è chiaro che sono interessato a questo argomento. Non faccio musica di propaganda al cattolicesimo, ma non ho neppure un'attitudine critica, perché non sono contro la religione. Le parole della messa cattolica non appartengono esclusivamente alla chiesa cattolica, vengono dalla Bibbia e dal Vangelo, e sono parole che mi toccano profondamente. Alcune corrispondono a certe mie credenze, ed altre a domande che mi pongo.
Qui entra anche il mio rapporto con la lingua latina che ho imparato all'Università, e quello con la musica classica. Amo molto il Requiem di Verdi che è sia un'opera che una musica sacra. Mi sono molto emozionato quando l'ho sentito in un concerto in Francia, ed è stata questa unione di fervore collettivo e di drammaturgia dell'opera, che mi ha dato la voglia di fare un Requiem. La messe de terre invece affronta, tra le altre cose, la questione del rito. I riti hanno qualcosa di ossessivo e di assurdo, e la religione ha un rapporto con la nevrosi ossessiva, Freud l'ha descritta molto bene.
I Comandamenti dell'Antico Testamento sono comandamenti di un ordine del tutto ossessivo, nel senso nevrotico del termine, e nello stesso tempo nessuna società può vivere senza riti. Le nostre società sono in parte deritualizzate e proprio per questa ragione sono in crisi. Questo non vuol dire che si debbano restaurare i riti antichi, però attraverso la messa cattolica ho riflettuto sulla funzione del rito, del suo essere un punto di riferimento simbolico nel tempo. Anche un'opera è un rito, soprattutto un'opera musicale, e perciò è importante ascoltarla nel contesto giusto. Molte persone si chiedono a cosa serva ascoltare musica dall'inizio alla fine tutti insieme, invece di ascoltare il disco a casa quando uno ne ha voglia: ma io credo che così non si sia soddisfatti, credo che l'opera artistica abbia un rapporto con la religione, e con la ritualità.
Pisa, 5 Febbraio 1998
L'intervista è stata realizzata durante
il seminario che Michel Chion ha tenuto (4 - 5 Febbraio 1998) all'Università
degli Studi di Pisa (Dipartimento di Filosofia e Dipartimento delle Arti). Un
ringraziamento particolare alla dott.ssa Sandra Lischi per la sua gentile collaborazione.
L'intervista è pubblicata su «Km/n
Quadrimestrale di Arti e Comunicazione», Perugia, Dicembre
2000 Anno I, n°0, pp. 21 - 25.