«Oggi le immagini che ci posseggono non sono più le nostre visioni: le immagini che ci posseggono sono migrate al di fuori dei nostri corpi. Siamo posseduti da immagini artificiali, create spesso allo scopo di dirci cosa comprare o in cosa credere». E' questo, nelle parole di Massimiliano Gioni nel saggio di apertura del catalogo della 55esima Biennale di Venezia, il cuore della mostra Il Palazzo Enciclopedico.
Un'esposizione densa, eterogenea, che si snoda come un percorso accidentato, tra armonie e dissonanze, nel tentativo di coinvolgerci in una riflessione su quale sia il potere delle immagini e su come queste siano usate per dare forma alla nostra conoscenza organizzandola in un sistema.
L'aspirazione a una conoscenza universale del mondo unita all'ansia di dare a questo sogno totalizzante una struttura certa ha abitato le menti e le energie degli uomini dalle età più antiche, dando luogo a costruzioni fantastiche. Ma l'ossessione del catalogo, la “vertigine della lista” direbbe Umberto Eco, il voler tutto vedere e tutto documentare sono minati dalla constatazione dell'impossibilità di sapere e comprendere tutto.
L'utopia del sapere assoluto, che trova espressione nel termine greco encyclopaideia, contiene in sé l'idea stessa di poter strutturare la conoscenza in una forma circoscritta, un cerchio appunto. Come spiega nel suo saggio in catalogo William N. West, il desiderio di educazione (-paideia) circolare (enkyclo-) e, come tale, anche se infinitamente ricca, organizzata in una forma conchiusa, ha origine in età umanistica. Un'ossessione universalistica e a tratti delirante si ripropone nel nostro mondo digitale organizzato da Google, sistematizzato da Wikipedia: «schizofrenica e utopistica rivendicazione secondo cui le enciclopedie registrano e ordinano il mondo, rendendolo accessibile e comprensibile. Ma così facendo, nel bene e nel male, di mondo ne creano un altro (…) è a causa della sua assoluta dedizione all'universalità (…) che alla fine ogni enciclopedia perde la strada: trovando un posto per ogni cosa, il cerchio del sapere diventa infinito, si fa illeggibile, si disfa nel caos. O tutte e tre le cose insieme. Esplorare equivale a distruggere, è più semplice immaginare un'enciclopedia piuttosto che scriverne o leggerne una»
La mostra immaginata e costruita da Gioni non ha però queste ambizioni universalistiche di sistematizzazione del tutto. Segue invece un percorso affascinante che ci induce a riflettere sul potere delle immagini, contrapponendo al flusso torrenziale del vedere di più che contrassegna la nostra contemporaneità una sorta di ecologia dello sguardo, che ci induca a vedere meno per vedere meglio. Nel desiderio di fare spazio alle immagini interiori, alle visioni, al potere dell'immaginazione. All'arte è riservato il compito di dare forma, esteriorizzandole, alle nostre immagini interiori. Perciò, se è vero che l'arte si fa interprete di una visione del mondo, una delle peculiarità di questa Biennale sta nell'aprirsi anche all'universo degli artisti non professionisti – autodidatti, dilettanti, mistici, alienati, irregolari -, conferendole un'intensità nuova, una carica di energia che difficilmente si può sentire in mostre di arte contemporanea.
E perciò, se il percorso all'Arsenale si apre con l'esposizione del modellino del Palazzo Enciclopedico che dà il nome alla mostra, progettato da Marino Auriti, un artista italo-americano autodidatta, con l'intento di contenere tutto lo scibile umano, al Padiglione Centrale dei Giardini i visitatori sono accolti dalle pagine del Libro rosso di Jung, vero fulcro della mostra, un manoscritto da lui stesso illustrato e a lungo tenuto segreto, un'immersione nelle profondità della psiche per suscitarne le immagini archetipiche e visualizzarle. Immagini, ricorda Gioni, «capaci di parlare mille voci», di mettere in relazione le proprie fantasie individuali con le strutture psichiche collettive. E riprende, a questo proposito, il concetto di Urbilder, di immagini prime, immagini primordiali. Ecco che allora l'arte si fa portatrice di un compito sublime: far emergere le immagini interiori.
