La Critica

Intervista a Gianni Vattimo

di Caterina Falomo

 

Gianni Vattimo è nato nel 1936, a Torino, dove ha studiato e si è laureato in Filosofia; ha poi seguito due anni i corsi di H. G. Gadamer e K. Loewith all'università di Heidelberg. Dal 1964 insegna all'Università di Torino, dove è stato anche Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. Nelle sue opere, Vattimo ha proposto una interpretazione dell'ontologia ermeneutica contemporanea che ne accentua il legame positivo con il nichilismo, inteso come indebolimento delle categorie ontologiche tramandate dalla metafisica e criticate da Nietzsche e da Heidegger. Un tale indebolimento dell'essere è la nozione guida per capire i tratti dell'esistenza dell'uomo nel mondo tardo moderno, e (nelle forme della secolarizzazione, del passaggio a regimi politici democratici, del pluralismo e della tolleranza) rappresenta per lui anche il filo conduttore di ogni possibile emancipazione.

Le tesi più critiche nei confronti della supremazia della tecnica hanno sostenuto con forza che il progresso tecnico-scientifico ha portato a una irreversibile decadenza dell’umanesimo: la superpotenza della tecnica non mira ad altro che al proprio potenziamento, per cui avrebbe già sottomesso ogni cosa, primo fra tutti il dominio del pensiero, e di conseguenza la stessa "vera essenza" dell’uomo, nonché la possibilità di affermare valori etici. Cosa pensa di queste affermazioni? E che responsabilità hanno i filosofi nel formularle?

Avrei tutte le carte in regola per essere d’accordo su tali affermazioni dato che mi sono formato sui testi di Arnheim, di Nietzsche, di filosofi in qualche modo "reazionari". Ma oltre a Nietzsche - che era una sorta di "baby-pensionato" che frequentava solo baronesse e che non mi sembra capisse molto dei movimenti sociali dell’epoca - anche Heidegger era uno che pensava ancora la tecnica dal punto di vista del motore, ovvero pensava alla tecnologia come a un movimento dal centro alla periferia, senza ritorno. Del resto, anche Adorno, quando criticava il mondo della comunicazione, aveva in realtà in mente Goebbels che parlando alla radio persuadeva i tedeschi ad andare in guerra. Poi è nata la tecnica elettronica, per cui, ad esempio, nella programmazione televisiva si deve tenere conto dell’audience: se le ditte non pagano le pubblicità i programmi non possono sostenersi economicamente. Allora il discorso finisce per essere che c’è forse una certa speranza nella logica interna a certe tecniche. E la speranza è appunto che si autocontrollino e come in una dialettica di tipo marxiano ci offrano la possibilità di un gioco diverso.

Un saggio che ho trovato decisivo da leggere in questo senso è quello di Heidegger compreso in «Sentieri interrotti» intitolato «L’età dell’immagine del mondo» perché lì inizia un discorso significativo: la scienza produce un’immagine del mondo, successivamente le scienze si moltiplicano, si specializzano, e l’immagine di mondo che esse producono entra in una sorta di conflitto. Oggi, del resto, lo vediamo già: non c’è "La" Scienza, ci sono le scienze che parlano spesso linguaggi difficilmente compatibili tra di loro. Heidegger estremizzava questo, dicendo che lo sviluppo delle scienze produce addirittura dei conflitti tra le varie immagini del mondo che le singole scienze costruiscono, dopo di ché, in questo conflitto, l’immagine del mondo diventa impossibile e comunque incalcolabile. Il saggio è interessante perché si conclude invocando il gigantesco, l’incalcolabile, cioè ciò che ci sfugge, e non so fino a che punto per Heidegger questo sia positivo. Lì ci sono questioni che sono legate ad un altro concetto di Heidegger che io interpreto in maniera forse eccessivamente favorevole al mondo della tecnica e che lui forse non intendeva così, ossia l’idea del Ge-Stell, che vuol dire «l’insieme dello Stell», cioè l’insieme di ciò che l’uomo pone come tecnologia. Io lo interpreto così e anche quando ho chiesto un’interpretazione di ciò a Gadamer lui mi ha risposto che lo stesso Heidegger gli era sembrato consapevole dell’eccezionalità della tesi esposta nella conferenza «Identità e differenza» dove il Ge-Stell viene guardato addirittura come «un primo lampeggiare dell’essere».

