La Critica

Tempi perturbanti

di Alessandra Cigala

In queste giornate cupe, a tre anni esatti dall’apparizione nel Padiglione centrale della Biennale ai Giardini, l’inquietante installazione di Sun Yuan Pen e Peng Yu, Can’t Help Myself, ci appare un monito più attuale che mai. All’interno di una teca trasparente si muoveva inarrestabile un braccio meccanico intento a contenere un liquido vischioso rosso scuro, senza però riuscirci del tutto, in un incessante tentativo di nascondere agli occhi di chi guardava il dilagare di questo fluido simile al sangue. Le azioni sgraziate elaborate al computer e messe in atto da questo moderno e macchinico Sisifo tentavano di nascondere maldestramente lo spargimento del liquido denso, che schizzava sui vetri, in un’azione ipnotica che inchiodava gli spettatori che, come voyeur, assistevano a questo eterno minaccioso spettacolo, senza entrarvi in contatto diretto, ma osservandolo in uno stato di tensione crescente. Un’opera aperta a infinite letture, ma anche una metafora più che mai attuale dei “tempi interessanti” che stiamo vivendo.

Facendo riferimento a un’espressione apocrifa cinese, in realtà una costruzione culturale occidentale, gli “interesting times” cui alludeva il titolo della Biennale del 2019, May You Live in Interesting Times più che a tempi esclusivamente minacciosi andavano intesi come un invito a considerare la realtà e a saperla leggere nella sua complessità, evitando le semplificazioni che troppo spesso ci evitano lo sforzo di interrogarsi, di approfondire e l’universo comunicativo mediatico ci induce ad abbracciare. Questa dovrebbe essere la funzione dell’arte, nelle parole di Ralf Rugoff: “… l’aspetto più importante di una mostra non è ciò che accade all’interno dello spazio espositivo, bensì il modo in cui il pubblico utilizza l’esperienza in un secondo momento, per ripensare realtà quotidiane da prospettive ampliate. Una mostra, in altre parole, dovrebbe trarre il meglio dall’abilità dell’arte di mostrare alle persone modalità fino ad allora trascurate di esistere nel mondo, affinché possano modificare - anche se per poco - la propria visione di quel mondo e la posizione che occupano al suo interno. Ecco che cosa significa vivere in tempi interessanti”.

Nell’ampia sala al centro del Padiglione, con Can’t Help Myself irrompeva il perturbante. Una violenza trattenuta a fatica si insinuava verso gli sguardi di chi, però, poteva solo limitarsi a osservarla dall’esterno e a provarne inquietudine, senza trovarcisi immerso davvero, in tutta la sua crudezza, ma restando al di là del vetro, come al di là di uno schermo. Spettatore. Persino delle movenze vagamente ironiche che la macchina ogni tanto alternava al gesto continuo dello spalare e contenere quel liquido così simile al sangue. O a ridefinire incessantemente i confini di questo ininterrotto debordare.

Il sangue - ma questa volta sangue vero, il proprio sangue - era già stato al centro di una delle loro prime performance, Link of the Body, del 2000, in cui si erano sottoposti a un’inutile trasfusione verso i feti di due gemelli siamesi. Si trattava di una delle prime opere di Sun Yuan Pen e Peng Yu, tutte incentrate sulla fisicità dei corpi e dei materiali organici, come la colonna di grasso umano, prelevato da centri di chirurgia plastica pechinesi e composto a formare un monolite in Wenming Zhu (2001), con il significato amaramente ironico di Pilastro della civiltà. Un pilastro di grasso, che come una colonna classica sul suo basamento si ergeva a feticizzare la carne come estremo atto consumistico specchio dei tempi. Sia nell’uso di materiali corporei delle prime opere, sia nel raffreddamento dato dalla virata più attuale verso l’universo macchinico e computerizzato le opere del duo di artisti cinesi sono cariche di una tensione trattenuta e costante, che produce una forte inquietudine nello spettatore, restando aperta a molteplici interpretazioni. Anche nella seconda opera esposta alla Biennale, Dear, all’attrazione iniziale presto sopraggiungeva un senso di inspiegabile minaccia. Un trono candido, come di marmo, ma in realtà in silicone, con un drappo poggiato evocante una monumentale classicità, all’interno di un’altra teca trasparente nella navata delle Corderie dell’Arsenale, faceva bella mostra di sé, attirando lo sguardo degli spettatori incuriositi dalla sottile “coda” che sembrava spuntare dalla seduta. All’improvviso la “coda”, in realtà un tubo in gomma fortemente pressurizzato, si animava, dimenandosi come uno scudiscio, lasciando le proprie impronte striscianti sulle pareti in plexiglas tra suoni secchi e sibilanti. Così stati di calma solenne si alternavano ad attacchi convulsi. Di nuovo l’insondabilità del perturbante si affacciava a inquietare chi assisteva a questa azione. Restando però comunque sempre spettatore.

