La Critica

Nel laboratorio dei mondi possibili

Percorrendo la 53. Biennale di Venezia

di Alessandra Cigala

Nel gesto dirompente e inaugurale di Michelangelo Pistoletto è racchiuso tutto il senso della cinquantatreesima Biennale d'Arte di Venezia, Fare Mondi. L'impeto distruttivo che manda in pezzi i grandi specchi che si fronteggiano negli ampi spazi all'ingresso delle Corderie dell'Arsenale si trasforma, nella spettacolare performance Twenty-two Less Two, in energia vitale. Ogni frammento riflette una parte di mondo, una diversa prospettiva, e rappresenta esso stesso un mondo, un microcosmo a sé, che partecipa al gioco di infiniti rimandi generati dalla miriade di pezzi di specchio infranto caduti a terra, o trattenuti ancora dalla cornice.


Michelangelo Pistoletto, Twenty-two Less Two

Oltre c'è solo il buco nero della parete oscura che inghiotte lo sguardo. Soltanto due specchi rimangono intatti, a rappresentare - secondo l'artista - la generazione infinita di luce e vita che si rinnova nel reciproco riflettersi.

Va in frantumi l'immagine totalizzante e astratta della realtà che ci rimanda lo specchio, in cui coesistono passato presente e futuro, costringendolo a rivelarne molteplicità e frammentazione. Perché la realtà non è conducibile ad un'unica immagine, ragione, prospettiva, ma è molteplice, sfuggente. Può - come lo specchio - rimandare luccichii e baluginii ingannatori, ma, facendo deflagrare quest'astrazione, si può dare voce a infiniti mondi possibili, non programmabili, eterogenei microcosmi che mostrano sempre differenti prospettive attraverso cui guardare alla stessa immagine.

Una metafora della pluralità dei punti di vista. Uno spunto per riflettere sulla molteplicità e la frammentazione della realtà. Un invito a dare spazio ai piccoli mondi differenti, imprevedibili che ognuno di noi racchiude dentro di sé.

Anche se nel presente dello specchio spezzato emerge pur sempre il fondo nero, minaccioso, che racchiude il passato del gesto dirompente.

La performance di Pistoletto appare così l'apertura ideale per una Biennale che mai come quest'anno si propone come spazio creativo, luogo in cui tanti differenti linguaggi si parlano tra loro.

Nell'assunto teorico di Daniel Birnbaum l'opera d'arte, intesa come rappresentazione di una visione del mondo, deve essere pensata come modo per l'artista di costruire un mondo. Ed una manifestazione quale la Biennale come un vero crocevia, un laboratorio fecondo piuttosto che una vetrina dove singole culture si mettono in mostra, perché «forse là dove avviene un incontro tra mondi diversi, possono nascerne di nuovi».

La sfida è allora scontrarsi con la molteplicità e la differenza, imparare a conviverci trasformando questa condizione in un arricchimento.

Molti sono gli studiosi che concorrono alla "costruzione" del "mondo" teorico di Birnbaum: Amartya Sen e il suo insistere sulla pluralità degli esseri umani, perché «ognuno di noi reca in sé una moltitudine»; Sarat Maharaj per cui cultura e pratica artistica sono da considerarsi come produzione di differenza, luogo dove ci si «scontra con la differenza in tutto il suo costante mutamento»; Édouard Glissant ed il suo intendere la traduzione come pratica del diverso, «arte dello sfiorarsi e dell'avvicinarsi», «arte della fuga, da una lingua all'altra, senza che la prima si cancelli e senza che la seconda rinunci a presentarsi. Ma anche arte della fuga perché ogni traduzione oggi accompagna la rete di tutte le traduzioni possibili di ogni lingua in ogni lingua…». In ogni traduzione si perde qualcosa della lingua originaria, ma - come sottolinea Glissant nel bel testo pubblicato in catalogo, estratto dal suo saggio sulla traduzione: «bisogna forse consentirvi, consentire a questa rinuncia. Direi che questa rinuncia è, nella totalità-mondo, la parte di sé che si abbandona, in qualunque poetica, all'altro. Direi che questa rinuncia … è il pensiero stesso dello sfiorarsi, il pensiero arcipelagico attraverso il quale ricomponiamo i paesaggi del mondo, pensiero che, contro tutti i pensieri di sistema, ci insegna l'incerto, ciò che è minacciato, ma anche l'intuizione poetica verso cui ormai facciamo rotta…»[1].