Sono convinto che non bisogna esagerare in una polemica contro la tecnologia perché mi sembra 1) ispirata ad una visione della tecnologia che non tiene conto degli aspetti bidirezionali, perché la tecnologia non è soltanto un centro a cui una periferia corrisponde passivamente; 2) che lo stesso Heidegger effettivamente aveva pensato a qualcosa di questo genere proprio in quel passo di "Identità e differenza" dove chiama appunto il Ge-Stell "primo lampeggiare dell’evento dell’essere" e 3) che questa quindi rimane una speranza. Ancora una volta prendiamo spunto da Heidegger: egli non ha mai detto che bisognava superare davvero la metafisica perché era consapevole di quanto ciò fosse difficile da fare - e con la tecnica lo è altrettanto - ma ci ha piuttosto suggerito che si poteva "pervertirla". Io, per esempio, mi propongo sempre di andare una volta al 'salone dell’erotismo' perché lì sembra proprio che certe tecniche - da quel che si dice - vengono usate per usi totalmente differenti... Pensiamo alla pratica di utilizzare il casco e i guanti per accedere alla "realtà virtuale" e provare un’esperienza estraniante credendo sia vera. Questo è un modo di pervertire una tecnologia che invece è nata per motivi militari.

Il professor Galimberti ha posto questa domanda: «Come fa l'etica che non può, a dire alla scienza e alla tecnica, che possono, di non fare ciò che possono?» A me sembra che l'attenzione sia sempre rivolta verso l'esterno, come per dire che è tutto inevitabile. L'etica non ha forse delle colpe?

L’etica ha delle colpe nel senso che non riesce a imporsi alla politica. Dicendo questo Galimberti pecca di eccessivo logicismo alla Severino, per cui dato ciò segue ciò; io, invece non ho mai creduto neanche a Severino quando dice "se dici questo devi dire anche questo". Il principio di non contraddizione è un principio di un linguaggio che però trasferito immediatamente alle logiche di cose diventa problematico, perché se diciamo così non possiamo dire così e in questo senso Galimberti mi sembra troppo deduttivo. L’etica ha bisogno di essere praticata politicamente, anzi non vedo nessun altra etica se non la politica: Aristotele in fondo aveva ragione quando diceva che il culmine dell’etica era la politica, perché - Aristotele in realtà non diceva proprio questo... non vorrei tirarlo per i capelli - la politica è, come dire, il senso dell’etica, perché l’etica non è fatta di imperativi, è fatta di imperativi di rispetto dell’altro, di accordo, ecc.

Quindi dovrebbe essere il fondamento della politica?

Certo. Diciamo che l’etica dovrebbe diventare politica nel senso migliore e non credere nei principi strettamente propri e, soprattutto in relazione alla logica interna alla scienza - una logica appunto del tipo «se abbiamo inventato questo necessariamente inventiamo quest’altro» - deve opporsi a una determinata logica sociale dell’uso della scienza. Io sono convinto che la filosofia della scienza nel ventesimo secolo, deve essere una filosofia sociale della scienza, cioè intesa nel senso di un uso sociale della scienza. E questo si può fare. Con ciò non sto dicendo proprio che si possa impedire ai ricercatori di fare delle ricerche, anche perché le ricerche oggi molto ragionevolmente sono sempre più necessariamente sostenute da quantità enormi di denaro che richiedono l’intervento pubblico, delle aziende, ecc. Quindi effettivamente l’unica risposta etica a questo è un controllo politico vero e proprio della nostra comunità su ciò che si può fare e su ciò che non si può fare. Io, ogni volta che mi trovo a parlare su tale questione, dico che il potere ha tre sensi: 1) potere nel senso tecnico scientifico (si può clonare la scimmia, fare l’uomo scimmia) 2) potere in senso etico duro, allora bisogna vedere se possiamo ricavarlo da qualche principio generale a cui io non credo più, 3) però il potere è anche mettersi le dita nel naso in presenza degli altri. E con ciò intendo dire che non c’è nessuna cosa che sia "stravietata" dalla natura perché altrimenti cadiamo nella ferrea logica papale, ma è vietato semplicemente in relazione al rispetto dell’altro, che non è solo una questione di etichetta ma soprattutto di etica.

In una società in cui clonare sia possibile tecnicamente ma impossibile socialmente nessuno di noi vorrebbe andare a cena con un clone. Effettivamente bisogna che l’etica faccia più attenzione all’etichetta, che faccia attenzione a ciò che è ragionevolmente possibile presentare agli altri, perché altrimenti succede che, quando uno si crede davvero un profeta, può diventare un altro Hitler e credere di aver scoperto che sterminare otto milioni di persone sia il suo compito, senza aver mai chiesto il parere a nessuno... certo non agli ebrei. Ecco perché bisogna stare attenti.

