La Critica

L'Angelo della Storia

Uno sguardo sull'arte dalla Biennale a Manifesta

di Alessandra Cigala

Alla vigilia di una Biennale che si annuncia, nelle parole di Christine Macel, all'insegna della fiducia nell'azione artistica come «atto di resistenza, di liberazione e di generosità» nei confronti del mondo, è tempo di riflettere sulle prospettive di apertura e di azione che il dibattito artistico contemporaneo ha messo in campo nelle sue manifestazioni più recenti, dalla Biennale di Enwezor a Manifesta 11. Pensieri stimolati anche dalla recente uscita de L'arte espansa di Mario Perniola, una riflessione sullo stato attuale dell'arte, dalla svolta destabilizzante e outsider della Biennale di Gioni a quella più accademica e integrata dell'ultima di Enwezor.

Quando nel 1940, nei cupi giorni della Francia occupata, Walter Benjamin scrisse le sue Tesi di filosofia della storia, affidò all'Angelus Novus di Paul Klee, che possedeva e che molto amava, le sue considerazioni amare sulla storia come «cumulo di macerie» incombente sul presente degli uomini. All'arte riconosceva quindi il ruolo insostituibile, attraverso improvvise "illuminazioni" - «immagini che guizzano via e illuminano per un istante il presente» - di aiutarci a vedere oltre, verso il futuro, con sguardo lucido e preveggente.

Quelle poche righe che scrisse sull'«angelo della storia» erano tra le carte che Hannah Arendt portò con sé attraversando il confine con la Spagna a Port Bou, dove solo pochi mesi prima Benjamin aveva messo tragicamente fine ai suoi giorni, inseguito dai fantasmi del nazismo, divorato dalla paura, precipitando in un abisso senza fondo.

È nel segno di quello scritto che Okwui Enwezor ha concepito la sua mostra per la 56. Biennale d'Arte e da lì è giusto ripartire: «C'è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.»

Sarà solo quest'orrifica visione del passato, per Benjamin, a motivare una spinta irrevocabile verso un futuro che si vuole diverso. In fondo, un'identica tensione messianica segna la Grande Sera anarchica, la notte oscura e disperata che reca in sé il desiderio stesso di un radicale cambiamento, una nuova alba salvifica. E a Venezia, nere come le bandiere dell'anarchia, le tele di Oscar Murillo, mute sentinelle raccolte in fila, guardiane della soglia del Padiglione Centrale ai Giardini, accoglievano i visitatori.

Una concezione apocalittica della storia ha animato la Biennale di Enwezor, riverberandosi fin nella scelta delle opere con cui inaugurare gli spazi, condizionando così l'intera mostra. Il primo impatto, al suo interno, era ancora una volta con il passato di lutti e orrori che ha segnato la nostra epoca: Il Muro Occidentale o del Piantodi Fabio Mauri, un'intera parete di vecchie valigie che sbarrava il passo imponendosi con tutto il suo carico di dolore, evocazione di innumerevoli viaggi senza ritorno. Del resto, anche l'incipit alle Corderie dell'Arsenale non era da meno: la violenza trattenuta delle inquietanti Nympheas di Adel Abdessemed faceva fiorire sul pavimento taglienti bouquet di scimitarre e coltelli da attraversare in un trasalimento continuo tra attrazione e pericolo. Una perfetta metafora della crudeltà quotidiana compagna delle nostre vite in questi giorni oscuri.

Costretti così a guardare in faccia una volta di più i conflitti, gli orrori, le inquietudini del nostro tempo, sapremo mai immaginare i «futuri del mondo»? La domanda resta senza risposta, in una mostra in cui a prevalere sono le macerie, le rovine e stentano a prendere forma All the World's Futures che gli artisti dovrebbero indicarci.