E la mostra, così, partendo come catalogo eterogeneo e wunderkammer contemporanea, si rivela in fondo essenzialmente una riflessione sull'immaginazione. Sull'atto di vedere a occhi chiusi.
In uno dei primi ambienti del Padiglione Centrale ci vengono allora incontro le immagini emozionanti di non vedenti che scoprono il mondo, appunto, a occhi chiusi. I protagonisti del video Blindly di Artur Zmijewski, armati di colori, dita e pennelli, curvi su grandi fogli stesi sul pavimento, dipingono il mondo – il sole, l'erba, le stelle, il cielo – come se lo immaginano, facendo salire in superficie le immagini prime, le visioni, che popolano la loro psiche, sentendo i colori con il tatto, impregnandosene le dita, stendendo la materia cromatica sulla carta bianca, perdendola, cercandola e ritrovandola. Altri artisti in questa Biennale danno spazio con opere poetiche alle proprie visioni interiori, esplorando per esempio il ricchissimo territorio del sogno.
Alle Zattere, all'interno di una corte, può capitare di vedere una gondola bianca che scivola sull'acqua del Canal Grande. Al suo interno, raggomitolata in un lenzuolo bianco, cullata dalle onde dorme una donna. È la performance in video Inconscio: Canal Grande di Kata Mijatovic, nel Padiglione della Croazia, introduzione ideale al suo progetto espositivo Tra il cielo e la terra. Il suo compito, come artista, è portare nella realtà l'enorme energia psichica dell'inconscio che si libera nel sogno. Il proprio sonno e i propri sogni sono l'oggetto delle sue performance, ma a volte a questi si aggiungono anche quelli degli altri. A tale scopo l'artista ha creato un Archivio dei sogni on-line (www.arhivsnova.hr), che ognuno può arricchire con i propri, fonte di ricerche e di ispirazione. A Venezia quest'archivio interattivo, ingabbiato in una struttura di ferro, pende sospeso nell'aria al centro dello spazio espositivo, circondato da video che hanno tutti per tema il sogno e il sognare.
A occhi chiusi ci immergiamo in un'oscurità protettiva. Estraniandoci dal frastuono visivo cerchiamo il conforto del buio, come fosse un utero accogliente o un'immensa soffice nuvola di nera ovatta. Soltanto noi e il suono del nostro respiro, il battito del nostro cuore. Una lenta purificazione dello sguardo, un più intenso sentire.
Due opere profondamente evocative in questa mostra invitano a intraprendere questa esperienza percettiva che ci rimette in comunicazione con la nostra più intima interiorità. Entrambe, nel titolo, parlano di respiro. Entrambe si servono del nero come porta per entrare nella nostra dimensione interiore e attivare la nostra sensibilità.
In To Breathe: Bottari di Kimsooja sono evocati lo yin e lo yang, il contrasto tra luce e buio, tra vita e morte, con un invito a sentire lo spazio vuoto e la sua infinità per accompagnarci in un percorso di rinascita. Le grandi vetrate del Padiglione Coreano ai Giardini, aperte agli alberi, alle foglie, all'acqua e alla luce della laguna, sono rivestite da una pellicola trasparente che produce sulla loro superficie una fantasmagoria di diffrazioni luminose. Ci si aggira, così, nello spazio vuoto e inondato di luce, riflessa da lastre specchianti che avvolgono pavimento e soffitto, continuamente cangiante nei colori dello spettro. Dopo aver nutrito occhi e cuore in questo bagno luminoso, si entra in un altro ambiente dove, richiudendosi la porta alle spalle, ci si sente annegare nell'oscurità più profonda. È una stanza anecoica, concepita per annullare la sensazione di spazio sopprimendo l'eco. C'è solo il nero che avvolge il nostro corpo, che ci fa sentire distintamente il nostro respiro, le pulsazioni del nostro cuore. Qualcosa di simile aveva progettato qualche anno fa Gregor Schneider con END, un enorme ambiente nero disorientante, pensato come utero-culla ma anche come luogo di dislocamento.
Un'esperienza intima e immersiva si prova anche entrando in contatto con l'installazione Breath di Shirazeh Housiary nella Torre di Porta Nuova, monumentale soglia di accesso all'Arsenale Nord.