Il tempo della tecnica, della società neocapitalista, è un tempo che si riduce proprio diventando sempre più veloce. E più veloce gira il mondo, più l’uomo ha meno tempo per pensare. La tecnica impone il tempo dell’esistenza, per cui l’uomo non ha più tempo per riflettere sul fine ultimo e, paradossalmente, dietro alla frenesia del vivere si manifesta una sorta di pigrizia mentale. Con quali conseguenze?

È interessante questa storia della relativizzazione. Diciamo che all'idea di un tempo lento che viene violato dalla tecnica, a quest’idea che l'accelerazione sia comunque un male, io credo solo limitatamente. Facciamo un esempio che mi colpisce particolarmente: una volta Kant pubblicava la «Critica alla ragion pura», e dopo sei mesi usciva una prima recensione, dopo un anno una seconda e così via. Oggi l’iter di recensione di un filosofo che pubblica un libro perlopiù si esaurisce in una settimana, perché un giornale lo pubblica, e da lì nascono altri articoli… ma al di là di questo mi chiedo: da che punto di vista possiamo considerare un male che non ci sia una lunga macerazione? Perché sembra che il pensiero sia sempre soltanto la storia di un individuo singolo che deve leggere la «Ragion pratica» e recensirla, per poi essere sottoposta a una seconda lettura... però se nel giro di una settimana lo leggono diecimila recensori ed escono diecimila recensioni, tenendo conto l'una dell'altra, allora non so se sia meglio, però non sono convinto che sia necessariamente peggio.

Il problema non è forse nel fatto che la cultura necessita di un metabolismo lento?

Non si vede perché. Una volta quando non c'era la stampa era difficilissimo ricordarsi le cose a memoria. Davvero siamo sicuri che quella maniera fosse peggio di ora? Per esempio la trasmissione orale dei poemi omerici ricordati a memoria dava luogo probabilmente a dei cambiamenti; anche i copisti del Medioevo copiavano e oggi forse diremmo che invece se gli antichi testi fossero stati stampati una volta per tutte sarebbe stato meglio. Di questo non sono sicuro. Non sono sicuro che tempi si guadagnino o si perdano, per esempio, nel comunicare per e-mail in un dialogo abbastanza intenso (è vero che c’è un vantaggio economico, ma non solo economico…). Intanto la scrittura è cominciata facendo i conti, quindi anche quel modo di comunicare aveva un aspetto economico alla base. Io so benissimo di sentirmi particolarmente a mio agio in un tempo così rallentato, però ho bisogno anche di architetti contemporanei e di ambienti dinamici. Facciamo un altro esempio: quando vado a cena il lunedì sera - giorno in cui c’è lo sconto - e incontro masse di giovani che non sanno più parlare come parlo io, allora dubito della cultura giovanile, ma sono forse sicuro che quello è il mondo con la M maiuscola o è solo il mio mondo? E questo è il problema: allora sono un po’ più aperto, diciamo, all'esperimento, nel senso che anche questa accelerazione dei tempi - certo, ripeto, a me produce disagio - non sono convinto che sia un disagio umano in generale, può essere che questo tipo di difficoltà sia legato al tipo di cultura libresca, riflessiva, umanistica, da cui proveniamo. Probabilmente, dei fisici ricercatori sono molto più contenti di ricevere i risultati rapidamente, allora anche qui ci sarà un elemento di utilità, perché la fisica è più immediatamente "usabile".

Ha presente «Le cosmicomiche» di Calvino? C'è un racconto che parla di un tale che con un telescopio potentissimo riesce a ricevere il messaggio da un corpo celeste lontano dieci milioni di anni luce che dice "ti abbiamo visto", però poi lui si chiede: "cosa hanno visto?" Allora comincia ad andare indietro con la memoria per vedere cosa ha fatto dieci milioni di anni luce meno un secondo prima. Però l'idea che persino l'eternità di cui parla Severino certe volte sia una fantasia di tipo scientifico, tutto sommato è un interessante esperimento mentale: se noi avessimo dei telescopi potentissimi per vedere cosa è successo duemila, tremila anni fa in Palestina, guardando da fuori, oppure in qualche cosa riflessa, il tempo non ci sarebbe. Quindi il tempo è un fatto biologico, come una buona digestione. Certo, si capisce che digerire è importante, ma avere un senso "naturale" del tempo - tra virgolette - è problematico proprio perché tutti i tempi, da quando esiste l'uomo, sono stati modificati per ragioni sociali. Per cui non sono così sicuro di tutto ciò, sono sicuro che io non ci sto bene certe volte, preferisco di più sedere, leggere libri e giornali, guardarmi un film tranquillamente…

A volte si vieni presi dal flusso e uscirne non è poi così scontato, probabilmente è scontato se una persona ha voglia di farlo e ha una marcia in più nell’attenzione...

