Tutti gli spazi espositivi individuati per la biennale di arte contemporanea Manifesta7 sono stati scelti perché rispondevano ad un preciso progetto dei curatori, tanto che è difficile individuare quando inizi a parlare il luogo — anche in relazione ai titoli e ai temi delle diverse esposizioni — e quando inizino a parlare le opere dei singoli artisti. Il nome stesso delle sezioni della mostra è indissolubilmente legato al significato delle differenti sedi espositive.
Tra tutti, tuttavia, quello che ha maggiormente lanciato una sfida al tema comune "rigenerare la memoria" è lo spazio di Franzensfeste, la fortezza asburgica costruita sulla linea del confine italo austriaco che chiude o apre la linea sulla quale si è scelto di posizionare questa particolare biennale di arte contemporanea itinerante.
Un forte asburgico che osserva muto e si fa osservare, gigante silenzioso e immobile, da tutti coloro che si trovino a percorrere l'autostrada del Brennero, con quella sua sagoma che inquieta solo a immaginare che è stato costruito per ospitare un presidio militare e che i suoi spazi hanno ospitato la minaccia delle armi pesanti.
Eppure, così ormai integrato nel paesaggio circostante da essere quasi percepito lui stesso come il profilo di una montagna grigia e pietrosa.
Particolare l'impressione che si percepisce nel percorrere i suoi spazi alla ricerca delle continue sorprese frutto del lavoro di artisti e curatori. Se ci si aspettasse di trovare normali mostre come nelle altre sedi espositive — come a Rovereto, nei locali dismessi della Manifattura Tabacchi o in quelli dell'ex fabbrica Peterlini, o della vecchia stazione ferroviaria; o a Bolzano, dove nel relitto industriale Alumix vengono ospitate una serie di installazioni e opere; o come a Trento, all'interno della cornice razionalista del Palazzo delle Poste — si rimarrebbe delusi, perché più ci si addentra negli spazi del forte asburgico più ci si accorge che ci si trova di fronte a Scenari invisibili ma non per questo meno reali.
Il silenzio che si percepisce infilandosi nei cunicoli dei dedalici spazi è quasi di tipo religioso. Ci si accorge allora che gli artisti invitati dai curatori, per questa occasione, hanno dovuto esprimersi nel regno dell'invisibile. Se si osservano le note biografiche sugli artisti ci si accorge che il comune denominatore è spesso la voce. Si tratta di scrittori, poeti, musicisti, filosofi del linguaggio o drammaturghi.
Le forme d'arte chiamate ad esprimersi e a ridare suono e respiro al grande spazio dormiente sono legate all'arte della parola. Molti sono i testi scritti per l'occasione e recitati in varie lingue così che il fruitore, elemento fondamentale per il compimento dell'opera, possa ascoltarne brandelli, raccogliere mozziconi di frasi, costruzioni sintattiche che si succedono rompendo appena il silenzio che avvolge la stragrande maggioranza dello spazio. A volte parole famigliari costringono all'ascolto più attento, si ritrova la propria lingua, come un vecchio amico. Negli stanzoni vuoti appaiono allora delle sedute, anomale ma in qualche modo anche loro emerse da zone ancestrali della memoria. L'artista, il designer Martino Gamper, lavora non a caso ascoltando le suggestioni degli archetipi ed ha ideato le sedute presenti nei diversi angoli e nelle estreme propaggini delle superfici fortificate.
Anche nel cortile si cammina seguendo le voci come Teseo il filo di Arianna, un cartello invita a cercare la propria lingua. A volte proprio dei fili penzolano dal soffitto e ci si accorge che da lì parte il suono registrato. Si percorrono stanze, alla ricerca di parole note, di un codice comprensibile, di qualcosa che ci permetta l'accesso.
È l'eterno tentativo di comunicare, di entrare in contatto con l'altro.
Dal continuo fluire che tanto connota il muoversi contemporaneo, dal camminare quasi senza direzione abitando continuamente luoghi non luoghi di Augè che non ci appartengono e dove nessuno si ferma a lungo, tanto quanto basterebbe per affezionarsi, la presenza delle sedie, così spoglie, così scarnificate, così ridotte al simbolo di una sedia, suggerisce la possibilità di una sosta, di un affondo nell'attenzione, di ascoltare qualcosa di più di un brandello, di risalire attraverso un immaginario bandolo della matassa alla struttura dei racconti che popolano le sale. Ognuno, come nel mondo contemporaneo, fa i conti con la sua particolare e soggettiva concezione del tempo fenomenico. Non è importante che segua una storia, spesso non c'è una storia raccontata o da raccontare.