Pesa il passato sul nostro presente, continuerà a condizionare il futuro se su questo passato non si avvierà una profonda riflessione. Solo comprendendo il passato comprenderemo noi stessi. Le bandiere gettate a terra come stracci vecchi di Ivan Grubanov, nel Padiglione della Serbia, sono quelle delle United Dead Nations, le nazioni che non esistono più - l'Unione Sovietica, l'Impero Ottomano, la Yugoslavia... - ma che ancora ci parlano, parlano ai luoghi che prima occupavano sulla Terra, entità fantasmatiche che incombono, intossicano i pensieri, alimentano miti e risentimenti, dominando il nostro presente e vincolando il nostro futuro. Ma le domande che rivolgiamo al passato sono in realtà le nostre domande. Dobbiamo imparare a interrogarlo, superandone la visione annichilente delle «rovine su rovine» che si ammucchiano ai nostri piedi, come a quelli dell'angelo di Klee, sottraendoci l'aria. Trovare in esse la spinta per il cambiamento. Perché la storia non è un processo lineare, come ci ricorda Benjamin, ma un tempo fatto di scarti improvvisi, istanti illuminanti e rivoluzionari.

Ripartire da Marx, per Enwezor, vuol dire allora condividere le attese e le promesse messianiche che non abitano solo i pensieri del movimento anarchico. Ma la quotidiana lettura del Capitale che liturgicamente ha propinato ai visitatori della Biennale sembrava contraddire nei fatti ogni impeto, riducendosi in stanca e ripetitiva ritualità. Interrogandosi sul marxismo come tuttora valida chiave interpretativa per agire sul tempo della storia e sull'attualità del pensiero di Marx per immaginare «tutti i futuri del mondo», Enwezor in realtà ha concepito una mostra scarsamente empatica, poco "illuminante" e, nonostante le numerose presenze di artisti del Sud del mondo, decisamente orientata al corrente pensiero e al modello espositivo del sistema occidentale dell'arte. In fondo, nonostante le premesse, poco coraggiosa, contraddicendo l'ispirazione densa di aspettative e ottimistica data al titolo All the World's Futures. In definitiva, si può convenire con Perniola, che sottolinea che «la Biennale di Enwezor realizza una svolta accademica da opporre alla svolta fringe di quella precedente».

Sempre nel segno di Marx, ma in chiave meno ideologica e apocalittica, si può leggere invece la proposta di Christian Jankowski per Manifesta 11, la biennale itinerante europea che la scorsa estate è stata ospitata da Zurigo, città della finanza e del denaro. Ci voleva lo sguardo spiazzante di un artista per andare oltre il clichè e cercare di far entrare in connessione il mondo dell'arte con la realtà lavorativa degli abitanti della città. Il lavoro è tornato di nuovo al centro dei nostri pensieri. What People Do for Money: Some Joint Ventures è stato il tentativo di creare uno scambio, un contatto che potesse lasciare qualcosa a ognuno degli attori di questa operazione: un bagno nella realtà per gli artisti, un guardare il mondo e il proprio lavoro da un'altra prospettiva, aprendo varchi all'inaspettato, per gli abitanti di Zurigo.

Anche se poi il lato buio del nostro presente è riapparso al centro della città, nell'imponente museo della Helmhaus, trasformato da Santiago Sierra e da Marcel Hirsch, responsabile di una società di sicurezza zurigese, in un Protected Building. Occludendone quasi tutte le aperture con sacchi di sabbia, circondandone il lato sul fiume con del filo spinato, Sierra ha provato a farci sentire nel cuore della quieta e sazia Svizzera l'angoscia del dover vivere quotidianamente sotto assedio: «Immaginate che questo edificio non sia in Svizzera, ma in Siria o in Iraq».

L'arte è un dono prezioso: ci stimola a guardare più lontano, colpendoci al cuore con la potenza di immagini dure o poetiche, comunque perturbanti, che parlano anche alla nostra mente. Come l'installazione forse più "politica" della Biennale scorsa, nel Padiglione di Tuvalu, Crossing the Tide di Vincent J.F. Huang. Nello spazio vuoto e allagato, saturo di vapori, sottili passerelle simili a quelle usate dai veneziani per fronteggiare l'acqua alta, guidavano lo stento cammino, sempre sull'orlo di finire sommerso, a ricordarci gli sconvolgimenti cui il cambiamento climatico può portare, facendo scomparire sott'acqua interi territori, come il minuscolo arcipelago del Pacifico o la stessa Venezia.

È questo forse il modo in cui l'arte può dare un senso agli sconvolgimenti del nostro tempo e immaginare nuovi futuri per questo mondo.

Roma, 28 Aprile 2017