Ogni passaggio da una lingua a un'altra può provocare poi fraintendimenti, che spesso si rivelano fruttuosi, tornare diverse volte su un testo può portarne nuove riletture, la compresenza di più lingue - e più linguaggi - può dare vita a fertili collisioni (éclat, secondo Glissant) che sono «in grado di provocare scintille di novità» (Birnbaum).

L'arte, ci dice allora Birnbaum, può indicarci una via d'uscita dall'appiattimento e dall'omologazione che sembrano scandire il nostro universo contemporaneo e, retoricamente, chiede: «Può l'opera d'arte essere un principio di speranza e un seducente progetto di fuga?»[2].

In quest'ottica acquistano nuovo senso anche la presenza di artisti del passato e la ricostruzione di alcune loro opere, perché esse stesse, producendo éclat, frizioni, collisioni con le opere di artisti più giovani, possono dirci ancora qualcosa di diverso, di importante e aprire nuove prospettive di senso.

L'omaggio tributato in apertura delle Corderie alla visione utopica di Yona Friedman va appunto in questa direzione, soprattutto perché al centro del pensiero di Friedman è da decenni un modello di società costruita sulla pluralità, incarnato dalla Ville Spatiale. Qui, nello spazio veneziano, questo progetto utopico urbano acquista nuova vita grazie anche all'intervento di un gruppo di studenti, che contribuiscono a darcene una visualizzazione: su una grande rete pensile prende pian piano forma una città di cartone, con poliedri e sculture in materiali poveri che somigliano all'architettura spontanea a Friedman così familiare. Una città aerea, leggera, che ricorda alcune delle città invisibili di Calvino: Ottavia, città ragnatela, costruita su funi e catene sopra un precipizio; oppure Bauci, tra le nuvole, sostenuta da alti trampoli filiformi. Città sottili, come quelle vagheggiate dall'imperatore: «…"È il suo stesso peso che sta schiacciando l'impero", pensa Kublai, e nei suoi sogni ora appaiono città leggere come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti come zanzariere, città nervatura di foglia, città linea della mano, città filigrana da vedere attraverso il loro opaco e fittizio spessore…»[3].

La Ville Spatiale, perciò, come progetto visionario di un nuovo mondo, modello aperto di sistema abitativo. E l'atto creativo come esempio di un nuovo approccio alla realtà, motore del cambiamento, per pensare e offrire inedite soluzioni alle difficoltà del presente.

La riflessione sull'abitare, e sul costruire luoghi da abitare, può svilupparsi poi in diverse direzioni.

Si possono immaginare cartografie di possibili contrade future, facendo collidere tra loro oggetti della quotidianità, legandoli con fili colorati, rendendo visibili il dipanarsi di storie, la nascita di incontri, l'affiorare di ricordi o facendo intuire nuovi legami, come fa Moshekwa Langa nell'installazione Temporal Distance (With a Criminal Intent). You Will Find Us in the Best Places; oppure delineare mappature mobili come fa da anni Mona Hatoum, per ribadire l'instabilità dei confini, la mobilità come prevalente condizione di vita dell'umanità contemporanea. A Venezia in questi giorni, all'interno dell'intensa mostra personale Interior Landscape che le dedica la Fondazione Querini Stampalia, è possibile vedere ad esempio Clouds, in cui piccole mappe immaginarie emergono su vassoietti di cartone: sono i contorni delle macchie d'unto che vi si sono casualmente depositate, simili a nubi in transito o, appunto, a ipotetiche geografie, che il segno tracciato dall'inchiostro dell'artista porta alla luce.

