«Che ne è dell’approccio metafisico all’arte? Il tempo, nel suo scorrere, continuità incessante di mutazioni e transitorietà che sfocia nella morte, è presente nelle opere degli artisti degli anni settanta, dove la performance concettuale si mescola a una riflessione sul tempo lungo e sulla perdita irrimediabile. Riformulata dagli artisti a partire dagli anni novanta nell’era del “presentismo”, o del presente sospeso, oltre che dell’iperistantaneità, il concetto di tempo riappare oggi con una nuova tonalità metafisica» scrive Cristine Macel nella sua presentazione del Padiglione del Tempo e dell’Infinito, l’ultimo dei nove padiglioni, altrettanti capitoli, su cui si articola VIVA ARTE VIVA, la 57esima edizione della Biennale d’Arte di Venezia da lei diretta.
Concepita nell’intenzione di mettere l’artista, come creatore di mondi, al centro della riflessione sull’arte, si dipana partendo dai nutrimenti culturali del fare arte, accogliendone gli aspetti dionisiaci e sciamanici e infine approdando a una riflessione sul tempo e sull’infinito, condensata in un’opera nitida e impalpabile che ne sublima l’essenza, One Thousand and One Nights dell’artista belga Edith Dekyndt: nella densa oscurità di una sala un performer spazza incessantemente un manto di polvere verso un rettangolo luminoso proiettato sul pavimento che si sposta continuamente, secondo un movimento meccanizzato, in un’azione che non termina mai, per tutta la durata dell’esposizione.
La polvere incontra la luce in una danza aerea che si rinnova incessantemente e l’azione del performer, inghiottito dal buio dello spazio, si ripete ogni volta daccapo, come la voce narrante di Sherazade nelle storie delle Mille e una notte evocate dal titolo dell’opera o come la fatica di Sisifo nel trascinare senza fine il masso sulla montagna. L’azione reiterata non è però mai la stessa, i confini del rettangolo luminoso e del tappeto di polvere mutano, si spostano, in un movimento continuo che visualizza nella sua assoluta semplicità l’impermanenza del Tempo.
Nella performance questo concetto è evidente, come è chiaro il suo farsi in un presente assoluto. Una ripetizione ogni volta differente che, proprio in questa Biennale, risuona con forza negli spazi delle Prigioni, sede del Taipei Fine Arts Museum di Taiwan, completamente dedicati a dare il giusto peso all’opera performativa radicale e durissima di Tehching Hsieh. Doing Time ci parla appunto del tempo che passa, si consuma, in un percorso in cui vita e opera artistica sono legate indissolubilmente.
Tehching Hsieh, giovane artista taiwanese immigrato clandestinamente a New York, ha dato vita, a partire dalla fine degli anni settanta, a cinque performance estreme di lunga durata in cui la sua vita stessa coincideva con l’opera artistica che si andava facendo. In mostra a Venezia ha ricostruito nei dettagli due delle sue più rigorose One Year Performance, sviluppatesi appunto nell’arco di 365 giorni ciascuna, concepite dopo aver vissuto per un intero anno in una condizione di autoprigionia (Cage Piece, 1978-1979), in cui la privazione dello spazio e l’astensione dal fare qualsiasi cosa se non pensare, hanno prodotto lo straordinario effetto di liberarne la mente, in una condizione che ricorda le esperienze meditative e contemplative di tanti mistici, rendendole tangibili.
Dopo essersi misurato con la privazione dello spazio vitale, Tehching Hsieh si è focalizzato sul tempo, così centrale del resto nella totalità del suo essere artista, portando ai limiti estremi la disgiunzione tra il tempo del lavoro – costruzione sociale del sistema capitalistico – e la percezione del proprio vissuto temporale.
In One Year Performance 1980-1981, le cui regole, come in precedenza e nelle altre opere che seguiranno, sono strettamente definite in un contratto sottoscritto dall’artista, Hsieh si sottopone ad una totale privazione del tempo e del sonno, autocostringendosi per un intero anno a timbrare il cartellino su un orologio marcatempo installato nel suo studio, ventiquattr’ore su ventiquattro. In uno stato di continua alterazione psico-fisica, la sua fatica appare simile a quella di Sisifo, immensa eppure inutile.
Un enorme spreco di tempo, sottratto alla vita vera, scandito dalla macchina del tempo sociale del lavoro, regolato da una rigida disciplina, per fare nulla. Un cortocircuito potente, che sottopone alla nostra riflessione. Delle 8760 timbrature necessarie a completare l’opera, ne mancano però 133. Solo 133. Ma per 133 volte il suo corpo si è sottratto al tempo pre-definito della macchina per abbandonarsi al sonno, 133 piccoli spazi vitali, inconsce ribellioni all’implacabilità dell’ingranaggio autoinflittosi.
Nella ripetizione sempre differente un autoscatto sigla ogni timbratura del cartellino e ci mostra la stanchezza sul suo volto che cambia impercettibilmente ogni volta, i suoi capelli crescere, i tratti del viso alterarsi. Cosa ci resta di questo anno consumato “doing time”? Una parete tappezzata di autoscatti e dei resoconti delle timbrature e un film struggente in cui in sei minuti sono condensati tutti i fermo immagine di un anno intero, ora per ora. L’immagine tremolante di un corpo sussultante, i capelli che crescono senza controllo, pile di cartellini accatastati, lancette che corrono vorticosamente… una vertigine temporale che scuote il corpo e la mente.
La reiterazione continua e ogni volta diversa che scandisce le sue performance è infine documentata dall’altro grande impegno performativo che a questo è seguito, One Year Performance 1981-1982. La privazione è questa volta di ogni riparo, nell’autoimposizione di trascorrere un intero anno abitando solo gli spazi esterni di New York, esponendosi a una vulnerabilità estrema, condividendo con i senzatetto e tutti i marginali il degrado fisico, il rigore del tempo, la paura della violenza della strada e della legge. Anche questa lunga performance estrema è documentata meticolosamente dagli itinerari tracciati giornalmente sulla mappa di New York e dalle foto di Life Image, immagini di vita fermate in autoscatti durante il lungo anno passato all’esterno, meditando sulla necessità di un riparo, di abitare uno spazio cui appartenere. Un ammasso dei suoi abiti logorati e impastati di polvere e fango giace come una natura morta in una teca a testimoniare il tempo passato e condiviso con quei cenci.
«Perdere tempo è il mio concetto di vita. La vita non è altro che consumare il tempo fino a che non si muore» sostiene l’artista, ma al tempo stesso crede nella profonda necessità interiore di spingere l’arte e la propria vita fino a questi estremi: «Devi fare dell’arte che sia più forte della vita, in modo che le persone possano sentirlo. Come dice Franz Kafka, devi prendere un’ascia che rompa il mare gelato dei cuori della gente».
Roma, 25 Aprile 2019