Sopraelevata
della Tangenziale
di Luigi Ciorciolini
Fare il viadotto al ritmo del battito cardiaco in una visione pastorale in maniera che sia espressione del sentimento più che della pittura.
82 battiti sul metronomo equivalgono ad un moderato.
I tempo: destarsi di lieti sentimenti all'arrivo in campagna.
Il viadotto saluta la Modernità. Blues degli Addii? Lost Viaduct Blues? So long and farewell?
Il viadotto è la realizzazione della filosofia del nel frattempo.
Si fa in macchina e ha un ritmo suo che consente solo sguardi leggeri. Quegli sguardi che non nominano e che non ti lasciano nominare dalla materia indifferente. Non sono un turista al Colosseo in cerca di orientamento; non sono un Operatore Ecologico al lavoro per via in controtempo edematico con il traffico; non sono un Artigiano con il suo scambio simbolico di informazioni su uso, lunghezza, altezza e spessore dell'oggetto da costruire o distruggere o risanare; non sono un Commerciante con i rituali di valutazione reciproca e di valutazione psicologica del feticcio; non sono uno che, in bassa retorica e demagogia, vuole risemantizzare un'area, non sono un Artista Comunale con il repertorio da rigattieri di esperienze già fatte. Sono solo uno che nel frattempo passava di là. E nel frattempo che un tropicalista effetto serra innalzi il Tirreno e da Ostia lo porti qua tra San Lorenzo e la Prenestina il viadotto mi insegna a nuotare nei sogni percorrendo il cielo di seta lacerata e movimento di colore. E nelle nuvole, le nuvole che scandiscono lo spazio infinito ponendosi a frontiera tra cielo e terra. Che godono della doppia natura di aria e di acqua, esseri ibridi che negano lo stato immediatamente contiguo. Esse cadono sotto alcuni sensi ma non sotto altri: si possono vedere ma non toccare, odorare ma non mangiare. Rappresentano il venire meno dei legami logici, dell'ostinata saggezza della materia. Consentono di vedere il farsi delle metamorfosi, il visibile che smentisce costantemente se stesso. Esprimono la fascinazione del possibile. Le nuvole sono macchine proiettive: ci puoi proiettare sopra i tuoi pensieri, i tuoi desideri. Sono state il primo cinematografo di tanti bambini: la cabina di proiezione era la mente, lo schermo le nuvole.
Le nuvole si muovono, cambiano. Le immagini si muovono, cambiano. Le nostre menti si muovono, cambiano.
Le nuvole sono state, le nuvole sono stati, le nuvole sono età, la nostra età di transizione.
Al ritratto di una città non sono solo di pertinenza gli edifici e la loro disposizione, le persone e la foggia dei loro abiti, i nodi del traffico, la qualità delle auto e la presenza di autobus o camion e per gli angoli restati remoti per anni e all'improvviso aperti al flusso. Altrettanto necessari al ritratto sono i colori del cielo nelle varie stagioni e i riflessi della luce al variare delle ore del giorno, la memoria dei singoli cittadini, il sentire comune e quello individuale, la voce dei poeti.
Nel frattempo che il Comune lo abbatta, questo cavalcavia, qui possiamo nutrire la breve follia docile di saperci angeli incerti che passano tra i piani più alti delle case custodi di una mobile inquietudine. Ma stavolta guardando in avanti, sorretti solo dalla forza del motore in un meraviglioso dinamismo sui cocci.
II tempo: scene presso il ruscello
Qui l'orizzonte romano finalmente si allarga, allenta il suo assedio, si priva della Antichità ossessiva e delle sonore cupole. Lontani dal labirinto si colgono in un colpo d'occhio i detriti del Moderno, sporco ma laico. Questo è l'unico panorama laico della città che conosco: in una città dove si dubita persino se abbattere Corviale qui tutto quello che si vede è abbattibile. Lo sguardo totalizzante del detrito.
Qui, per il ritmo della percorrenza, si allarga anche il respiro a rassicurare l'Io: si può valicare il limite anche senza idee di grandezza.
In questo frattempo percorriamo l'unico panorama di Roma senza chiese e non ci sono santi e angeloni froci ad affaticarsi nel blu mentre Cristo prende l'aperitivo da Rosati a piazza del Popolo: momentanea visione laica che apre alla metafisica così così, da smorzo della filosofia. Un ponte – punto di vista da cui non si vede l'antico.
