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Una proposta per il mostro

di Giulio Savelli

 

Quando l'erba comincerΰ a crescere tra le crepe dell'asfalto allora il cavalcavia sarΰ romano. Faremo festa adornandolo con le svolazzanti strisce di plastica bianco e rosse dei lavori in corso, quelle che tutti ignorano. (Luigi Ciorciolini, Sopraelevata della tangenziale, 2005)

I shall now therefore humbly propose my own thoughts, which I hope will not be liable to the least objection. (Jonathan Swift, A Modest Proposal, 1729)

 

La questione di cosa fare con la sopraelevata sarebbe, in teoria, piuttosto semplice: abbattere. Non per ragioni speciali, ma perché è ovvio eliminare una struttura quando appare inidonea o vecchia – o quando suscita proteste motivate e non effimere. Ma la questione non potrà mai, a Roma, essere così banale. Chi ha chiesto e chiede la demolizione non considera che la compulsione a conservare e monumentalizzare, anche a costo di riconvertire, proviene dalla natura stessa dell'esperienza di vita a Roma. Non naturalmente nel senso che la presenza dell'antico induca a conservare tutto – non in modo così automatico, perlomeno. A Parigi o a New York per una ferrovia sopraelevata salvata (una da cui, ovviamente, non si spia negli appartamenti vicini, che non occlude il cielo a chi esce da casa) cento vengono demolite: nelle metropoli moderne si conserva (parzialmente, episodicamente) il moderno perché rappresenta la tradizione, si desidera preservare il moderno dalla modernità stessa perché è parte essenziale della natura cittadina – così come a Roma, con le stesse motivazioni, conserviamo l'antico e il barocco. Le ragioni che inducono, a Roma, a chiedere di conservare un mostro come la tangenziale est non appartengono a una tradizione del moderno che a Roma è assai poco significativa, e neppure al desiderio di conservare il poco moderno proprio perché poco, limitando fittiziamente l'orizzonte d'esperienza dei romani al perimetro del loro Comune, ma alla sedimentazione della peculiare esperienza che la città determina.

Lo spirito della città appare già osservando, semplicemente, le condizioni che hanno determinato la nascita dell'idea di conservare anziché di abbattere la sopraelevata. Se la demolizione fosse avvenuta immediatamente dopo il suo annuncio, nel 1997, infatti, non ci sarebbe stato spazio per nuove idee. Ma nessuno che conosca Roma può immaginare, anche solo per scherzo, che una demolizione come quella della sopraelevata possa essere fatta, senza polemiche pretestuose e senza pentimenti, in modo normale, cioè in tempi ragionevoli, con costi proporzionati e senza particolari disagi per i cittadini, immediatamente dopo averlo deciso e annunciato. A Roma il pensiero dell'atto precede così vertiginosamente la sua realizzazione – ovvero questa segue con un ritardo tale la decisione – che si crea un vuoto, uno spazio bianco, un tempo morto colossale, proporzionato alla storia millenaria della città, tempo di attesa che viene riempito dal pensiero della cosa stessa e dalla folla di tutte le possibili alternative. Nel caso specifico, non che si senta a Roma necessità di una passeggiata panoramica, in città non mancano le belle passeggiate: è la difficoltà nel compiere la cosa più ovvia – la demolizione – che crea l'alternativa. Il provvisorio e l'agonizzante pretende una propria nuova vita, del tutto trasfigurata, autonoma e migliore di quella precedente, e ciò a buon diritto, per il fatto stesso di esistere e durare anch'esso. Infatti, anche in presenza di una volontà politica inflessibile, di copiosi e costanti finanziamenti, di una mobilitazione popolare tenace e combattiva, di una impossibile unanimità da parte di tecnici ed esperti, la sopraelevata non potrebbe mai essere abbattuta tanto presto; il suo destino più probabile sarebbe, comunque, una lunghissima fine fatta di discussioni e chiusure a singhiozzo, su cui i romani dovrebbero tenersi costantemente aggiornati, una morte per parole precorritrice in modo tanto massiccio la sua scomparsa da renderla infine evento intrinsecamente remoto anche nella circostanza del suo inveramento. Per altri quindici anni almeno, si può facilmente prevedere, il manufatto rimarrà lì. Chi lo combatte dal 1975 – se aveva allora 30 anni, oggi ne ha 60 – sarà settantacinquenne. Una vita col mostro.