Ci si incontra per un attimo poi si riparte, non c'è tempo per la comunicazione, si è immersi nel veloce flusso comunicativo, immagini e suoni ci bombardano senza un ritmo, a intermittenze atipiche.
È il forte stesso che racconta la sua storia di attesa di un attacco che non è mai avvenuto in un atmosfera alla deserto dei tartari o di drammi beckettiani.
È il tema della minaccia immaginaria affrontata nel testo Aquatic Invasion da Thomas Meineche che descrive l'archetipo sul quale si è costruito l'intero sistema architettonico e difensivo di Fortezza.
Cosa c'è di più immateriale della voce? L'uomo è un'emissione di fiato. Ancor più del suono strumentale evoca la presenza di una persona che è stata o è, che è stata all'interno del forte austroungarico, forse soldato, lontano dagli affetti come si percepisce ascoltando le lettere dell'epistolario di Margareth Obexer che trasforma in un simbolo il luogo di fortezza per tutti i rifugiati in viaggio verso l'Europa.
Nelle sue lettere raccolte in Defending Europe, è la voce di un giovane emigrante che scrive alla sua famiglia che emerge dalla non vita dello spazio morto e si unisce a quella di tutti gli esuli che nel passato lo hanno abitato. Così come nei poemi scritti da Saady Yousef, lui stesso esule, emerge la condizione di uomo in fuga dove si rinvengono possibilità di aperture su sconfinati spazi dell'essere.
È in questi sconfinati spazi dell'essere che si viene continuamente sospinti aggirandosi negli spazi labirintici vuoti di cose e carichi di presenze. Il mistero la fa da padrone anche all'esterno di questo luogo arcano ed enigmatico che porta in sé il paradosso di non essere mai stato attaccato, di essere il luogo dove si dice sia stato nascosto un tesoro, mai venuto alla luce e di cui non c'è certezza, in cui l'acqua mormora la sua canzone dove lo specchio della sua superficie tremula riproduce la sagoma delle sue torri capovolgendola ed alterandola.
Il vento esterno o la brezza della sera, i suoni che indistinti arrivano a chi si aggira per i lunghi corridoi, le passerelle esterne, le aule disadorne dalle pareti spesse e i contorni netti, sono echi di un passato lontano o di un presente sempre più effimero in cui l'uomo è sempre più da solo.
Qualcuno ha detto che nella sede espositiva di Fortezza sono i curatori che l'hanno fatta da padroni più che gli artisti. Non sono né i curatori, che hanno avuto un'intuizione intelligente, né gli artisti, che come tali hanno accolto le potenzialità del luogo creando opere site specific, ma è la fortezza stessa che parla, anzi mormora, anzi respira. Gli artisti sono coloro che portando in superficie il palpito permettono alla voce di non essere un'emissione di fiato e basta, di essere qualcosa di più di un puro effimero.
Mladen Dolar studia le connessioni tra la musica e la psicanalisi, e nel suo testo: The voice and the fortresse affronta i paradossi dell'oggetto voce indagata nei suoi parallelismi con la labirinticità del luogo dove la voce appunto si diffonde e si perde.
Ancora la scenografia del posto viene assunta come scena di una immaginaria rappresentazione. La drammaturgia si mescola e si confonde con la scrittura e la poesia, così Ant Hampton elabora un progetto di messa in scena virtuale dei diversi testi presentanti e tradotti in forma recitata.
Suggestioni, letture attoriali e drammatizzazioni che giungono attraverso altoparlanti e cuffie da lontananze o prossimità che non si sanno quantificare, impartiscono ordini militari, urlano, inquietano.
Fanno saltare tempo e spazio.
L'istallazione sonora SWARM di Timo Kahlen nella corte d'ingresso riproduce il ronzio alterato di un nugolo di api racchiuso dentro un'armatura metallica a ricordare la natura bellico militare del sito.
Vincente la scelta dei curatori per il titolo e per l'ultimo dei luoghi deputati per "Manifesta-re" l'arte contemporanea. creando scenari immaginari e soggettivi di innumerevoli mondi fenomenici.
Roma, Settembre 2008