Un panorama riposante perché proiettivo. Non c'è l'ossessione rappresentativa che dalle origini divora il visivo degli Italiani. Non ci sono i segni che stanno a rappresentare Roma, l'Eternità, l'Imago Urbis con, come nell'Ytalia di Cimabue, il dado Liebig dei monumenti romani. Non c'è simbolizzazione che prevale, densa e pregnante, sulla capacità di descrivere. La realtà oggettiva è tale, priva di quella evocazione della Fede o della Memoria che opera con l'estrazione dei segni più noti ed universalmente riconoscibili.
Tutto quello che si vede, case, binari, baracche, strade, tendine e salotti, dà la sensazione di un incontro casuale come quello di un ombrello e di una macchina da cucire sul tavolo del perito settore. La stranezza del loro incontro è sotto gli occhi di tutti: il luogo comune, lo sguardo panoramico, tiene tutto con dei su, degli in, alcuni tra, molti con, un numero ragionevole di per, ma non c'è nulla da fare: l'accoppiamento strada di scorrimento dentro salotto non tiene. Hanno ragione i giornalisti dei TG Rai che hanno dichiarata esaurita la spinta propulsiva delle preposizioni semplici: non c'è più possibilità di giustapporre figurarsi cercare una scala anche solo elementare come prima e dopo. Tutto è stato appoggiato qua in attesa di essere sistemato altrove e poi c'è rimasto. Come il cavalcavia. Uno spazio con una molteplicità di luoghi contenenti cose così diverse che è impossibile trovare una logica comune: ogni cosa si trova in un certo senso fuori posto.
III tempo: allegro convegno di contadini
Il Moderno ha mutato l'orizzonte: non più curva progressiva e infinita continuità ma scarti improvvisi, impennate, frammenti, accumuli casuali Il viadotto come caleidoscopio di povertà, affanno e lavoro e istinto di sopravvivenza come Pasolini aveva intuito.
Sguardi su materia indifferente. Vertigine della coscienza del tempo soggettivo, sul suo adesso non – oggettivo. Regno del nel frattempo e non del tempo che ci offende con la sua indifferenza. Quando l'erba comincerà a crescere tra le crepe dell'asfalto allora il cavalcavia sarà romano. Faremo festa adornandolo con le svolazzanti strisce di plastica bianco e rosse dei lavori in corso, quelle che tutti ignorano.
Il sole si sbilancia, a stento si tiene nell'ultima aria. Cielo di seta strappata in una pezza di colore: puoi sentire la bellezza della vita a pezzi che rompe l'ostinato ordito. Vanno le auto ordinate guidate da chi non vuole crederci, da chi corre perché non vuole che la vita passi. La Tangenziale in accelerazione offre una tregua effimera con la vita ma subito si dilegua in una coazione nevrotica.
IV tempo: tempesta
Eccolo il Mercato delle Pulci del Moderno, il Rimosso della Storia della Città, i nostri Peperoni che il giorno dopo si Ripropongono ma la ri – proposizione è rappresentazione alla coscienza di una immagine che è figlia di un approccio diretto e di uno indiretto alla realtà. Ecco il tentativo di levare le griffe della miseria dalla Pantanella, dalle baracche, dai muri semi diroccati, degli orti stenti altrimenti celati alla vista di chi guida al piano zero e improvvisamente messi a nudo. Il cielo troppo azzurro corrode ogni cosa: le mura sembrano biscotti sbocconcellati lasciati da un bambino sazio. Qui l'Arte Suprema del Galleggio, arte tutta romana: una ars moriendi che nega aspirazioni e frustrazioni..
La conquista dei tratti somatici, dell'identità individuale qui non è arrivata. Il lavoro di Pasolini di restituire un'iconicità alla deprivazione si è fermato prima. Maria Callas, Silvano Mangano, Anna Magnani, Franco Citti, Ettore Garofolo, Ninetto Davoli potrebbero aver abitato nelle baracche prima dei binari o nelle case gialle. Avrebbero potuto essere andati a prendere l'acqua al nasone con i catini zincati o con i fiasconi da 5 litri o con le prime taniche di plastica. Cacciati dalla terra, privati del loro sapere contadino per non essere accettati dalla città, per non capirne i ritmi e i saperi.