Nello spazio verticale della torre l'artista ha immaginato di collocare una struttura cubica, avvolta da un pesante telo di feltro nero, che ricorda vagamente la Ka'ba, da cui emanano ipnotiche salmodie, che si diffondono nell'ambiente abitandolo. Attraverso uno stretto passaggio si penetra in una stanza in penombra, sulle cui quattro pareti, dal fondo oscuro di schermi collocati all'altezza dello sguardo del visitatore, pulsano minuscoli punti luminosi, si levano e sfumano seguendo il respiro dell'intonazione di quattro preghiere cantate, corrispondenti alle quattro principali religioni del mondo: l'adhan musulmano, un coro di monaci buddisti, un canto ebraico e un'invocazione alla Madonna di Ildegarde di Bingen. Avvicinandosi a ogni schermo si riesce a seguire l'alzarsi e lo spegnersi del canto nel vibrare, nell'espandersi e ritrarsi del pulviscolo luminoso che buca la nera profondità dello schermo, così pian piano il nostro stesso respiro si accorda con il fluttuare e lo sfumare della luce e del canto. Il respiro si fa canto e si fa immagine. Respiro come essenza della vita, suo inizio, comune a tutti gli uomini, che trascende ogni differenza culturale, proprio come gli stessi canti quando ci avviciniamo al centro della stanza si fondono insieme in un'unica monodia.
L'aspetto polifonico della mostra così come il richiamo alla circolarità contenuto nell'etimo del termine “enciclopedia” si ritrovano nella ciclicità della performance musicale creata da Ragnar Kjartsson, S.S. Hangover, vera e propria colonna sonora del percorso che all'Arsenale si snoda tra le Gaggiandre e le Tese. Nello specchio d'acqua tra le due sponde una barca, che è un pastiche di forme greco-islandesi-veneziane, accoglie un sestetto di ottoni che suonano ciclicamente la stessa sinfonia composta appositamente da Kjartan Sveinnson per questa performance. A turno uno dei musicisti viene lasciato su una delle due sponde, a continuare a suonare in solitudine mentre la barca si allontana, per essere poi ripreso a bordo nell'approdo seguente. La ripetizione continua, la circolarità della sinfonia, il ritmo ipnotico del suono inducono uno stato di trance in chi passa e sosta lungo questo cammino, diffondendosi a ondate nell'aria.
Ma le esperienze immersive non si concludono qui. Per provare il perturbante del perdersi in mare, isolati tra le onde cupe, oscillando tra lo sciabordare delle acque, basta salire nelle Sale d'Armi e varcare la soglia del Padiglione degli Emirati Arabi Uniti. Qui Mohammed Kazem, per il suo progetto Walking on Water, ricrea l'esperienza totalmente coinvolgente del perdersi in mare nell'installazione Directions 2005/2013: sostando su una piattaforma al centro di un ambiente a cupola, circondati dalla proiezione a 360° di un video, si viene gettati nell'infinito e nell'oscurità della notte in mare aperto. La testa gira, ma poi dopo il disorientamento iniziale ci si lascia andare, come galleggiando privi di appigli in un universo senza confini. Di nuovo un utero-culla. È impossibile, però, non sentire un richiamo alla nostra realtà, soprattutto dopo le ultime tragiche morti in mare di centinaia di immigrati. E allora le onde tornano a farsi minacciose, la mancanza di barriere fisiche non ci libera ma ci inquieta. L'opera di Kazem ha infatti anche una valenza sottilmente politica: dopo aver provato egli stesso casualmente l'esperienza del perdersi in mare, si è dedicato con una serie di performance a chiedersi per quale motivo gli uomini non possono trascendere i confini e muoversi liberamente, come le tavole in legno che getta in mare nelle sue azioni.
Ineludibile è poi la natura politica dell'opera che Alfredo Jaar ha creato poco lontano, nel Padiglione del Cile, mettendo in questione il modello stesso delle biennali d'arte, nato dal desiderio impossibile di unificare in un unico luogo la frammentazione infinita dei mondi dell'arte contemporanea. Un modello anche datato che cristallizza uno stato dell'arte e del mondo fermo agli inizi del '900, inadeguato a rappresentare la fluidità della cultura sempre più globale del nostro tempo.
