La Critica

L'architettura oltre il costruire

Note in conclusione della XI Biennale Architettura di Venezia

di Giuliana Paolucci

Sfida affascinante quella lanciata da Aaron Betsy, curatore della undicesima Biennale d'architettura. La sua constatazione che l'architettura non coincide con l'arte di edificare e che gli edifici intesi come tali possono non solo limitare gli orizzonti della disciplina, ma in alcuni casi costituirne addirittura la tomba, ha portato gli Studi partecipanti alla manifestazione lagunare a lasciarsi andare a visioni utopiche e distopiche sulle concezioni dell'abitare contemporaneo e prossimo futuro. A proposito di architettura e di topos tutti abbiamo fatto l'esperienza arrivando a Venezia di entrare in un luogo magico e mitico, che in qualche modo dà l'impressione di uscire dal tempo e dal luogo reali. Le categorie rintracciabili nel percorso e nelle intenzioni di questa Biennale sono proprio, ci sembra, quelle della visione, del mito, dell'«oltre». Out there, Architecture beyond Building, recita non a caso il titolo della Mostra Internazionale di Architettura conclusasi il 23 novembre scorso.

Ci si aggira negli spazi dell'Arsenale tra le grandi installazioni che vengono ospitate, quasi forme astratte, senza condizionamenti di pareti. Si ha l'impressione di respirare aria pura, di assistere ad una sorta di liberazione. Già dall'inizio ci si accorge della potenza visionaria  di questo procedimento. Il primo spazio è occupato da Hall of fragments, le scenografie di mondi futuri rispetto agli anni passati in cui i film sono stati girati, alimentando le possibilità immaginative di infinite realtà architettoniche. I mitici film cult che hanno condizionato l'immaginario di intere generazioni, da Metropolis, a Blade Runner, a Blow Up a Truman Show, creando scenari fantascientifici e universi distopici. I visitatori sono condotti attraverso il buio, evocativo delle sale cinematografiche e porta certa per entrare nella dimensione onirica nella quale sono sovvertite le regole della realtà. Al buio si può procedere attraverso il corridoio creato tra e da due megaschermi convessi sui quali vengono proiettate le distorsioni derivanti dal collegamento con ogni singolo video che trasmette i differenti film, che a tratti si unificano in una unica visione contemporanea dei relativi mondi prescelti. È come camminare dentro un caleidoscopio gigantesco in cui architetture effimere già concepite alimentano l'immaginazione.  Si procede incontrando vere e proprie rappresentazioni di mondi virtuali

Tra l'attuale e il virtuale

Questo sicuramente uno dei fili conduttori del percorso. I grandi stanzoni dell'Arsenale ospitano visioni del mondo come  HYPERHABITAT di Guallart Architects dove il mondo è riprogrammato tramite il collegamento digitale di molti componenti della quotidianità presenti all'interno dell'abitare. Le sagome degli oggetti di uso comune sono realizzate in metacrilato trasparente che li fa risultare direttamente usciti dal futuro o rimasti da un passato primordiale, così indefiniti anche nella loro assenza di colore da permettere il loro ripensamento in termini di altre funzioni grazie alla componente cibernetica che caratterizza l'operazione del gruppo spagnolo.

Molto suggestivo anche visivamente nell'impatto, quasi un mondo di cristallo. È sempre su questa dialettica tra l'attuale e il virtuale, che fa ripensare ai contributi speculativi di Deleuze e di Pierre Levy con la sua teoria degli spazi antropologici, che si muovono molte delle proposte della Biennale sia all'Arsenale sia ai Giardini.

È così che ci si trova seduti in una gondola virtuale all'interno di due schermi contrapposti sui quali scorrono immagini di Venezia nella sua realtà fisica, che tutti siamo abituati a conoscere per l'insieme sinestetico e indissolubile di tutto ciò che le è peculiare e approda ai nostri sensi quando camminiamo per le calli o attraversiamo i suoi canali, senza esclusione per quel suo odore caratteristico, misto di spussa de freschin, muffa, pane appena sfornato e dolci. Dalla parte opposta è una Venezia virtuale, quella che appare nelle diverse ricostruzioni che ormai in varie parti del mondo sono state realizzate come attrazione turistica, con la sua freddezza, la falsità e fissità di un'imitazione senza vita. L'ipotesi dello studio Diller Scofidio + Renfro propone insomma una Venezia alternativa con Chain City. Evidentemente l'opera site specific più esplicita.