Il sogno della città bella, accogliente, ricca di personalità fino ad essere unica e irripetibile, progettata come segno del genio dell'uomo qua mostra il suo retro. Come nel ricamo di Benjamin, mano a mano che sul davanti tutto procede ordinatamente verso la meta, sul rovescio il reticolo dei punti diventa sempre più aggrovigliato. Da un lato la rappresentazione urbana utopizzata, irreale nella ricerca di perfezione e di conservazione, coi muri tirati su con mattoni che sembrano i mattoni romani rifacendo con coazione nevrotica gli stessi muri falsoveri del fascismo, fissata in profili e tipizzazioni da cartolina da cui vengono fatti sparire gli odori del piscio umano o di cavallo, gli afrori dei fichi selvaggi e del lavoro umano e dei rancori. Qua tutto quello che sfugge alla categorizzazione, ai manuali congiunti di architettura, estetica, sociologia e storia. Rassegnatevi: non c'è koiné visiva o figurativa.
Il panorama è il retrobottega dello scintillante passage: i binari ferroviari che prendono gran parte del visibile sviluppano soltanto un concetto orizzontale senza le linee di forza caratterizzanti le stazioni ottocentesche di metallo o il museo di Zaha Hadid. Non ci sono le ciminiere o i segni del Motore o delle macchine, i segni della forza del Vapore o dell'Elettricità. Non ci sono le uscite degli operai al turno. Non è possibile fare l'esperienza dinamica della città futurista. Queste non sono, e non lo sono mai state, le periferie in continuo movimento orizzontale e in continuo sviluppo verticale come quelle raffigurate nei quadri di Vespignani o nei fondi dei film di fellini, Monicelli o Pasolini. Ci sono i capanni con i muri di tufo e il tetto di lamiera degli artigiani che ridanno forma alle carrozzerie delle auto o saldano le marmitte dopo aver saldato caldaie o piegato il ferro in maniera artistica. Artigianato che nasce e finisce in se stesso, nel lavoro della formica. Cosa vuol dire oggi meccanica di precisione? Alesare un pistone o rettificare una testata? Nessuno va più a rubare i cuscinetti a sfere da usare come ruote di carretti costruiti in cortile per poi essere lanciati in corse senza freni. Meccanica di precisione e spago di corda per far vivere il mistero del giroscopio, risposta più adulta e tecnologica alla trottola.
Fare una storia del luogo? Ma la storia si fa dal momento in cui si percepisce un cambiamento di stato e magari si teme la perdita della memoria dello stato precedente. Abitualmente i recensori della storia tendono a celebrare il nuovo stato che si inaugura con loro per parlare male del precedente. Per fare questo magari ci si ricollega ad un periodo ancora precedente che viene mitizzato. L'unico cambiamento in questa area è stato il cavalcavia con la sua durata relativamente breve. Se la zona fosse arte sarebbe art brut: qui nessuno è intervenuto ad indirizzare o modellare o recuperare. Nessuno si sente in colpa per questa zona e quindi non ci sono gli interventi culturali come a Corviale. Quest'area aspetta ancora il suo Dubuffet comunale. Quello che si vede sono i residui di un titanico bric – à – brac del reale senza aspirazione ad un passato significativo. Come nella vecchia Porta Portese di tanti anni fa su di un lenzuolo steso in terra si incontravano rubinetti usati, tessere d'autobus scadute, prese o spine della luce in bachelite, bottoni dalle remotissime probabilità di un accoppiamento, astucci per occhiali, foto ingiallite e sporche di persone sconosciute, scatole di latta dai marchi consunti, cartoline, dischi a 78 giri, pezzi di macchine fotografiche a soffietto, samovar, piatti sbocconcellati, medaglie al valore, monete del fascismo, ciotole piene di viti, bilancieri e rotelle provenienti da orologi smontati, maniglie di cassetti o porte, solitarie sedie sfondate, lenti d'ingrandimento, mostrine militari, santini molto usati, distintivi di associazioni misteriose da attaccare al bavere della giacca, valvole e diodi così le case, baracche, rotaie e asfalto si incontrano in questo panorama.
E su tutto l'alone del rubato alla vita.
Dovunque giri lo sguardo è tutto asfaltato con ossessione come se si volesse far sparire ogni ricordo della terra. E d'altra parte la poca terra che si incontra fa di tutto per farsi odiare: in estate è polvere grigia, infertile, intossicante e in inverno è fango appiccicoso di quello che se pure riesci a lavarlo via comunque ti lascia un alone sugli abiti. L'asfalto coprente è il manto d'odio verso la terra e i propri nonni contadini.