Anche oggetti all'apparenza freddi e tecnologici possono rivelare un calore e portare conforto alle nostre vite urbane alienate: il paesaggio domestico popolato dalla moltitudine di luci dei display degli elettrodomestici, che palpitano nell'oscurità, costruito da Chu Yun in Constellation, è uno spazio poetico e rassicurante, un luogo vivo e affettivo come la cucina protagonista del romanzo Kitchen di Banana Yoshimoto.

Si può poi partire dalle radici del proprio mondo, il Mundus Novus dell'America Latina, dai miti ancestrali alle esplorazioni scientifiche che seguirono alla scoperta del continente americano, per riflettere con occhi straniati su meticciato e omologazione dell'oggi.

Così, un simbolo di identità nazionale quale il vulcano ecuadoregno Chimborazo, riprodotto perfino sui francobolli del Paese, viene mostrato, innevato, in un video a camera fissa mentre si scioglie - e si specchia - in un lago di latte che si spande sul pavimento (Olimpo, come il monte degli dei, di Fernando Falconi Erazo).


Fernando Falconi Erazo, Olimpo

Con grande humour Alberto Baraya intraprende una Spedizione a Venezia, che ricalca nella forma le esplorazioni botaniche dell'età coloniale, per presentarci un suo erbario di fiori e piante veneziane, in vetro naturalmente; il suo studio, però, da naturalistico diventa "etnografico", perché molti di quei fiori non sono stati realizzati a Murano, ma sono made in China (Expedición Venecia).

Darío Escobar, infine, invade gli spazi dell'Arsenale con le volute aeree del suo Kukulcan, che nasce dall'ibridazione tra la figura del serpente piumato del mito precolombiano e più prosaici copertoni di ruote di bicicletta che, della coda dell'animale, hanno lo stesso colore, nero e ambra. A un mito antico - il serpente - se ne sostituisce uno contemporaneo - lo sport, il fitness, la palestra.

L'incontro tra mondi e culture diversi è poi presente in modo forse fin troppo esplicito in molte altre opere in mostra alle Corderie dell'Arsenale.

Si va dalla sarcastica evocazione del mitico regno buddista di Shambala, luogo degli illuminati, di pace e di luce, attraverso le rappresentazioni meditative delle divinità bodhisattva contaminate con le immagini e i marchi del consumismo contemporaneo (The Shambala in modern times dell'artista tibetano Gonkar Gyatso); alla caotica ricostruzione di un villaggio africano che è la quintessenza del meticciato culturale (Human Being di Pascale Marthine Tayou): la paglia è fatta di ritagli di carta con prove di tricromia oppure di trucioli in plastica da imballaggio, la polvere nei sacchi sicuramente non è commestibile (detersivo?), totem e idoli riciclano chincaglieria e ritagli di tessuti da bancarella; al più politicizzato The Greater G8 Advertising Market Stand di Anawana Haloba, che contesta l'economia globalizzata del post-colonialismo, esponendo un chiosco che a prima vista sembra proporre prodotti autentici del Terzo Mondo - come in un mercato equo solidale - ma in realtà all'interno dei contenitori si trova il prodotto trasformato e immesso nel mercato dalle aziende occidentali.

Se è poi lo "straniero", l'"altro", a entrare nel nostro mondo, rimarrà sempre e comunque "ospite", tra noi eppure invisibile, come le diafane figure di immigrati intenti a lavare i vetri che Krzysztof Wodiczko proietta all'interno del Padiglione polacco (Guests). In un ambiente immersivo oscurato grandi finestre e un lucernario proiettati su pareti e soffitto fanno filtrare una luce soffusa, dietro cui si affannano forme indistinte, offuscate, di lavavetri. Ne sentiamo le voci, come il vento soffiare e la pioggia battere al di là dei vetri, ma le loro immagini restano confuse, poco visibili. Un'invisibilità che è la stessa che trovano nella nostra società, che se ne serve ma li fa rimanere a noi stranieri per sempre, "ospiti" appunto.

