La Critica

Le tre metamorfosi dello spirito

la polemica intorno al museo romano dell'Ara Pacis progettato da Richard Meier e la proposta del nuovo sindaco Alemanno di demolirlo o spostarlo altrove

di Mirko Orlando

Durante il corso della sua prima conferenza stampa in Campidoglio, il neo sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha dichiarato di voler buttar giù l'opera dell'architetto Richard Meier, progettata per custodire l'Ara Pacis: «Non è una priorità. Però bisogna intervenire perché è stato un intervento invasivo nel centro storico. Faremo decidere i romani con un referendum»; queste sono state le parole del sindaco e proprio tale intervento merita a mio avviso una piccola riflessione poiché apre immediatamente il confronto su alcuni punti fondamentali che vale la pena discutere.

Dagli Stati Uniti, Richard Meier ha risposto di esser pronto a collaborare con il nuovo sindaco e a ridiscutere la questione, ma ha poi ricordato che la sua opera è ormai una delle destinazioni turistiche più visitate di Roma (in soli 2 anni, infatti, la teca di Meier ha visto 467.000 visitatori, secondo tra i musei comunali soltanto ai musei Capitolini, e tra quelli di Roma è dietro soltanto a San Pietro e al Colosseo). Io, invece, non sono interessato né a discutere con il sindaco di Roma, né a rispettare l'intervento per l'Ara Pacis solo sulla base di dati statistici cui da sempre concedo poca attenzione; non è una questione di numeri né di consensi, siano essi quelli dei cittadini romani o dei turisti. È una questione di metodo.


Entrata del Museo dell'Ara Pacis, progettato da Richard Meier, © Ph. LaCritica 2008

La libertà di esprimere un gusto personale non è in discussione: tutti noi abbiamo i nostri gusti ed è giusto esprimerli e difenderli anche animatamente; io non amo, ad esempio, la chiesa del Valadier (sfortunatamente, secondo il mio modo di vedere, non abbastanza "oscurata" dal "muro" di Meier). Non amo neppure il Pantheon, ma il mio giudizio è ovviamente discutibile, così com'è altrettanto discutibile ritenere la teca di Meier «una pompa di benzina texana» come invece sostiene Vittorio Sgarbi, ma se l'espressione di un gusto individuale deve essere garantita a tutti, non credo sia corretto trasformare questi "tutti" in un banco di giurati a cui spetterebbe il compito di decidere ciò che resta e ciò che deve sparire. Un referendum non risolve il problema; un referendum pone in gioco solo consensi o dissensi contingenti e oscillanti, mentre gli edifici si presume che abbiano un orizzonte "strategico" di lungo periodo: sono fatti, in genere, per stare in piedi e durare almeno qualche anno. Se l'estetica è una disciplina autonoma (almeno a partire dalla sua concezione filosofica illuminista), se dunque all'artista dovrebbero essere riconosciute competenze specifiche, allora non credo che il suo operato debba essere posto alla mercè di tutti con giudizi sommari e frettolosi. Non ho mai creduto al consenso di massa né credo che il volubile ed effimero gusto "doxastico" debba condizionare l'attività artistica. La massa preferisce le Pop Star a Keith Jarrett e non sono disposto a darle ragione per il solo fatto che essa esprime il volere della maggioranza. Ci sono cose che non riguardano la democrazia in misura maggiore di quanto non riguardino il riconoscimento di competenze specifiche che si rivolgono, di conseguenza, a particolari oasi d'intervento in cui il potere decisionale non è espressione di massa bensì di semplice competenza. Su questo versante, le critiche sono molteplici quanto gli elogi ma sembra trasversalmente condivisa l'idea che abbattere l'opera è un lusso che non solo non ci potremmo permettere oggi, ma che pure non ci si dovrebbe ragionevolmente permettere in qualunque circostanza con simili motivazioni superficiali ed estemporanee. Portoghesi, Fuksas, Gregotti e tanti altri, che pure non hanno mai amato l'opera di Meier, esprimono sdegno per una proposta tanto assurda quanto pericolosa perché, come sottolinea Bonito Oliva, «non può esistere un gusto di stato».