Nonostante tutti i riferimenti visivi non c'è una rappresentazione oggettiva del moto ma una costante ri – legatura degli spazi, della cosicità degli oggetti, della non gestibile intensificazione o diradarsi delle masse, delle memorie, degli stati d'animo, dell'ora e della direzione.
Non ha più senso indomenicarsi con decoro e pudore dei propri scarsi mezzi di sussistenza. Qui siamo cresciuti in cappotti troppo lunghi e spessi indossati sopra pantaloni troppo corti e stretti già smessi. Come dandies male informati vivevamo in palazzi troppo grandi per la troppa poca terra disponibile, vicini alle liquide marane. Ora il desiderio di periferia ha preso le nuove generazioni che vanno oltre Testaccio verso Porto Fluviale, via Ostiense e il Gasometro. Altri diventano i luoghi dove andare a respirare quell'odore di marcio vegetale di cui sono gravidi i cimiteri e i negozi dei fiorai verso sera.
Come il Labirinto la sopraelevata obbliga ad un percorso coatto: puoi solo andare e non è dato l'abitare o il fare luogo. La condanna di Dedalo è quella di invitare sempre ospiti ma non avere mai la possibilità di accoglierli: non c'è un salotto o un living o uno studio nel Labirinto. Si tratta di una casa molto percorribile, edilizia residenziale tutta particolare.
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Oggettivo. Qualitativo. Soggettivo. E` una pesante eredità ottocentesca quella di rapportare la qualità dell'esperienza umana a parametri quantitativi esatti. Lo spazio si misura in metri e il metro campione, cioè il metro più metro di tutti gli altri metri del mondo, si trova a Sèvres presso Parigi. Chi pratica Roma nel quotidiano sa che questa indicazione è perfettamente inutile: nessuno si chiede quanto disti Piazza del Popolo da Piazza Venezia ma quanto ci vuole in termini di tempo. E non è una semplice convenzione in un'altra scala fatta di secondi, minuti, quarti d'ora o mezze ore ma l'introduzione di parametri di stress, di costante aggiornamento su sensi unici, lavori in corso e regolamenti viari non scritti con le loro sottodeclinazioni, le macchine no i motocicli si ma senza targa o con la targa sporcata, la possibilità di trovare un taxi o quelle molto più remota che passi in tempo l'autobus giusto.
I gradi centigradi o quelli Kelvin misurano la luce nelle sue componenti azzurre, bianche, gialle o rosse. Definiscono la qualità dell'esperienza visiva ma non raccontano di come le cupole delle chiese ad una certa ora vibrino percosse dal sole e la loro vibrazione genera una nota d'oro che è il suono di questa città. Questo uso del termine certo (ad una certa ora, un certo discorso, certe persone ben conosciute…) è molto irritante per chi lo sente, chi lo legge e anche per chi lo usa in questo momento perché non solo non chiarisce ma rimanda a qualcosa che si dà per scontato. Non c'è alternativa però al suo uso perché l'ora di cui si parla è variabile, varia con il clima, la stagione, il livello di inquinamento e la collocazione nello spazio cittadino. Così rimanda ad una esperienza non eccezionale anzi alla portata di tutti ma che comunque deve essere fatta.
Bianco, accecante, geometrico, rugoso con figure di donne silenziose. Non ci sono le milanesi tese ad un obbiettivo, le romagnole passione e impegno sociale, le napoletane così madri e le meridionali così tragiche: ci sono le romane così distanti, indifferenti, aliene.
Ogni ora è antica anche quella che viene. Un vecchio carrubo, orfano d'asini, tesse la sua trama inutile di rami. Una bianca luce calcinante dei meriggi riarsi fissata per sempre in noi. I licheni e il capelvenere secchi tra le crepe del muro rimandano a novembre il veleno delle sere smorte.
Uno stelo già paglia indica la carriera del sole, l'incartocciarsi di una foglia di platano, la pioggia folta e poi la luce avara, un ronzio misterioso, colpi sordi, grattugiare di ferro su ferro, segnali di attività: su tutto l'infinita Indifferenza.
Non è Omissione, celebriamo l'Assenza, perché l'Assenza è universale, già vista da Pasolini al Mandrione, a Villa Gordiani e nella “Ricotta”. Siamo a Roma e i verbi in eggiare del Pascoli è meglio non usarli.
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