Ancora nell'ironica Singletown gli olandesi Droog Design & Kesselskramer immaginano e creano una intera città per singoli che sempre di più popolano le società occidentali.

Solitari e algidi manichini bianchi abitano uno spazio virtuale popolato dalla ricostruzione di oggetti tra i quali i visitatori possono muoversi come se entrassero all'interno di sei case per singoli, interagendo con la loro esistenza di uomini sospesi. Tutti in questa città, persone e cose, arredi e vestiti sono infatti appesi; niente tocca il suolo. Tutto è in bilico come racchiuso in un'immaginaria bolla o monade leibniziana.

La bolla gigantesca poi è manifestamente espressa dall'installazione della coop Himmelb(l)au dove si può percepire il battito del proprio cuore come spazio che respira. Il gruppo austriaco ha qui ripreso un  suo progetto del '69 reintitolandolo Feed Back Space, in cui i visitatori, abitanti immaginari di una città virtuale, possono modificarne il sistema aperto fin nell'integrazione con il ritmo cardiaco. Tra l'attuale e il virtuale si colloca anche il progetto di Massimiliano e Doriana Fuksas, Kensington Gardens, dove all'interno di enormi cubi verde acido si svolge una vita virtuale che si può spiare attraverso fori e finestre rettangolari.

La smaterializzazione degli edifici

Gli spazi creati sono liberi, finalmente le pareti non intrappolano più. Il procedimento operato da Renzo Piano nel Beaubourg è portato alle estreme conseguenze nella realizzazione di Penezic' & Rogina Architects, dove viene attuata la paradossale ipotesi di Reyner Banham. «Quando una casa – egli dice – contiene un tale complesso di tubature, canne fumarie, condutture, cavi, luci, valvole, prese, forni, lavelli, scarichi per i rifiuti, impianti hi-fi e di riscaldamento, antenne, condotti, congelatori, quando contiene così tanti servizi che la loro intelaiatura si reggerebbe in piedi da sè, senza nessun aiuto da parte dell'edificio, perché ricorrere ad una casa per sorreggerli?» (A Home is not a House, in Reyner Banham, Architettura della seconda età della macchina, Milano, Electa, 2004).
Ci si muove tra tubi  ed elementi metallici dipinti con colori puri alla Mondrian (anche in questo si potrebbe leggere un riferimento esplicito all'antenato parigino) e fasci di fibra ottica in un'architettura combinatoria e possibilista.

Che dire poi dell'inconfondibile cifra percepibile nel progetto Lotus di Zaha Hadid dove la linea sinuosa ma soprattutto l'idea di flusso emerge dalla singolarità del prototipo che arreda in modo estremamente seduttivo, recando al suo interno una serie imprevedibile di funzioni? Nelle sue pieghe sono contenute possibilità di configurazioni concrete: guardaroba, letto, scrivania ed altro. Questo ci porta ad introdurre un altro fil rouge presente alla Biennale, sul quale stiamo riflettendo ed è il rapporto tra

Il dentro e il fuori

Scivolamento continuo sul quale molti studi di architettura hanno fatto il loro punto di forza e che forse connota maggiormente l'architettura contemporanea (viene in mente la tanto discussa progettazione di Meier per l'Ara Pacis).

Il Padiglione che colpisce forse più di tutti per la sua poetica e intelligenza è quello belga, nel quale è stato operato un ribaltamento tra spazio interno ed esterno. In 1907… after the party la facciata esterna, progettata cento anni fa, diventa interna e delimita un ulteriore spazio simbolico attraverso la costruzione di una controfacciata metallica. Il visitatore percorre così il between ed ha l'impressione di attraversare lo spazio di una cattedrale gotica, alzando lo sguardo e cogliendo le configurazioni dei tubi interni che costituiscono il ponteggio.

Questa sorta di nartece lo conduce all'interno di uno spazio che, a sorpresa, è completamente vuoto. Solo un'immensa distesa di coriandoli sta a significare la fine della festa che è già stata consumata. Alcune sedie occupano il vuoto e nello spazio ora creatosi tra la facciata esterna, adesso divenuta interna, e l'esterna attuale, alberi nudi e sedie vuote regalano il significato denso dei simboli.