Questa attesa infinita del resto ha una singolare analogia con l'attesa di chi lassù, nell'ingorgo di ogni sera, immobile sulla tangenziale, inclinato su una curva fatta per essere percorsa in velocità, aspetta tutti i giorni di tornare a casa. In entrambi i casi la strada a scorrimento veloce ha la valenza esistenziale di un tempo rallentato, vanificato, perduto in gore tanto prevedibili quanto misteriose – di un tempo morto.

I miei nonni, nel 1968, abitavano in via Tuscolana, durante lo sventramento per i lavori dell'agognata metropolitana. Sopportavano i disagi, confidenti nella modernità – il moplen era pubblicizzato da Gino Bramieri, e il metro esisteva da un pezzo a Parigi… Il tempo morto dell'attesa fu loro letterale – scomparvero entrambi prima dell'apertura della linea A. Io abitavo in via Piccinni, non lontano da viale Somalia, e dalla finestra del soggiorno si scorgeva fra due palazzine un breve segmento del viale. Ogni pomeriggio, verso le sei, cominciava a formarsi l'ingorgo, che raggiungeva il suo acme a ora di cena: una colata di auto ferme, col motore acceso, in un irregolare, rabbiosamente fiducioso coro di clacson. Per viale Somalia il 1975, sebbene ancora la tangenziale non si raccordasse alla Salaria e all'olimpica, fu un anno felice: con l'apertura della sopraelevata l'ingorgo si fluidificò e poi scomparve. Si era spostato qualche chilometro più in là, sulla strada che poggiava sui piloni appena elevati sopra lo scalo San Lorenzo. Gli ingorghi a Roma si spostano da una strozzatura a un'altra; specialmente le strade grandi, nuove, appena aperte, sono soggette a ingorgo perché la loro spavalda ampiezza le carica di illusioni. Il fascino della modernità è ingenuamente irresistibile. Quando la linea A venne finalmente aperta i romani si riversarono in massa nelle stazioni e nei treni, il primo giorno affollati di famigliole che andavano per divertimento su e giù da un capolinea all'altro. In Europa probabilmente non esiste popolazione che meglio dei romani sappia trovare percorsi segreti per aggirare un ingorgo cronico o il giusto stato d'animo per sopportarlo. (A questo proposito va segnalata un'evoluzione: fino agli anni Settanta gli ingorghi erano accompagnati dal suono dei clacson; ora non più: l'impazienza è durata vent'anni, poi la diffusione della radio nelle auto, la maturazione anagrafica degli automobilisti, l'evidenza della vanità di ogni sollecitazione e di ogni sfogo hanno condotto alla quiete attuale: Roma è una delle città d'Italia in cui meno si usa suonare; la pazienza e la tolleranza, del resto, sono la faccia bonaria dell'assenza di civismo – propriamente: menefreghismo – dei romani). A Roma dunque il tempo fluido, veloce e omogeneo della modernità si strozza nello spazio irrazionale creato dal peso del passato – in parte materializzato nelle sue rimanenze fisiche, i monumenti, in parte reso operante attraverso l'inettitudine politico-programmatica dei suoi amministratori (che va considerata passato in quanto effetto di rapporti sociali tradizionali nella costruzione del potere, rapporti che non si sono mai sciolti compiutamente nella modernità delle istituzioni). A Roma dunque l'ingorgo non è contingenza ma essenza, colta perfettamente da Federico Fellini quando ha fatto cominciare Roma con un gigantesco ingorgo dal raccordo anulare fino al Colosseo. Analogamente, appartiene all'essenza della città la durata interminabile dei lavori che vi si compiono (un frizzo molto romano vuole «eterna» la città per la loro estensione temporale). L'inserzione del premoderno nel moderno rende il tempo dell'esperienza disomogeneo: dove ci si attende la velocità, ci si trova invece in una sorta di bolla temporale.

