E' il 1995 quando nel primo cyber-punk movie della storia del cinema, diretto da un artista di spicco della scena newyorkese, Robert Longo, l'autore e sceneggiatore William Gibson faceva dire a Spyder, personaggio positivo nell'eterna lotta tra il bene e il male, che la causa della sindrome da attenuazione del sistema nervoso, una malattia irreversibile di cui soffre la maggioranza della popolazione in un ipotetico e apocalittico futuro, è causata dal Mondo. Il mondo così come è diventato dagli anni '90 in poi. La causa dei nostri mali, della perdita di idealità, di memoria, di pulsioni etiche e di altro ancora, «E' un sovraccarico di informazioni - egli dice - (...) tutta l'elettronica che usiamo riempie l'etere di veleni. E' la nostra civiltà tecnologica che ci porta a questo ma noi ce la teniamo stretta perché altrimenti non siamo più capaci di vivere».
Siamo evidentemente in un periodo difficile e non solo per l'accelerazione alla quale si è continuamente sottoposti, ma soprattutto perché, come afferma Maurizio Lazzarato «... la crisi in cui ci troviamo da quarant'anni, prima ancora di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi della produzione della soggettività» [1].
Nella società odierna, infatti, sempre meno esistono soggetti capaci di stare in piedi, di trovare un equilibrio sottile nei fragili e complessi percorsi labirintici del vivere contemporaneo. La frammentazione delle conoscenze e l'accumulo di dati privi di nessi importanti per l'individuo portano alla scompaginazione dell'identità personale. In questa accelerata rivoluzione della comunicazione e della vita tra gli individui spesso ci si muove abitando temporaneamente, per il breve lasso di tempo del loro uso, come direbbe Marc Augé, dei "nonluoghi". Frequentemente i luoghi fisici del quotidiano ospitano esseri umani che occupano lo spazio reale ma comunicano con persone che sono altrove attraverso le appendici mediatiche del proprio cellulare o del proprio computer, ascoltando musiche dall'iPod, registrate precedentemente in altri ambiti e che evocano ancora altre situazioni spazio-temporali. In questo contesto tuttavia si intravvedono, paradossalmente proprio attraverso i mezzi che hanno creato dissociazioni e frammentazioni, possibilità sconfinate di collegamento tra gli esseri umani, tra società diverse e consuetudini differenti.
La crisi avrà quindi una possibilità di soluzione solo a partire dalla riappropriazione della produzione di soggettività che implica, osserva ancora Lazzarato, di poter «tracciare contorni materiali e simbolici di territori e di inventare delle linee di fuga, di costruire dei percorsi in uscita e percorsi di ritorno, di praticare il vagabondaggio e di fabbricare un per sé e un a casa propria». [2]
Questa può essere la funzione dell'architettura, creare un universo di possibili in cui gli individui possono incontrarsi. People meet in Architecture, recita infatti il titolo della XII Mostra Internazionale dell'Architettura.
«In un'epoca in cui, infatti – fa notare la curatrice, Sejima – la gente comunica sempre di più con mezzi diversi in un ambiente non fisico, è specifica responsabilità dell'architetto creare spazi reali per una comunicazione fisica e diretta tra le persone»[3].
La sensazione di Johnny Mnemonic che ha usato il proprio cervello per trasportare dati e informazioni, come corriere della memoria, la sensazione che il cervello non possa sopportare un accumulo di informazioni superiori alla propria capacità fisica è simile a quella che normalmente viviamo, continuamente in contrasto con le pressoché infinite possibilità combinatorie che si aprono alla conoscenza e alla capacità realizzativa.
In un ultimo fine settimana di ottobre si stenta a farsi strada tra le file davanti alle casse per l'acquisto dei biglietti all'Arsenale. Cosa spinge così tanti visitatori dopo già tre mesi dall'apertura dell'esposizione, ad affollarsi per visitare i padiglioni espositivi che raccolgono le proposte degli studi architettonici internazionali? Forse la speranza o la consapevolezza di trovare mondi in cui sia possibile incontrarsi?
