La Critica

La Biennale della postmodernità estinta

di Domenico Scudero
 
 

Nel breve periodo di pochi mesi è impensabile che un'operazione artistica finisca per sempre d'avere valore, d'essere significativa per il suo proprio tempo; ma è quanto avviene per la Biennale 2001. A me dispiace doverlo scrivere, poiché può apparire un ennesimo sberleffo all'operato di Szeemann, il quale nonostante tutto è stato a mio avviso uno dei migliori curatori della rinnovata Biennale, tuttavia gli eventi sono stati impietosi; in un certo modo un'epoca si è definitivamente conclusa e con essa la spericolata sensazione di dominio formale operato da una determinata identità dell'arte, e dalla sua politica ideologicamente compresa.

Credo che al di là del puro accadimento cronologico anagrafico tutto l'impianto della Biennale, così come l'abbiamo osservata in questi mesi, vada sicuramente archiviato come un enorme macroscopico errore, l'ultimo eccesso di postmodernismo. Le Twin Towers le guardo ogni giorno mentre lavoro alla scrivania o ascolto la mia musica; si stagliano fotografate da Luigia Martelloni, una amica artista (1) che nei primi anni Novanta le aveva assunte a simbolo della modernità, l'apoteosi di questa. Adesso che quelle due torri, arroganti quanto si vuole ma sicuramente simboliche di un'idea di socialità funzionale e progressista, sono state rase al suolo, credo che anche il concetto stesso di modernità e il suo declinarsi interminabile nel postmoderno e nella sua maniera siano definitivamente conclusi.

Quest'idea di mondo spacciata dalle grandi mostre internazionali non esiste più e non tanto perché qualcuno ce ne ha impedito il proseguo quanto perché l'estetica ad una dimensione, che per Marcuse era già l'origine della disfatta dell'intelletto (2), si è tramutata nel suo opposto rovinoso di cui il crollo delle torri ci ha dovutamente informati. Di quel crollo siamo responsabili in parte nella misura in cui non abbiamo saputo pensare la diversità come senso di critica all'impero formale del postmoderno.

Con questo non si vuole sostenere che uno sguardo maggiormente critico nei confronti del postmodernismo occidentale sarebbe stato oggi idealmente premiato con la pace sociale sul pianeta. Tuttavia l'ipotesi che una assoluta cortina di pensiero abbia costretto l'identità del contemporaneo ad una unica visuale estetica, quale quella dell'immagine parificata e della continuità formale del progresso, nella esaltazione della produzione, non è lontana dalla verità. L'idea che la vera crisi del mondo contemporaneo risieda nella convinzione perversa e percettiva della sua esistenza tautologica è un fatto direi assodato; lo scontro che si sta avverando non è soltanto quello tra due diverse civiltà strutturate ma quello fra due opposte visioni della continuità, fra infinito e finito.

L'Occidente e la sua estetica hanno creduto alla finitezza dell'immagine, hanno valutato il mondo attraverso la costruzione tecnica dei simboli divenuti merce minimale, icone moderniste sfociate nell'estremismo dell'apparire e del significare in un poliedrico significante che non ha identità comunicative se non nella sua stessa forza di seduzione: altri non ne accettano l'exemplum. Concetto non del tutto alieno dalla nostra modernità, anzi direi elementare nella costituzione pratica fra terra, acqua, fuoco e sua opposizione formale, sua negazione, ma diversamente contrario, opposto. Il vuoto oscuro ed informale, le polveri del nulla che si alzano dal crollo dell'icona modernista così come la distruzione talebanica del mondo archeologico afgano, colpiscono la ragione stessa delle icone raziocinanti della modernità e dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che le costruzioni simboliche, come le possenti divinità dell'isola di Pasqua, sono lì per essere distrutte e per far crollare insieme ad esse il significato profondo delle credenze collegate.

In fondo non credo ci sia stata una grande intelligenza politica dietro questa distruzione, dietro la folle esplosione protesa alla distruzione sacrale del male rappresentato dalla nostra voglia di bello e di godimento estetico; semplicemente un'intelligenza che si situa analiticamente al di là, al di sopra del mondo antico, professando nell'arcaicità del sacro e aniconico credo iperuranio l'unica possibile esistenza in vita, peraltro assai peregrina. La totalità iconoclasta di questa scelta che fa impallidire l'artista retorico sull'argomento, indipendentemente dalle sue esplicite contraddizioni tecnologiche, per l'ovvia pratica di potere manifestata, lascia comunque sconvolti per la sua audacia, tale da aver fatto spendere parole "inquiete" a numerosi intellettuali attratti dalla magnificenza del gesto, appunto perché intrisi di percezione estetica per così dire kantiana; la miseria della nostra coscienza è tale che non abbiamo ancora percezione estetica che non sia manifestamente assoluta, e quindi non abbiamo vissuto diversamente dai nostri millenari antenati.

In fondo le epoche storiche da noi comprese sono lampi nell'ampio fluire dei tempi; possiamo stupirci che altri contemporanei vivano in maniera drasticamente opposta questa stessa percezione estetica? Cosa c'entra la Biennale in tutto questo? Appunto, non c'entra nulla. Un nulla che manifesta la distanza e l'inesorabile fuoriuscita delle grandi manifestazioni dal nucleo reale e concreto dell'estetica del mondo, quest'ultima avvertita dei rischi epocali espressi dall'enfasi del tempo postmoderno. Nessuno che abbia affrontato con elasticità mentale l'ipotesi del dominio estetico del postmoderno, e soprattutto la veridicità di una sua assoluta mancanza di rimpianto storico attraverso la memoria cinica del mondo, ha mancato di sollevare il problema grave posto da quest'estetica riflessa attraverso il dominio della tecnica ed aggravata dal brutale mercato "simbolico" della qualità.

Si è tanto parlato dello shock dell'11 settembre, quando i telefoni cellulari di tutto il mondo annunciavano col loro trillo elettronico l'inizio di una nuova fase della storia, ma non si è detto che nell'ipotesi dell'estetica realmente ad una dimensione non poteva esserci posto per la diversità, se non come contenuto avulso dal suo stesso contesto; questa diversità ha ripreso adesso con forza una sua posizione e lo ha fatto drammaticamente, evocando scenari di morte e distruzione che si proiettano come ombre lugubri sui nostri scenografici programmi di benessere.

Proprio per questo l'idea che le mostre internazionali propongano da anni l'ipotesi della diversità e della coscienza del limite solo attraverso la catalogazione all'interno del dominio formale dell'Occidente raggiunge il suo parossismo e la sua incredibile brutale incongruenza in questa assurda Biennale posta suo malgrado a segnalare la grottesca fine della rappresentazione iconica della modernizzazione e della globalizzazione.

 

Roma 17 ottobre 2001


Note

(1) Luigia Martelloni, «due + due + due = tre nature differenti», 1992.

(2) L'Herbert Marcuse di L'Uomo ad un a dimensione (Einaudi, Torino 1967 - 1991) si propone per una rilettura davvero lungimirante sull'ipotesi spesso contestata di una società deprivata da ogni spirito critico.



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