Il tempo morto si può definire come il rovescio del frattempo. Tempo morto è in ascensore, quando, nel frattempo, non si può fare niente. Paradossalmente, il tempo è morto quando se ne percepisce la durata, e al tempo stesso, non potendo usarlo, non si riesce a dargli una struttura. Il frattempo è quello, caratteristico della modernità, in cui alla velocità del transito nello spazio si somma l'uso utile del tempo: tipicamente, leggere un libro in metropolitana. Perché ci sia tempo morto occorre, invece, la consapevolezza che nel frattempo non si può fare niente. Così, per esempio, in un ingorgo non si può leggere un libro (se non generando irritazione in chi ci segue). Il tempo è tanto più morto quanto più percepito come dissipato. Perciò, è lo sfruttamento intensivo del tempo a determinare l'esistenza del tempo morto – ed è quindi la modernità a generare tempo morto, esattamente perché produce tempo guadagnato. Lo scacco della modernità si dà esemplarmente quando il tempo guadagnato diventa tempo perduto: quando in aereoporto il volo è sospeso, e non resta che aspettare. Si determina allora un gorgo temporale: non ci si trova nel lento tempo premoderno – quello riprodotto industrialmente quando ci mettiamo, in vacanza, in spiaggia, pigramente sotto il sole – ma in una sorta di dinamica circolare: la velocità di scorrimento più o meno rimane, ma la direzione non è lineare (la bella linearità moderna…) bensì rotatoria, analoga a quella delle lancette dell'orologio, in una logorante parodia dell'arcaico. La situazione che si determina possiamo definirla una bolla temporale.

Dentro una bolla temporale ciascuno cerca di cavarsela come può. Tenta di uscirne anzitutto – ma, non potendo farlo, proverà a reindirizzare il flusso del tempo attraverso scopi provvisori subordinati. Ciò che fa la forza del frattempo – due fini in un tempo solo – viene piegato ad ammazzare il tempo, strutturandolo in una linearietà precaria e sbilenca. Non si va in macchina per ascoltare la radio, ma in un ingorgo la si accende. Non ci si guarda attorno guidando; in un ingorgo si osserva il panorama fuori dei finestrini: altre auto, fisionomie, dettagli ai bordi della strada, cartelloni pubblicitari, paesaggio (quando c'è). E se una bolla temporale da randomica diventa cronica queste ristrutturazioni improvvisate diventano abitudini: per esempio la telefonata a casa dall'ingorgo serale prima del rientro. Il frattempo ha perso ogni tonicità, ogni enenrgia, non poggia su di un fine principale ma sbadiglia nello spazio vuoto del tempo morto.

La bolla temporale è la forma astratta del tempo morto; l'anacronismo è la forma astratta del tempo disomogeneo – il tempo della modernità costellato da bolle. Il premoderno determina le bolle temporali come un ostacolo determina una turbolenza in un flusso d'acqua. E, come ben si sa, è assai più suggestivo e rilassante un grazioso ruscelletto che una condotta o un canale. Dunque a buona ragione la modernità, specie nella versione post, ha preteso da se stessa – su scala e con modi industriali, beninteso – che il tempo del riposo e del divertimento potesse frangersi e deviare in pozze e ameni gorgoglii. Le città del divertimento incorporano l'anacronismo nel loro progetto, citandolo talvolta, come a Las Vegas, in modo didascalico. Roma è una versione storica, nel senso che è una versione spontanea e naturale, di Las Vegas. Ciò che lì, come altrove, è deliberato, a Roma è conseguenza fatale delle circostanze: via Condotti non è stata progettata come un mall, sebbene funzionalmente lo sia. Il postmoderno è a Roma del tutto naturale, ed è carattere della città ormai da un paio di secoli. A differenza del postmoderno realizzato all'interno della modernità, quello che nasce a partire dall'inserimento del moderno nella premodernità ha tuttavia effetti collaterali considerati fastidiosi – appunto, per esempio, un ingorgo sopra una strada sopraelevata a scorrimento veloce. Non che gli ingorghi non ci siano anche a Los Angeles o a New York; semplicemente, sono difetti e non peculiarità – non sono in alcun modo significativi. Il tempo perso, a Roma, matura invece, nell'interiorità dei suoi abitanti, in una sorta di indifferenza per la contingenza, sia pure urgente o ingombrante, che si intreccia con la capacità di godere della vita: ammazzare il tempo può essere un'arte. Senza che ciò impedisca, localmente per così dire, efficienza e modernità. Nessuno come un romano è allenato a saltare da un tempo all'altro come si salta sui sassi per attraversare un torrente. Considerato che l'ingorgo e i lavori in corso sono a Roma aspetti del più generale anacronismo, conservarne e anzi promuoverne l'esperienza estetizzandola convenientemente rappresenta uno degli scopi che una responsabile politica culturale cittadina deve perseguire. Sono perciò del tutto d'accordo circa il fatto che la dismissione della sopraelevata rappresenti un'opportunità irripetibile per la capitale d'Italia.

