In occasione della prima trasmissione radiofonica di Et in Arcadia ego, brano licenziato ormai più di un anno fa, ho deciso di cogliere l'opportunità di tornare su alcuni punti che hanno suscitato interrogativi e curiosità da parte di chi questa musica l'ha analizzata, suonata, ascoltata.
Non sarà, beninteso, una guida all'ascolto, né un saggio estetico-musicologico, la si legga piuttosto come una riflessione ex post su alcuni aspetti del lavoro, un minimo armamentario di pensieri necessariamente frammentari posti disordinatamente sulla scia dell'opera, come polvere sulla coda d'una cometa.Et in Arcadia ego nasce nel primi mesi del 2013, su commissione dell'Orchestra da camera "Gli Arcadi". L'ensemble romano, dedito principalmente alla musica barocca, grazie alla spinta stilistica del direttore Massimo Munari si stava aprendo in quel momento alla musica contemporanea, deciso ad includere nel repertorio anche brani originali o trascrizioni moderne di pezzi già esistenti.
Devo al primo violino Antonello Bucca l'avermi suggerito di comporre un concerto grosso scritto ad hoc per la loro formazione, un canonico pezzo dialogico che contrapponesse al tutti orchestrale un concertino composto da due violini e violoncello.
Poteva sembrare un'idea obbligata, scontata perfino, e sulle prime non mi allettava granché la prospettiva di lavorare rischiando costantemente di scivolare nel neo-classicismo, nel barocchismo, nel manierismo.
La prassi compositiva barocca è per me decisamente troppo ricca, troppo generosa, troppo facilmente preda di orpelli ed imbellettamenti per fornire forme autentiche, territori sufficientemente desolati da accogliere nuove architetture senza rischi per la coerenza e l'integrità del paesaggio. Insomma: non è il mio modo di lavorare. Io scelgo alcuni elementi, il minor numero possibile, e su quelli costruisco il resto, secondo un processo che io amo definire di “arborescenza”.
E scarsa consolazione mi dava il fatto che di concerti grossi nella modernità ne fossero stati scritti a decine, tra gli altri quelli splendidi di Alfred Schnnitke.
Eppure l'idea era seducente, analoga a quella occorsa poco tempo prima, quando mi si chiedeva di "rileggere" Corelli per un concerto in suo onore organizzato a Roma dalla Società Italiana di Musica Contemporanea.
Per risolvere il problema di Corelli mi era venuto in soccorso il pittore irlandese Francis Bacon con il suo concetto di "emanazione"; da lui avevo indirettamente appreso che ritrarre significa spesso dover mettere assieme il coraggio e la testardaggine necessari a condurre l'atto creativo fino al parossismo.
Sarebbe stato possibile creare un territorio di mezzo, un posto in cui la modernità, l'irrinunciabile possibilità di ricerca (e quindi di scoperta) e le istanze di una forma desueta potessero non dico interagire o comunicare tra loro, ma quantomeno provare a guardarsi audacemente negli occhi?
Valeva la pena tentare, come tanti altri prima di me avevano onestamente fatto.
Ma un certo orgoglio di ricercatore avrebbe dovuto essere salvaguardato e per questo sarebbe stato necessario mettere le cose in chiaro sin da subito. Il modo più evidente per stabilire i punti fermi del mio modus operandi mi sembrò quello di impiegare una serie dodecafonica in apertura del lavoro, a sottolineare che il mio non era un "ritorno al passato" bensì un atto creativo che prendeva le mosse e si rifaceva dichiaratamente alla modernità, e a nulla di precedente.
La serie originale si presenta alla prima battuta, affidata al primo violino del tutti, ed appare contemporaneamente al suo inverso, al suo retrogrado, e all'inverso del retrogrado, in un gesto compositivo che tende a consumarla rapidamente, a bruciarla nel minor tempo possibile, per poi trascenderla ed affrancarsene.
È composta inoltre da note prive d'una loro durata ed eseguibili dal musicista in maniera intuitiva, approssimativa e non mensurale; le quattro serie così realizzate vanno a creare un brusio indistinto di fondo, di natura aleatoria, sul quale il clavicembalo intaglia perentoriamente sei ripetizioni della serie originale, procedenti dal registro grave all'acuto, tutte perfettamente notate nella reale durata delle loro note costituenti.
Benché il primo tema di Et in Arcadia ego sia esplicitamente desunto da tale serie, la dodecafonia non riveste alcun ruolo nel resto del lavoro ed è ben lungi dal costituirne la colonna vertebrale, dall'esserne il rizoma che tutto ha in sé: radici, tronco, rami, foglie.
Circa i numerosi suoni di natura percussiva che costellano la partitura, essi vanno letti esclusivamente alla luce dei concetti di imperfezione e di rinuncia; fanno eccezione il colpo di triangolo in apertura del primo tempo e lo strappo di carta poco più avanti, nello stesso movimento, affidati entrambi al secondo violino del concertino.
Mentre in questi due punti ciò che giustifica la loro presenza dal punto di vista compositivo è la pura esigenza timbrica - il suono giusto al momento giusto - in tutte le altre occasioni i suoni indeterminati, prodotti perlopiù dai violini, altro non sono che elementi di frattura del decorso musicale, di turbativa acustica, di interferenza e deterioramento della percezione sonora.
Essi possono essere compresi soltanto nell'ottica di una rinuncia volontaria e imprescindibile all'idea di opera intesa come una totalità formale ed estetica del tutto organica.
Et in Arcadia ego è inevitabilmente nient'altro che un frammento di quel tutto non manifesto ma compiuto che è l'idea originale.