In Venezia, Venezia Jaar invita i visitatori a ripensare criticamente questa rigida struttura procurando loro una visione minacciosa ma in ultima analisi salvifica: in una vasca, a intervalli regolari, un modellino dei Giardini con tutti i padiglioni nazionali perfettamente riprodotti lentamente sprofonda nell'acqua fangosa per poi riemergere solo per qualche minuto. Un'inondazione familiare alla natura stessa della città, una catastrofe ma anche una rinascita, che possa inaugurare un nuovo modo per l'arte e la cultura di parlare al mondo. In questo modo si riesce a comprendere anche perché l'artista cileno abbia voluto collocare all'ingresso del padiglione, per instaurare un dialogo con la sua installazione, una grande fotografia che ritrae Lucio Fontana a Milano, subito dopo la guerra, tra le macerie del suo studio bombardato. Eppure nell'aria c'era già l'eccitazione della ricostruzione e Fontana solo di lì a poco avrebbe cambiato per sempre la percezione dello spazio con i suoi ambienti spaziali. Forse una riflessione è necessaria anche in questo momento di declino. Come se solo da un evento rovinoso questo paese possa trovare la forza per ripensarsi e rinascere.
Solo pochi metri più in là, nelle Sale d'Armi, il Padiglione della Santa Sede, a Venezia per la prima volta, sembra raccogliere idealmente il tema della rinascita dalla distruzione, concentrandosi sul racconto biblico dei primi undici capitoli della Genesi, dove si narra del mistero delle origini, della comparsa del male e delle forme di distruzione operate dall'uomo e infine della ricerca e della speranza di costruire una nuova umanità. Tre temi di fondo ben definiti affidati ad artisti che li hanno affrontati con la giusta sensibilità. Il tempo della Creazione a Studio Azzurro, la De-creazione alla fotografia in bianco e nero fortemente evocativa di Josef Koudelka, la Nuova Umanità o Ri-creazione alla rigenerazione dei materiali dei lavori di Lawrence Carroll.
Ma è sul primo passaggio che vorrei soffermarmi ancora un istante, sull'ambiente sensibile pensato da Studio Azzurro per raccontarci il momento della Creazione, In Principio (e poi). L'inizio della vita, animale e vegetale, e il potere di nominare le cose affinché esse esistano, che è proprio dell'uomo. Come raccontava Paolo Rosa, anima di Studio Azzurro, «chi è impedito ce lo può raccontare meglio con i suoi gesti». E sono allora i gesti e le parole di questi “portatori di storie” particolari a raccontarci il mistero della creazione. I gesti di chi è impedito nel linguaggio (i sordomuti), le parole di chi è impedito nello spazio (i detenuti). Animati al contatto delle mani dei visitatori, i gesti dei sordomuti fanno nascere organismi che si materializzano in scie luminose, fasci di energia, che riappaiono su un grande schermo al centro dell'ambiente, sul pavimento, mescolandosi con le proiezioni di tutte le mani dei visitatori che hanno attivato questi uomini e queste donne con la pressione delle proprie mani.
Gesti d'amore, come quelli che nel Giardino delle cose, alla Triennale di Milano del 1992, facevano gradualmente prendere forma a oggetti comuni. Umili, semplici, utili. Gesti vivificanti, perché gli oggetti si rivelavano ai raggi infrarossi delle telecamere grazie al calore delle mani che li toccavano, accarezzandoli, prendendosene cura. Le voci dei detenuti ripercorrono le proprie storie, ricostruendo le proprie identità, “nominandosi” e sollecitando così anche nei visitatori un'immersione nella memoria personale. Rendendo “attori” e visibili gli invisibili, quest'opera ci accompagna in un emozionante percorso di narrazione. Una creazione che vuole essere anche una «ri-creazione, per riprendere in mano le fila della nostra armonia con il mondo in un momento di sofferenza come quello che stiamo vivendo». Mi piace ricordarlo con le parole di Paolo Rosa, che ci ha lasciato purtroppo improvvisamente, in una notte d'estate, «negli occhi le stelle, il mare davanti».
Roma, Ottobre 2013