Le proposte di riconversione della tangenziale formulate finora si indirizzano al suo uso pedonale o ciclabile, integrando al manufatto esistente nuove strutture. Per chi cerca luoghi interessanti per passeggiate originali la riconversione della sopraelevata a giardino pensile è certamente interessante, così come il farne un percorso fra botteghe e laboratori artigianali, in una sorta di un bazar postmoderno. L'obiezione secondo cui chi passeggia fra botteghe e giardini si troverebbe nelle condizioni di spiare negli altrui tinelli con più agio ancora di quanto facesse chiuso nell'abitacolo della propria auto, e quella per cui chi si trova ad abitare a ridosso del mostro, ma più in basso della sede stradale, continuerebbe a essere privo di luce e della vista del cielo, sono entrambe ispirate a un gusto e a pseudo-esigenze tipicamente piccoloborghesi. Nelle più belle città del mondo, da Venezia a Parigi, i salotti dei palazzi più distinti non rimangono spesso aperti all'ammirazione dei passanti, le tende spalancate, i lampadari accesi tutta la notte? E non si desidera il rifugiarsi in piccoli borghi medievali, dove le finestre affacciano su stretti vicoli privi di luce? Perché allora non godersi il passeggio di fronte alla finestre di casa di incuriositi estranei? Finalmente passanti e indigeni potrebbero salutarsi con la mano, e anche parlarsi, sia pure alzando un po' la voce. Quanto all'ombra della sopraelevata, va considerata fonte (oltre che di un gradevole fresco durante l'estate) di un'intimità claustrofilica tutta da riscoprire.

Le proposte già formulate, tuttavia, hanno il limite di dare una qualche funzione – largamente superflua – alla tangenziale. Mentre la sua riconversione assume un senso estetico se entra in risonanza con lo spirito stesso della città. Evidentemente occorre immaginare una destinazione che, valorizzando le peculiarità dell'opera, prescinda dall'attribuirle una qualche pretestuosa finalità. La natura dell'esperienza prodotta dalla tangenziale est è infatti quella che abbiamo chiamato una bolla temporale. Ciò premesso, azzardo una proposta di riconversione relativamente alla parte sopraelevata del manufatto, che solo un pedante illuminismo urbanistico vorrebbe demolito.

Anzitutto occorre considerare la conservazione della sopraelevata provvisoria. Ciò potrebbe essere fatto con opportuni strumenti giuridici e amministrativi che ritualizzassero la proroga del suo abbattimento, escludendo implicitamente ma in modo categorico che questo possa mai effettuarsi; tale status sarebbe altrettanto significativo sul piano della percezione estetica, sebbene non identico, a quello di un monumento protetto dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali e Ambientali o dall'Unesco. Entro tale quadro, va immaginata una nuova destinazione analogamente provvisoria e suscettibile di evoluzione, in attesa che un congruo numero di secoli renda il mostro, senza alcun altro particolare intervento, una preziosa reliquia. Dunque una condizione che, riproducendo la stasi dell'esperienza di spostamento sulla tangenziale e il vagare dello sguardo sul panorama della sede stradale e della città, preveda un lentissimo, impercettibile mutamento in tale visione. Propongo a tale scopo la chiusura assoluta della strada, lasciandola al quieto crescere delle erbacce e allo svilupparsi di piante via via più robuste, allo stratificarsi dei detriti urbani volatili portati dal vento assieme ai pollini, e all'insediamento spontaneo di animali semi-selvatici – uccelli, roditori, piccoli felini – creando così, nel corso dei decenni e dei secoli, un'oasi urbana protetta a carattere sperimentale. Il panorama di questo bioparco – una lunga ferita in vitale suppurazione nel corpo della metropoli – e della splendida vista sulla città che vi si gode andrebbe ripreso, 24 ore su 24, per tutti i giorni di tutti gli anni che il futuro riserva a Roma, da un buon numero di telecamere, le cui immagini sarebbero visibili su enormi schermi piatti appesi sotto la sopraelevata, fra un pilone e l'altro.

Gli abitanti dei palazzi adiacenti all'oasi che, per loro debolezza spirituale, trovassero impensabile vivere in un posto simile quasi quanto vivere a ridosso di un'autostrada urbana, potrebbero sempre andare ad abitare altrove e affittare le stanze con vista sugli schermi a chi fosse interessato a tale panorama; avrebbero almeno il vantaggio, ricavandone una saltuaria pigione, di farsene infine qualcosa del soffocante mostro a loro destinato.

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