Immagine padiglione Belga

Padiglione Belga, Office Kersten Geers David Van Severen, 1907… after the party, 2008

Stesso afflato poetico si ritrova anche nel padiglione giapponese, anch'esso vuoto ma le architetture, gli arredi, gli alberi, le piante e i fiori sono stati disegnati con un tratto a matita precisissimo e quasi naïf, unica traccia nera sottile e uniforme sul bianco delle pareti. Appena fuori, tutt'uno con l'interno, piccoli salotti di legno e vimini ricreano spazi per la comunicazione e la convivenza, creando una commistione sui generis, oltre che tra dentro e fuori, tra pubblico e privato.

Piante e arbusti crescono all'interno di minuscole serre costruite subito fuori del padiglione e formano con esso un tutt'uno, creando veramente un Paesaggio di spazi ambigui, che è il titolo dell'installazione, o forse faremo meglio a dire della messa in scena.

Le installazioni come rappresentazioni teatrali e l'architettura come scenotecnica

Nei frammenti finora descritti, che rappresentano solo una piccola parte dei lavori in mostra, appare evidente che i singoli lavori, le utopie, i prototipi, i mondi virtuali, sono configurati come messe in scena teatrali  e in esse l'architettura rappresenta la componente scenotecnica. Emblematica l'installazione di Gehry all'Arsenale, magnifica costruzione, un modello in grande scala studiato per la realizzazione di un albergo moscovita, quasi una torre di Babele che non avrebbe sfigurato nel palcoscenico di un teatro lirico. Come sempre forme e superfici (qui di argilla trattata) sconvolgenti e frutto di un enorme lavoro di sperimentazione.

Le architetture, nelle intenzioni del curatore, dovevano essere veri e propri spettacoli in cui poter intuire e sperimentare nuove condizioni e possibilità del vivere e dell'abitare.

Si ricordi a questo proposito l'accezione che per Arnheim assume la parola intuizione, ben più capace di conoscenza rispetto alla logica e alla deduzione. Le diverse messe in spazio hanno offerto spettacoli aperti non solo fisicamente, ma anche all'immaginazione e all'esperienza dei tanti addetti ai lavori che hanno attraversato i cammini tracciati dall'esposizione.

Spesso i luoghi fisici dell'Arsenale e dei Giardini hanno costituito, come nel caso del Belgio, parte integrante della rappresentazione in un contesto in cui la storia della scenografia ha preceduto, è il caso di dirlo, la storia dell'architettura. Le scenografie altamente simboliche di Craig, di Appia e di Polieri, avevano già insegnato con molto anticipo che le pareti e i tradizionali riferimenti spaziali potevano tranquillamente essere scavalcati.

Passeggiando per i giardini ci s'imbatteva poi in arredi realizzati con i resti. Panchine che poggiavano su taniche smesse o illuminate da insoliti lampioni realizzati con materiali da imballaggio, sedili ottenuti dall'assemblaggio di vecchi copertoni. Ancora questo tema del riutilizzo e del riuso, con il quale bisognerà fare i conti seriamente per un'appropriazione responsabile delle risorse esauribili del pianeta, era presente in diversi lavori.

Il riciclo nelle utopie e distopie

I mobili di Greg Lynn nati dall'assemblaggio di forme in plastica coloratissima, che rivelano il loro antico sembiante di giocattoli, pezzi di azzurri tricicli, o viola melanzane in plastica, costituivano il piedistallo di possibili tavolini. Architetto così legato allo studio e alla riproduzione di forme organiche, ora interessato al tema del riciclo a tal punto da inventare con la plastica riciclata un nuovo mattone.

Ancora la provocazione di Ante Liu di creare in Cloud una sorta di agglomerato di vecchi condizionatori e purificatori d'aria che anche semanticamente incarnano il mito del nostro tempo di vivere in un aria detersa, pulita e pura.  È una vera e propria città quella da lui immaginata con i resti di questi organismi, creature artificiali che hanno esaurito la loro funzione.

Stesso spunto in Hotel Polonia, in cui le architetture sono pensate per il loro riutilizzo futuro, come una scatola da scarpe che sopravvive nella rinnovata funzione di raccogliere una collezione di fotografie.

Non si può a questo punto non pensare alle città invisibili di Calvino, città puramente letterarie e per questo puramente virtuali in questa sorta di sconfinamento continuo ormai evidentissimo, in cui non esistono più confini tra un'arte e un'altra ed è la letteratura che alimenta l'architettura insieme al cinema, alla video art, alla rappresentazione teatrale, concorrendo a creare e immaginare mondi in bilico tra il virtuale e l'attuale.

Venezia, Novembre 2008