Beninteso: ciò accade sempre, essendo noto che l'opera - qualsiasi opera dell'ingegno - altro non è che un'escrescenza (Carmelo Bene si spinse a dire un escremento) di un'idea primigenia, sola vera opera d'arte, minata intrinsecamente dall'impossibilità di un'incarnazione materiale che le renda pienamente giustizia. È certamente affascinante in questa ottica la posizione di Bloch secondo cui l'opera d'arte data in forma di frammento è il «pre-apparire» di una compiutezza utopica e forse di là da venire, ma certamente più autentica sarebbe una lettura che la accettasse semplicemente in quanto negazione volontaria dell'idea di opus perfectum et absolutum, essendo ogni aspetto dell'esistenza null'altro che un frammento o un sistema di frammenti.
Nel caso di Et in Arcadia ego non si tratta soltanto di gesti compositivi che mirano ad intaccare l'unità formale del pezzo - che è addirittura facilmente riconducibile alla struttura del concerto grosso italiano - bensì di azioni volte ad oscurarne la fruizione percettiva, ostacoli che vanno ad insinuarsi tra esecutore ed ascoltatore, veli che si frappongono, oggetti che colpiscono la musica lì dove la musica nasce ed ha il suo ventre molle: il suono.
Non mancano peraltro anche numerose occasioni di perturbazione del percorso sintattico-musicale, come appare evidente dalle continue interruzioni che la linea melodica subisce nella sezione finale del terzo movimento: vi è in qui uno svolgimento tematico che non può condurre con sé chi lo ascolta, sottoposto com'è a cesure che lo invalidano irrimediabilmente rendendolo strutturalmente inefficace. È un tema che non riesce a trovare la propria compiutezza se non nel momento in cui l'intera struttura del brano verrà portata a definitiva conclusione, una melodia che si trascina, che stenta ad elevarsi e ci riesce soltanto quando è ormai venuto il tempo di tacere.
Procedendo nel mio lavoro di anno in anno, di brano in brano, si fa sempre più chiara la percezione che la musica non possieda le caratteristiche necessarie e sufficienti a renderla un oggetto-in-sé ma che essa sia soltanto il riflesso d'un pensiero altro, la manifestazione - una delle manifestazioni possibili - di un'idea creatrice intangibile ed ineffabile, sempre incomunicabile nella sua totalità.
La musica non è res, non è materializzazione compiuta del pensiero creativo; e questo non solo per i suoi caratteri di impermanenza, di ambiguità, di insostanzialità, ma anche - e soprattutto - per quel fatale ammutolire del pensiero che la indaga. Sul sentiero che a ritroso dovrebbe condurci dal fenomeno musicale alla sua genesi più intima, l'estetica, l'ontologia, la musicologia hanno parole che tendono irrimediabilmente al silenzio.
L'evento sonoro mi appare semplicemente come uno dei modi di descrizione dei caratteri di un'idea, senza per questo essere l'idea stessa, così come la natura corpuscolare e quella ondulatoria sono due modi di descrivere le proprietà dei fenomeni luminosi senza essere la luce.
Pur sottolineandone decisamente i limiti storici e culturali, dobbiamo riconoscere alla trattatistica medievale - ed in particolare alla tripartizione di Boezio in musica humana, mundana ed instrumentalis - un fondo di luminosa verità: l'intuizione che la musica strumentale altro non è che l'esito più materiale, il frutto più concreto d'un processo creativo che è comunque sempre desinenza di un altrove, emanazione di un ordine superiore e celato.
La differenza tra la mia mano e la matita che essa impugna consta in una diversa organizzazione degli atomi; non possiamo vederlo ad occhio nudo ma abbiamo potuto intuirlo ed ora lo sappiamo con certezza. Così la musica, al pari di altre discipline, non è che la mera forma visibile - o, per meglio dire, udibile - d'un ordine sotteso, un fondo latente ed energico, che reclama la propria manifestazione. Potremmo scorgerlo forse ad occhio nudo se non fossimo costantemente immersi nella tirannia del macroscopico.
E qui, in questa tensione tra il puro atto creativo e la corruzione materica che ne renderà manifesta almeno un'ombra, si precisano le istanze dell'arte e delle discipline che la indagano, in quello che è uno dei propositi fondamentali dell'estetica: rendere visibile l'invisibile.
La musica non è res dicevamo, intendendo che essa non è mai puro atto creativo ma che si configura sempre come parte costituente d'un soggetto più ampio, complesso e strutturato. L'idea musicale (senza voler estendere tale principio ad ogni forma artistica, benché sia persuaso che esso manterrebbe la sua validità) è sempre un fare sinestesico e comporre è un'azione arbitraria, lesiva e mutilante, volta ad escludere per necessità le altre implicazioni disciplinari e multisensoriali, ripiegando sulla scrittura musicale come medium d'occasione e del tutto incidentale, in un processo creativo dettato più dalle proprie capacità, dal proprio percorso formativo, dalle proprie inclinazioni artistiche, che non da reali esigenze espressive.
Anche quando l'opera musicale si presenta senza alcuna implicazione sinestesica, quando è per così dire pura o ha la pretesa di esserlo, essa si rifà ad un'architettura esterna ed allo stesso tempo interna e profondissima, come testimonia chiaramente e più efficacemente di ogni mia parola l'Arte della Fuga di Johann Sebastian Bach, in cui l'organico di destinazione - volutamente omesso dall'autore - non riveste più alcuna importanza.
Per quanto l'opera musicale sembri non avere oggetti correlati, essa - come un'ombra - sottende sempre e comunque un oggetto generatore e si riferisce costantemente ad una gerarchia ignota e biologica, un ordine che possiamo solo intuire, intravvedere, percepire vagamente, un sistema che attiene certamente alla natura della musica ma che è ancora altro e ancora prima della musica stessa.
Roma, 29 Giugno 2014