Per guardare infine lucidamente al rapporto malato che unisce i poveri ai ricchi del mondo occorre andare negli affascinanti spazi dell'Arsenale Novissimo, per assistere all'opera che condensa in immagini sontuosamente kitsch, montate con respiro solenne e crescendo musicale, l'agghiacciante spettacolo dei consumi annoiati di un mondo ricco che si avvia distrattamente verso l'abisso che lo inghiottirà. The Feast of Trimalchio del gruppo moscovita AES+F - che già nella scorsa Biennale aveva colpito con l'inquietante Last Riot - è il cuore stesso della mostra Unconditional Love, evento collaterale alla Biennale alla Tesa 89 dell'Arsenale Novissimo.

Ispirata all'interminabile banchetto di Trimalcione narratoci da Petronio Arbitro nel suo Satyricon, specchio dei lussi ingordi di un mondo avvitato ormai verso un'ineluttabile decadenza, la videoinstallazione del gruppo russo immagina che il moderno Trimalcione prenda le forme di un hotel di lusso situato in una imprecisata isola esotica, summa di tutti i banali paradisi a cinque stelle contemporanei accessibili solo ai ricchi del mondo. La servitù, giovane bella ed etnicamente connotata, ci ricorda che nel mondo globalizzato i ricchi sono ancora i padroni. Qui si intrattengono insieme ai "servi" a piaceri estenuati e mai compiuti con reciproca lentezza, in immagini avvolgenti (la proiezione avviene su nove schermi che circondano gli spettatori a 360°), dalle cadenze solenni, in pose mutuate dalla fotografia della pubblicità di moda, fino alla nemesi finale, che sotto forma di tsunami o di catastrofe tecnologica (extraterrestri? terrorismo?), ci indica che la festa è finita. Un lucido e terribile apologo sulla tragica banalità del nostro mondo.

Un mondo brutto, schiavo della paura, la paura liquida di cui parla Bauman, dilatata, analizzata e declinata nelle sue innumerevoli forme nell'evento forse più politico, anche se collaterale, della Biennale: la mostra The Fear Society nel Pabellón de la Urgencia, alle Tese di San Cristoforo dell'Arsenale Novissimo, curata da Jota Castro. «One More Day without Fear, Please» si augura nel Phobia Paper che accompagna l'esposizione, mostrandoci tutta l'instabilità e l'incertezza del nostro vivere in una "gettata" di giganteschi shangai sul pavimento del grande spazio industriale (Shangai 2).

Il perturbante che si cela dietro il gioco, l'oggetto ludico o prezioso è il filo rosso che collega tra loro anche molte opere di Mona Hatoum. A Venezia, per esempio, le immagini luminose proiettate sulle pareti di una stanza da una lanterna rotante, come quelle che incantano i bambini prima di addormentarsi, sono in realtà le silhouettes di un esercito in marcia tra le stelle (Misbah); in una teca del museo della Fondazione Querini Stampalia, come frutti in colorato vetro di Murano, fanno bella mostra di sé grappoli di bombe a mano (Natura morta, che riprende il precedente e ambiguo Pommes et grenades in cristallo, in questi giorni esposto nella mostra Glass Stress) e, come in una vetrina di un orefice, viene di nuovo esposta l'inquietante Hair necklace, una collana di capelli, repulsiva quanto seduttiva. Oggetti attraenti e allarmanti, che, come le altre opere in mostra, ci parlano di desideri struggenti, di equilibri instabili, di una violenza sotterranea e ostinata che sembra impadronirsi delle nostre vite.