Insieme al pass d'ingresso vengono forniti appositi occhiali che fanno presagire visioni tridimensionali. Già dal primo spazio delle Corderie infatti si risulta catapultati letteralmente dentro spazi virtuali. E' il film di Wim Wenders che ci fa entrare e uscire come in un gigantesco nastro di Moebius nel Rolex Learning Centre di Losanna. Pareti di cristallo e atmosfere bianche ed orientali ci danno l'impressione quasi di sentire i discorsi delle persone che lo vivono (people meet in architecture, appunto) e non a caso il regista ha scelto di titolarlo If Buildings Could Talk.
La tridimensionalità è il leit motiv anche del Padiglione Australiano, concepito come uno spazio cavo e vuoto all'interno del quale non valgono più i normali riferimenti topografici, nuovi spazi sono disegnati da contorni fluorescenti e nel nero simil vacuo all'interno, come su una gigantesca pellicola tridimensionale, ci vengono incontro visioni delle città australiane del futuro.
Sebbene non sia passato che un anno dall'uscita di Avatar, il grande pubblico è stato abituato anche dalle pellicole successive in 3D a trovarsi all'interno di un mondo, di un mondo "altro". Perché questo è ciò di cui stiamo parlando. L'invito di Sejima ai partecipanti alla mostra, ognuno curatore di se stesso e ognuno alle prese dirette con la singolarità dello spazio assegnato, è di inventare universi possibili. L'architettura possiede questo potere. Matrix ma più di tutti il recente Inception ci hanno insegnato che mondi paralleli si realizzano con progetti architettonici, per questo nella pellicola di Nolan, dove in un angolo di futuro qualcuno diventerà capace di entrare nei sogni e di costruire nella realtà dell'inconscio mondi virtuali paralleli, è una studentessa in architettura che viene ingaggiata per muoversi più rapidamente nel mondo virtuale che deve, per essere percorribile, essere progettato di continuo, senza interruzione.
Un universo creato ex novo è Hylozoic Ground, la grande installazione che occupa tutto il Padiglione Canadese offrendo ai nostri occhi e ai nostri sensi una visione e un'esperienza incredibili. Nata dalla sinergesi con la chimica e l'ingegneristica presenta una fitta rete di materia quasi vivente, che respira e si modifica nel contatto con i visitatori-abitatori offrendo un possibile di architettura ricettiva. E' «una foresta artificiale, fragile come vetro e costruita da un intricato reticolo di minuscole maglie acriliche, coperta di una rete di fronde, filtri e barbe meccaniche»[4]. L'idea ispiratrice è la filosofia ilozoica secondo la quale il principio della vita è intrinseco a tutta la materia.
L'effetto ad un visitatore ignaro del principio generatore è comunque rassicurante ed estremamente poetico grazie alla materia così simile al cristallo e alle nuvole e alla chiarità della luce che evoca immagini paradisiache e psichedeliche oltre naturalmente al ritmo del respiro e delle funzioni vitali. Ugualmente molto forte anche se forse meno poetico è l'universo inventato nel Padiglione dell'Egitto. Nessun plastico, nessun progetto, solo un mondo realizzato in giganteschi fogli di metallo dorato costituiscono The Search for Salvation. «L'architettura può raccontare una storia sulle aspirazioni dell'uomo alla salvezza» recita Ahmed Mito. [5] Si procede come dentro la scena di un palcoscenico fuori misura e trucioli di materia metallica fuoriescono anche dalle mura dell'edificio.
Si può creare un mondo diverso anche solo alterando le dimensioni. All'inizio delle Corderie una trave a grandezza naturale taglia lo spazio. Balancing Act è un gioco di equilibrio che, violando le proporzioni dello spazio preesistente dell'Arsenale dove è inserito, crea all'interno del ritmo dato dalle colonne portanti e dall'alternanza di pieni e vuoti, un accordo diverso.