Non vorrei parlare, però, del fatto che forse non si dovrebbero sprecare 14 milioni di euro (il costo dell'opera) ogni volta che si cambia un sindaco, o del brutto vizio italiano di "rimuovere fisicamente" le tracce lasciate delle vecchie amministrazioni per puro spirito di contraddizione. Non vorrei parlare neppure di come tale opera è stata realizzata, se sia stata lecita la scelta di un autore famoso o sarebbe stato più corretto istituire un concorso pubblico. Non vorrei arrivare ad ammettere che di là dall'impatto estetico, per così dire, "ciò che è fatto è fatto" ed un ulteriore spreco di denaro pubblico sarebbe assolutamente fuori luogo. Non vorrei parlare di un intervento — quello del sindaco — tanto palesemente irrazionale e inopportuno da non meritare l'attenzione di tante riflessioni sensate. In verità non vorrei nemmeno parlare dell'opera di Meier — un caso pressoché unico nel suo genere — ma di un virus concettuale che ammala il paese e impedisce l'espressione di un reale progresso, un'emancipazione che sia primariamente culturale, un fecondo slancio propositivo, un andare avanti che implichi il diniego non già del passato ma dell'inattività comoda quanto inetta a cui da anni sembriamo ormai rassegnati.

Personalmente, non nascondo l'imbarazzo che ho provato nel trovarmi, la prima volta, davanti all'opera di Meier; "invasivo" è forse un termine che in qualche modo il nuovo sindaco ha utilizzato con cognizione di causa, perché esprime chiaramente l'impatto che la struttura esercita sull'ambiente circostante. Io stesso ammetto che, nonostante le buone intenzioni o i lodevoli tentativi dell'architetto, il richiamo al genius loci dell'area che ospita la struttura è fallimentare in quanto l'opera non appare del tutto inserita armonicamente nel circuito percettivo della piazza. Devo però ammettere che personalmente trovo invasiva la teca di Meier solo in quanto mi appare come l'unica cosa bella in mezzo ad un'accozzaglia di mostri, mal curati e incustoditi, che il tempo non è riuscito a rendere affascinanti. Proprio questo, forse, è il problema principale, che certo non si riduce intorno alla polemica sull'Ara Pacis e riguarda da vicino il nostro peccato originale, la malattia più profonda della nostra società, il cancro dell'Italia contemporanea.

Dove sono finiti i Romani che costruivano sulle rovine etrusche?

Dove il nostro Rinascimento?

Dove, mi fa male dirlo, la presunzione fascista? (Non a caso l'opera in questione è il primo importante intervento nel centro storico dai tempi del fascismo).

Al nostro presente, il passato, pur glorioso ed anzi, forse, fin troppo glorioso, non è per noi fonte d'ispirazione, ma si ripropone spesso come un mero vincolo da cui appare impossibile liberarsi. Siamo un popolo ammalato di storia. Le opere del passato, alcune bellissime, ci forniscono l'alibi per non confrontarci con il presente, portandoci bensì ad esprimere quel senso d'inadeguatezza tipico di chi, incapace di sentirsi all'altezza del tempo, rinnega la propria identità vivente precludendosi ogni possibile futuro.

Resterà qualcosa di noi ai posteri?

Oppure partiremo sempre dai Romani, dal Rinascimento fiorentino, dal Barocco o dal Fascismo?