La paura di fronte al futuro che sembra schiacciarci, come il peso infinito di un passato che non riusciamo a lasciarci alle spalle sono i temi scelti da Olga Sviblova per il Padiglione russo. Il titolo Victory over the Future - Vittoria sul futuro - indica che nonostante tutto si può ancora provare a immaginare un domani diverso e al tempo stesso intende parafrasare la mitica opera futurista Vittoria sul sole di Matiushin, per la quale Malevic disegnò scene e costumi anticipando la sua svolta suprematista. Era il 1913 e, nonostante la fiducia nel cambiamento dei tempi, si addensavano nubi cupe sull'Europa. Così oggi sul nostro incerto futuro gravano ancora le ombre del recente passato, di un secolo - il Novecento - importante e terribile. Nella semioscurità di un ambiente resta sospeso un grappolo di sfere di vetro sulla cui superficie galleggiano centinaia di minuscole fotografie degli uomini che nel bene o nel male hanno fatto la storia del secolo scorso, le stesse che, come tanti piccoli buchi, punteggiano le pareti nere della stanza (Black Holes di Anatolj Shuralev). La Nike di Samotracia è diventata una statuetta in plastica trasparente, come una delle tante Madonne che vendono a Lourdes, ma non contiene acqua miracolosa; al suo interno pulsano a intermittenza due liquidi colorati: uno è nero come il petrolio, l'altro rosso come il sangue, a ricordarci che dietro ogni vittoria c'è una lunga scia di morte (Le Rouge et le Noir di Andrej Molodkin).

Le Grand Soir è il titolo dell'opera di Claude Lévêque che trasforma l'interno del Padiglione francese in una grande gabbia, il cui percorso termina con una folata di vento che agita la bandiera nera dell'anarchia e ci fa sussultare. "La Grande Sera", il mito anarchico e marxista dell'ora in cui la rottura rivoluzionaria dell'ordine sociale diventa improcrastinabile, riaffiora ogniqualvolta il peso della propria condizione diventa insostenibile, portando con sé il desiderio tenace di un radicale cambiamento, la speranza di costruire un mondo nuovo, una nuova alba che scaturisca dalla grande sera che ci avvolge.

Ma la costruzione di un nuovo mondo non può prescindere dalla memoria delle cose, delle tracce, dei segni lasciati dal tempo. C'è un'etica del residuo, sostiene Jorge Otero-Pailos, e conservare ciò che di consueto viene rimosso, la polvere, lo sporco, vuol dire preservare la storia di quella che è stata la vita di una cosa.

Come già lo scorso anno a Manifesta con un intervento site-specific, l'artista rimuove con tecniche da restauratore lo sporco depositato su una parete della loggia al secondo piano di Palazzo Ducale non ancora restaurata e ce ne mostra il calco su un gran foglio di lattice sospeso tra le campate delle Corderie. Lì è impressa, insieme alla polvere, tutta la vita vissuta dall'edificio nella sua lunga storia (Scrape: The Ethics of Dust).

All'Arsenale, nel Padiglione cileno, ci sono tredici porte e un pozzo magici, che ci appaiono infinitamente profondi, ma non ci è possibile varcarli. Rimaniamo inquieti sulla soglia, tra il qui e l'altrove che ci appare oltre la lastra di vetro che li sigilla, catturati davanti all'abisso che si apre davanti ai nostri occhi, da uno spazio - il mondo al di là - che ci appare infinito, moltiplicato da Iván Navarro in un gioco di specchi e di tubi fluorescenti colorati (Threshold: Death Row e Bed).

L'attivazione di una percezione alterata è all'origine di molte opere create alla Biennale, costruite intorno al concetto di straniamento. Quello che, come nota Sklovskij, «innesca nuovi pensieri». Il primo ad accoglierci con una visione spaesante è John Baldessari, Leone d'oro alla carriera, che trasforma la facciata del vecchio Padiglione Italia ai Giardini - oggi Palazzo delle Esposizioni - in una cartolina, sovrapponendovi la veduta di una generica località marina: Ocean and Sky (With Two Palm Trees).

Contro l'immagine stereotipata di Venezia nasce anche il progetto interattivo VENEZIA (all places contains all others) di Aleksandra Mir, che invita i visitatori a scegliere e spedire dalla Biennale un'infinità di cartoline di cento luoghi che, con la città, hanno in comune solo la presenza dell'acqua, eppure sono connotati immancabilmente dalla scritta "Venezia". Un'altra strategia disorientante per farci riflettere sui cliché del turismo che ci rimandano un'immagine ingessata della città, costruita sul suo essere sull'acqua.