Alla sottile e polisemica violenza sottesa alle opere di Sun Yuan Pen e Peng Yu faceva da contraltare, nello stessa sala del Padiglione centrale, un pezzo di realtà direttamente trasferito dal Messico a Venezia. Si trattava del muro in cemento, crivellato di colpi di arma da fuoco e sormontato da filo spinato, di una città al confine tra Messico e Stati Uniti, Muro Ciudad Juarez, che insieme all’altra opera di Teresa Margolles all’Arsenale, La Busqueda, ci mostrava tangibilmente la violenza dei narcotrafficanti e quella sulle donne nel suo paese. In quest’ultima opera di nuovo l’artista aveva prelevato dalla realtà i materiali con cui aveva costruito la sua installazione: tre pannelli di vetro provenienti dal centro di Ciudad Juarez, sui quali erano ancora visibili i resti di manifesti con i volti di donne scomparse, probabili vittime di femminicidio, di cui si chiedevano notizie. Sbattendoci in faccia in tutta la sua crudezza le conseguenze di questa enorme violenza, moltiplicava l’effetto ansiogeno con un suono costante a bassa frequenza, la registrazione del rumore prodotto da un treno che attraversava la città, che faceva vibrare i vetri, accentuando la sensazione di pericolo e di inquietudine dell’intero lavoro.

Ancora un artista, sempre nella stessa sala, ci parlava di violenza in un ciclo che si rinnovava continuamente. Christian Marclay opera appropriandosi dei materiali con cui compone le sue opere campionandoli, tagliandoli, manipolandoli, assemblandoli e giustapponendoli. In entrambe le opere concepite per la Biennale la protagonista era la violenza che emerge nell’intrattenimento, nelle forme più diffuse di fruizione di massa, nell’universo ludico del fumetto come nella spettacolarizzazione cinematografica. Nel Padiglione centrale, con Scream (Tongue), creava delle maschere tragiche con frammenti di fumetti americani e manga giapponesi a comporre volti urlanti, trasponendoli in xilografie che evocavano l’angoscia delle incisioni espressioniste. All’Arsenale entrava in chiave più cacofonica e disturbante nell’evocazione della guerra in 48 War Movies. In questo caso, invece che per frammenti, i quarantotto film di guerra che l’artista aveva selezionato erano riproposti per intero, uno sovrapposto all’altro e di ognuno si riuscivano a vedere solo i bordi esterni, ma il sonoro di ciascuno era diffuso nella sua integrità in una sovrapposizione continua con tutti gli altri. In una proiezione che sarebbe potuta andare avanti all’infinito, senza pause, tutta l’insensatezza della violenza si mostrava in questo assordante e confuso coacervo di suoni e immagini.

Anche qui, in un’azione senza fine. Come quella del braccio meccanico di Sun Yuan Pen e Peng Yu, mentre allo stesso tempo la macchina ci dice con una certa angoscia “can’t stop myself”. Per un’inspiegabile casualità prerogativa dell’universo dei social network, improvvisamente, alcuni anni dopo la sua creazione (il 2016, in occasione della mostra Tales of Our Time al Guggenheim di New York) e della sua riproposizione alla Biennale di Venezia nel 2019, Can’t Help Myself nel novembre del 2021 è divenuta di tendenza su Tik Tok, riproposta e ricondivisa con un sottofondo di musiche melanconiche al posto dei rumori meccanici che scandivano i suoi movimenti, vista quasi con compassione come un organismo condannato a ripetere sempre la stessa azione, ma senza probabilmente cogliere l’aspetto più inquietante di questa azione. Che invece ci ritorna alla mente di nuovo ora, in tutta la sua forza perturbante, più attuale che mai, nei giorni bui che stiamo attraversando, inducendoci a sempre nuove riflessioni.

Roma, 2 Aprile 2022