E’ come fare un’agricoltura biologica invece che a base di ogm... ma è proprio l’unico modo di agricoltura possibile? Certamente non sono amante degli ogm ma soprattutto per ragioni di prudenza, per cui il tempo gioca qui anche in un altro modo. Tutte le sperimentalità hanno bisogno di tempo: le aziende ci fanno paura perché non sappiamo ancora che cosa succederà tra vent'anni. Un medico mi spiegava che l'uso degli antibiotici contro la sifilide è fondato solo sul fatto che ci sono ricerche epidemiologiche secondo cui dopo quarant'anni i malati di sifilide, prendendo degli antibiotici, non si sono ammalati più, e quindi è solo una questione di temporalità biologica. Certamente questo è significativo. Come dire, se ad esempio fosse possibile accelerare degli esperimenti mandando degli astronauti fuori dell’atmosfera a vedere in anticipo quali conseguenze future avrà una nostra scelta, allora tutto sarebbe più facile. Sono spontaneamente nemico di tutto l'arcimoderno, perché sto più comodo nel premoderno, nel moderno vecchio, però non sono assolutamente convinto che questa sia una posizione razionalmente difendibile perché tutti i discorsi tragicistici, apocalittici, sono fondati sullo scambio. Io rimprovero ad esempio la chiesa cattolica quando dice che le donne non possono fare i preti, solo perché siamo stati abituati così. A dire che in queste considerazioni ci vuole sempre po' di cautela...

In un articolo per «Telèma» del 1997, «E’ una rete senza centro ma ci dà un premio: la libertà», lei dice che la telematica confuta la paura del crescente dominio sull’uomo e il potere omologante della tecnica, proprio perché il concetto di rete implica libertà. E’ forse comunque un’illusione o nella rete esiste davvero una sorta di democrazia dell’accesso? E quindi, in questo caso, la tecnica può acquisire un certo aspetto positivo?

Parliamo di retificazione, se così si può dire... certo la rete è anche quella con cui si prendono i pesci, quella con cui si imprigionavano i gladiatori... voglio dire che l’idea di rete perlomeno è il contrario dell'idea dell’impero. Oggi, per esempio, in questa situazione della guerra, della pace, dell'Iraq, ecc., pensiamo davvero che il mondo sarebbe migliore se ci fosse un solo capo? Sappiamo che perfino ai tempi della guerra fredda proprio la non esclusività del ruolo di superpotenza di Russia o America ci garantivano un qualche equilibrio.

Tutto sommato credo la rete sia il contrario dell'impero, cioè che sia una pluralizzazione dei poteri. Il modello della rete è interessante per tante ragioni. Io dico sempre, per quanto mi riguarda, che non ho nessuna difficoltà ad accettare che la Cia controlli anche i miei pensieri più remoti, purché io possa controllare quelli dei capi della Cia. Viviamo in un mondo dove forse sarà sempre più difficile la salvaguardia della privatezza, ma se ci difendiamo da quelli che vogliono utilizzarla contro di noi, forse le conseguenze non saranno del tutto negative. Voglio dire: è inutile opporre delle resistenze in difesa della privatezza, perché tanto ce la violano sempre. Io faccio parte di una Commissione europea di studi che si è occupata anche di una grande rete di informazione tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Una rete di satelliti teoricamente capaci di controllare anche quello che diciamo noi in questo momento, sennonchè io ho un accento dialettale - e lei anche - che le macchine a volte non riescono a cogliere. Però i fatti sono questi. Forse l'unico mezzo di comunicazione sicura oggi è scrivere delle lettere a mano e mandarle via posta. Però, questo è per dire che anche in questo caso è molto difficile illudersi di poter scongiurare in partenza ogni rischio di intrusione; piuttosto, bisogna fare in modo che non ci sia più niente di segreto. E allora vorrei proprio vedere come farebbero i servizi segreti a mantenersi. Ma è meglio dirigersi in questo senso piuttosto che continuare a fingere che difendersi è possibile. E la rete potrebbe rivelarsi positiva proprio in questo senso.

A proposito del rapporto arte-tecnica, ancora il professor Galimberti dice che l’arte non è altro se non il mero «ornamento del capitale». Cosa pensa lei di questa affermazione? E che spazio o che importanza ha oggi l’arte?