Se non genera novità, se non feconda l'agire, la storia non è che l'inerte simulacro inquietante di un tempo già morto. Il nostro continuo rifugiarci tra le braccia degli artisti più grandi che abbiamo avuto, e che il mondo ha ospitato, non è altro che la logica conseguenza della nostra incapacità di pareggiarli, il segno manifesto della vergogna che ci portiamo addosso per non essere stati in grado di ascoltarli veramente, perché ascoltarli vuol dire in qualche modo distruggerli, rinnegarli, superarli a nostra volta come loro hanno superato, divorandoli, i loro predecessori. Tradire i maestri è l'unico modo per esser certi di averli ascoltati fino in fondo. La storia, proprio in quanto ci fornisce una sorta di memoria culturale, quindi un'identità specifica e singolare, acquista per noi un senso soltanto se pone le fondamenta di un agire in grado di procedere oltre. Solo se, come nel tiro con la fionda, l'andare indietro produce ulteriore forza per il lancio in avanti; viceversa, essa non mostra altro che la morte della nostra cultura, dando adito, oltretutto, ad un lutto impossibile da elaborare. La cultura è davvero cultura, ossia produce altra cultura, soltanto se riesce a generare "forme viventi" sottraendosi all'esercizio mortificante dell'interesse storico che pure ha il suo merito, a patto che tale interesse sia in realtà un interesse alla vita, all'attualità del sentire, cui la storia non fornisce altro che un punto di riferimento (o forse di riferimento ideale ma sempre in qualche modo "mancato"). Se conoscere non vuol dire primariamente agire, se l'azione non è che il riciclo del già fatto, allora forse non vale la pena di conoscere alcunché e per assurdo sarebbe meglio continuare a vivere da stolti, a gustarsi quel solo presente che la vita ci concede. Credo però che la conoscenza possa significare qualcosa di più: il passato può ancora suggerirci nuove prospettive ed aprire sentieri inesplorati, ma può farlo soltanto se questo passato è posto a giudizio ed accolto in quanto passato. Soltanto, quindi, se i precetti che da quel passato derivano sono accolti in tutto il loro splendore e seguiti nei principi fondamentali più che nelle espressioni particolari con cui si manifestano in un determinato momento storico. Dall'Umanesimo, dal Rinascimento, dal Barocco... non bisogna tanto mutuare le forme quanto lo spirito che li genera e che li potrebbe generare ancora, in forme se possibile ancor più belle, se solo fossimo capaci di prestare davvero ascolto al loro appello che ci richiama alle nostre responsabilità.

È chiaro, dunque, che le parole di Alemanno non riguardano soltanto il giudizio, sempre lecito, che si può esprimere sull'opera di qualcuno, ma implicano, fondamentalmente, l'adesione a quel particolare "inattivismo" intellettuale che sopra abbiamo evocato e che preferisce, per così dire, all'estasi della creazione, l'accettazione dello status quo delle cose, quel senso di protezione garantitoci dal nostro patrimonio storico. La teca di Meier non è certo intoccabile, così come non dovrebbe esserlo qualsiasi prodotto umano. Ma chi, nel caso in questione, la vuole "toccare" (demolire, spostare altrove), se non ne fa una pura questione di potere, in fondo potrebbe desiderarlo perché, credendo intoccabili i prodotti del passato, di spalle presta la sua attenzione al presente, e cieco all'avvenire non può che disprezzarlo, così come disprezza la sua incapacità di essere all'altezza dei suoi padri. Vale la pena ripeterlo, non è in questione soltanto l'edificio che accoglie l'Ara Pacis, in quanto è "pacifico" considerarlo materia opinabile per eccellenza. In questione è qui, piuttosto, un cancro tutto italiano: quel mito della storia da cui non sappiamo sottrarci e che, dal ruolo di madre del futuro, la riduce, ormai da mezzo secolo, a quello di matrigna della nostra disfatta culturale. Vorrei ricordare, a chi mantiene chiuse le orecchie su ciò che in questo discorso è davvero importante afferrare, le tre metamorfosi dello spirito descritte da Nietzsche in "Così parlò Zarathustra", di come lo spirito da cammello diviene leone e poi fanciullo, di come caricatosi di bagagli pesanti li getti poi via per creare, perché per creare è appunto necessario liberarsi del peso di questi bagagli.

«Fratelli, che bisogno c'è del leone nello spirito? Non basta l'animale da carico, che rinuncia ed è timorato?
Creare nuovi valori; nemmeno il leone né è capace. Ma crearsi libertà per nuove creazioni, di questo è capace la forza del leone.
Crearsi la libertà, crearsi un sacro no anche di fronte al dovere: per questo, fratelli, c'è bisogno del leone. [...]
Ma dite, fratelli, che cosa può il fanciullo, che non poté nemmeno il leone? Perché il leone predatore deve ancora diventare un fanciullo?
Innocenza è il fanciullo e dimenticanza, un ricominciare, un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un santo dire sì.
Sì al gioco della creazione, fratelli, occorre un santo dire sì»
.

Se siamo incapaci di creare la storia, affidiamoci almeno a chi questo coraggio e questa capacità non mancano, così almeno evitiamo di renderla padrona del nostro destino. Agli artisti, e forse a quei pochi altri "eletti", il privilegio della fanciullezza, ma a tutti gli altri, con lo sguardo rivolto alla storia, che sia almeno concessa la forza del leone.

Roma, 14 Maggio 2008