Almeno due sono le opere in cui si capovolge poi l'ordine naturale del sotto e del sopra ed entrambe lo fanno usando i toni del blu. Entrando nel Padiglione Olandese si ha all'inizio l'impressione di essere approdati ad una spazialità disadorna, priva di mobili o suppellettili ma subito uno sguardo al soffitto fa capire che quei fili d'acciaio contengono e bloccano degli elementi geometrici azzurri che ad uno sguardo più attento risultano essere i palazzi di una città in miniatura di cui è visibile solo la base da sotto in su. Dopo una sola rampa di scale la prospettiva si capovolge e ammiriamo, come normalmente siamo abituati a fare, un gigantesco plastico in materiale simile alla gommapiuma. Si distinguono case, campanili, chiese, mulini a vento e tutto quanto ci fa identificare un agglomerato urbano olandese.
Anche in Bluprint di Do Ho Suh ci si trova a camminare sotto la facciata della casa newyorkese dello stesso artista, cucita a mano in un tessuto traslucido a grandezza naturale ma collocata a mo' di soffitto in modo che se potessimo camminare in verticale saliremmo le scale posizionate sulla parete e in maniera che ciò che calpestiamo non è che la sua ombra, o meglio la composizione nell'ombra di quello che l'abitazione dell'artista è stata nei diversi luoghi e nelle diverse età: è la sintesi tra la sua casa coreana, quella attuale e le caratteristiche architettoniche di una villa veneta.
Anche qui torna il concetto di identità come chiave interpretativa. Come osserva Yuko Hasegawa, si tratta di aver privilegiato, in questa edizione della Biennale, uno Spazio considerato come rappresentazione interna delle persone che lo popolano [6]. Così non c'è più bisogno nemmeno di accennare a delle pareti che lo delimitano all'esterno come nel caso della nuvola di Matthias Schuler (Transsolar) e Tetsuo Kondo. In Cloudscapes l'unica struttura costruita è una scala elicoidale che permette di assumere diverse posizioni nei confronti della nuvola artificiale al centro della scena. L'interazione appare anche in questo caso essenziale e la gente si incontra creando sempre condizioni diverse all'interno, sopra o sotto l'atmosfera artificialmente evocata.
Ma forse il massimo dell'astrazione lo raggiunge l'installazione di Janet Cardiff, The Forthy Part Motet, dove, come in una esasperata sinestesia, lo spazio è costruito dal suono che fuoriesce da quaranta altoparlanti, ognuno corrispondente alla registrazione separata di una voce del mottetto di Tallis. Il fruitore in questo caso del suono può posizionarsi al centro dell'ovale creato appositamente e vivere l'esperienza della volumetria architettonica del suono e della musica.
Riflessi dal futuro titola il Padiglione Italiano, che, utilizzando la parola a specchio AILATI, regala visioni di parcelle di universi futuribili che si possono scorgere come dal ponte di una nave o da una torre di avvistamento, salendo le scale che costellano il soffitto considerato diaframma tra presente e futuro.
E ancora, procedendo come Teseo nello stesso percorso tortuoso e quasi reticolare dell'Arsenale e poi dei Padiglioni nazionali ai Giardini, ci si imbatte in veri labirinti come nel Giardino della Vergini, dove l'installazione cinese all'aperto costituita da una selva di tubi trasparenti e luminosi permette di perdersi nell'archetipica forma, metafora dell'esistenza stessa.
E poi la più pura tra tutte le visioni, quella creata da Olafur Eliasson: Your Split Second House, quasi una magia che si consuma alla nostra vista. Il miracolo della poesia lirica o dell'arte pura quando si entra nello spazio buio dell'Arsenale e scintille d'acqua si ripetono nello spazio effimero dell'istante a suggerire la materia impalpabile che è fatta di emozioni, desideri e consapevolezza di cui l'architettura si nutre e senza la quale non esisterebbe.
Venezia, 18 Novembre 2010
[1] Maurizio Lazzarato, Capitalismo e produzione di soggettività, in People meet in Architecture catalogo della 12. Mostra Internazionale di Architettura, La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2010, p. 23.
[2] Op. cit., p. 24.
[3] Introduzione di Kazuyo Sejima, in op. cit.
[4] Partecipazioni Nazionali, op. cit., p. 26.
[5] Partecipazioni Nazionali, op. cit., p. 38.
[6] Yuko Hasegawa, La sensibilità, le emozioni e la fluidità del programma architettonico, in op. cit., p. 34.