Sì, l’arte è l'ornamento del capitale, però Galimberti lo dirà forse dell'arte di oggi. Quando Galimberti pubblica i suoi libri da Feltrinelli avrà o no firmato un accordo secondo cui chiunque può fotocopiare qualunque cosa dai suoi testi? Qui il problema non dipende da cos'è l'arte o cos'è il pensiero, dipende, per così dire, da come "si è girata" la società. Per esempio io in Europa sono spesso messo di fronte al problema se difendere la proprietà intellettuale o no, la mia proprietà intellettuale... ma se poi trasferisco questo discorso ai brevetti o alle medicine per combattere il virus dell’Aids, la questione diventa molto pericolosa. E bisogna tenere conto anche di questa situazione sociale, in cui la ricerca ha bisogno di fondi e i fondi sono dati dalle industrie private che vogliono investire. Il rischio è che abolire la proprietà intellettuale significhi far cadere la ricerca. Allora è necessario che questi fondi vengano governati, che ci sia una strutturazione più "socialistica". Io sono convinto che la verità della tecnologia moderna sia appunto il socialismo: quando sono possibili dei meccanismi di interpretazione così universali e così potenti non si può immaginare ancora la libertà del mercato, bisogna invece immaginare un forte controllo politico su tutto questo, sugli armamenti, sulla ricerca, ecc. Questo è il senso del socialismo, nel senso dello stato, della democrazia, del "popolo" (come direbbe Bossi). Una volta Marx lo diceva del capitalismo: il capitalismo arriva a un punto in cui o diventa socialista o succede di tutto, ma viene comunque un momento in cui non si può più lasciare nelle mani dei singoli capitalisti questo enorme potere.

Allora la situazione è questa: non so se sia un diritto umano fondamentale, è forse un diritto "naturale" nel senso che noi lo troviamo naturale, lo troviamo logico, non abbiamo bisogno di giustificarlo e questo mi sembra importante. Che l'arte sia l'ornamento del capitale dipende dal commercio delle arti, dal fatto che si tratta di un "gioco" per cui un tale viene scoperto, messo in evidenza da critici amici di galleristi, venduto ad alte quotazioni e tutti gli altri rimangono nell’ombra. Però non so neanche se obiettare davvero, perché anche l’Odissea e l’Iliade sono arrivate a noi in quanto c’erano dei ricchi che le hanno fatte copiare...

Capisco però che non ci sono mai delle condizioni ideali, per cui dobbiamo limitare il più possibile quegli aspetti di queste condizioni che comportano l’oppressione della libertà individuale in questo secolo, mentre tutto il resto lo dobbiamo accettare.

E a proposito del dibattito in corso con Maurizio Ferraris sull'ermeneutica?

Non ho capito perché. Ho il sospetto che ci sia un elemento di rivolta edipico contro i maestri, i padri che tutti noi abbiamo avuto. Dico questo perché non ho capito bene che cosa ha mosso Maurizio Ferraris ad abbandonare l’ermeneutica al suo destino. Abbiamo fatto una volta, qui all’Università di Torino, un seminario in cui io gli ho detto: «Tu perché hai cambiato idea così radicalmente?» E la prima risposta è stata «Perché nell’ermeneutica non c’era più niente da dire». Non ho capito, secondo me lui ha cominciato con quel suo libro sulla storia dell’immaginazione [Ndr: L'immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996], libro che io ho letto quando è uscito, dove lui manifestava le prime avvisaglie di una specie di sensismo, di recupero dei sensi, dell'intuizione sensibile. Io non riesco a interpretarlo se non come un cedimento della filosofia. L’ultima risposta l'ho avuta dal direttore del mio dipartimento a cui ho chiesto in base a quale criterio sia stato istituito il laboratorio di ontologia sperimentale. Da quello che scriveva Maurizio Ferraris pare che anche la Boeing trovasse una qualche utilità nell’ontologia sperimentale; francamente non so che cosa se ne possa fare la Boeing dell’ontologia sperimentale. Però la risposta che mi ha dato il direttore del mio dipartimento è stata che una azienda aveva già dato 15 milioni di marchi per istituirlo con B. Smith, un filosofo inglese che è uno dei grandi capi di questa gigantesca sciocchezza che è l’ontologia sperimentale. Fino a prova contraria io sospetto che lo sia. Se poi la prima risposta è "c’è qualcuno che lo paga", allora divento ancora più sospettoso.

Per riprendere il tema precedente sull'arte: quando Duchamp ha portato l’orinatoio ad una mostra chiamandolo «fontana» mi sembra difficile definire quel ready-made come "ornamento del capitale". E' vero che poi c'è chi si è comprato anche quello per metterlo in banca, però parliamo pur sempre di un tentativo di rivolta.

Torino 1 Febbraio 2003


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