E invece proprio la straordinarietà di Venezia la fa percepire come set ideale per eventi immaginari, quale una festa di dirigibili che ne invade gli spazi - uno di essi si è perfino incastrato tra le mura esterne delle Corderie dell'Arsenale - e rende quasi verosimili le immagini stranianti dello Sciame di dirigibili che solcano il suo cielo, proposteci da Héctor Zamora.

Sull'acqua della darsena dell'Arsenale galleggia poi una casetta in legno, che sembra volata lì, come nel miracolo di Loreto, direttamente dalla periferia di una città americana. Uguale alla miriade di villette unifamiliari che incarnano il mito americano di un microcosmo privato perfetto e rassicurante, ma diversa: finalmente niente più vicini rumorosi, solo lo sciabordare delle onde a farle compagnia. Tolta dal suo contesto naturale e trapiantata in laguna, scompare la banalità del suo stereotipo e ci appare come una visione (Mike Bouchet, Finally).

Così, con un semplice cambio di scala, Ceal Floyer proietta sulle pareti delle Corderie l'immagine di un bonsai portato alle dimensioni di un albero comune (Overgrowth). Una "crescita eccessiva", indubbiamente. Ma dov'è l'eccesso? Nell'ingrandirlo con una proiezione o nel non lasciarlo crescere naturalmente e mantenerlo piccolo per sempre per eccesso di cure?

Perfino gli spazi più connotati di questa Biennale possono cambiare di segno. Nel progetto espositivo curato dai due artisti Elmgreen & Dragset i Padiglioni della Danimarca e dei Paesi Nordici si trasformano in abitazioni private e ci offrono la possibilità di riflettere su un tema così interconnesso con la creazione artistica, quale il collezionismo, investigato con humour nel suo aspetto feticistico e narcisistico. The Collectors è il ritratto immaginario di due diverse tipologie di collezionisti ed Elmgreen & Dragset ce ne rivelano il lato inquietante.

Anche un altro luogo della Biennale ha mutato aspetto e senso. All'interno del Giardino delle Vergini improvvisamente ci si imbatte in una palude inondata di luce, ricreata artificialmente da Lara Favaretto in ricordo di figure scomparse, immaginandola come uno “scrigno di tombe vuote” per chi ha lasciato che si perdessero le proprie tracce o per chi è misteriosamente scomparso da questo mondo: Monumentary Monument (Swamp).

Poco oltre, tra la vegetazione a tratti ancora selvaggia e le vecchie costruzioni un po' cadenti, approdiamo in un ambiente in penombra dal cui soffitto pende una moltitudine di anelli da ginnastica, come una fitta foresta entro cui districarsi o, come ci invita William Forsythe - che oltre che artista è anche coreografo e danzatore -, da attraversare servendosi solo di essi, senza mai toccare terra (The Fact of Matter / Choregraphic Object). Per percepire lo spazio in modo diverso, provare una leggera vertigine nell'avvertire un senso di squilibrio, sentire davvero tutto il peso del proprio corpo, cambiare lo sguardo sul mondo mutando prospettiva. Basta staccare i piedi da terra.

L'invito è poi a tornare infine sui nostri passi per ripercorrere ancora una volta a ritroso tutti i lunghi spazi dell'Arsenale fino ad arrivare all'installazione che apre la mostra e che ci piace conservare come ultima immagine: Ttéia I, C di Lygia Pape, un'opera fatta di luce. Lame di luce tagliano l'oscurità in cui è immersa, sono fili d'oro tirati tra pavimento e soffitto, leggeri. Costruiscono uno spazio di luce purissima, immateriale. Ci donano un'emozione da trattenere a lungo dentro di noi.

«L'atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria.

Chiese a Marco Kublai: - Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.

- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto.

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

Dice: - Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.

E Polo: - L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» [Italo Calvino, Le città invisibili].

Roma, Settembre 2009


Note

[1] Édouard Glissant, L'arte della traduzione, in Poetica del diverso, Roma 1998, pp. 35-36.

[2] Sempre all'insegna del principio di speranza ispirato da Ernst Bloch si fondava il progetto espositivo Principle Hope di Adam Budak nella scorsa Manifesta.

[3] Italo Calvino, Le città invisibili, Torino 1972, pp. 79-80.