La Critica

L'immagine del suono: un percorso del Novecento

di Nicola Sani

Saggio pubblicato sul n.71, Luglio 2003, della rivista Musica/Realtà, Edizioni LIM, Lucca, per gentile concessione dell'editore.

1. L'altro nel suono

In una società di segnali audiovisivi sempre più complessi, la necessità di organizzare simultaneamente suoni e immagini è diventata una delle esigenze principali dei nuovi linguaggi dell'arte del nostro tempo. L'analisi delle molteplici relazioni tra il suono e ciò che a partire da esso si manifesta e si sviluppa come forma di linguaggio autonoma, è molto utile per comprendere quelle linee di tendenza basate sull'interazione tra suoni e immagini che oggi costituiscono il «background» delle arti elettroniche e delle nuove esperienze intermediali. Per individuare tali linee di tendenza è particolarmente interessante ragionare sul rapporto tra sonoro e visivo determinatosi nei primi vent'anni del Novecento, quando si svilupparono nelle arti visive movimenti portatori di un messaggio dirompente di rottura con il passato, come quello futurista e dadaista, mentre nello stesso tempo compositori e musicisti erano alla ricerca di forme espressive che potessero unire suono e immagine in un'unica forma di rappresentazione.

Mentre autori di immagini visive – pittoriche, fotografiche, cinematografiche – come Man Ray, Duchamp, Hans Richter, cercavano uno spazio sonoro al di là dell'immagine, alcuni compositori cercavano uno spazio visivo oltre il suono. Aleksander Skrjabin nel 1910, con il poema sinfonico Prometeo, scrisse una partitura in cui le note corrispondono a luci colorate. Una tastiera, che simula quella di un  pianoforte, permette di associare ai tasti delle note tradizionali i colori ai quali Skrjabin affidava il suo senso visionario di sintesi cosmica di suono e luce. Questa ricerca dell'alterità rispetto al fenomeno sonoro, affonda le radici nella tradizione della rappresentazione grafica della musica.

Dalla notazione neumatica gregoriana derivava la visualizzazione degli ornamenti con un forte incremento della gestualità; Luca Marenzio immaginava le «notazioni per gli occhi» in epoca rinascimentale; attraverso il ruolo fondamentale dell'ornamento, l'epoca barocca ci offre parimenti una testimonianza della tensione che si può determinare tra lo spazio grafico e lo spazio simbolico che delimita l'architettura dell'opera. A partire dal ventesimo secolo alcuni compositori hanno sentito la necessità di integrare le loro ricerche su nuovi materiali sonori mai presi in considerazione dalla musica tradizionale con la ricerca su forme inedite di rappresentazione grafica di questi materiali.

Le partiture e i progetti del compositore futurista italiano Luigi Russolo, erano pensate per oggetti sonori, i cui risultati non potevano essere descritti se non in funzione delle tipologie dell'effetto musicale stesso. Per altro verso, Bartók nei suoi tentativi di descrivere gli esempi provenienti dalle sue ricerche sulla tradizione orale, scriveva nel 1913: «Nelle melodie popolari, vi sono molti suoni estranei, alcuni glissati della voce, suoni la cui altezza non può essere precisata». Per rappresentare tali effetti, Bartók trovava necessario aggiungere nuovi segni al corpo esistente, oppure sostituire tali segni con opportune spiegazioni su ogni pagina. Per indicare intervalli di altezza inferiori a un semitono, compositori come Aloïs Haba o Ivan Wischnegradsky hanno adattato ai simboli esistenti diverse forme di notazione.

È evidente che ampliandosi la sperimentazione sulle nuove sorgenti sonore – in maniera particolare con Edgard Varèse – si sono rivelati indispensabili ampliamenti e ramificazioni della scrittura tradizionale. È proprio Varèse a scrivere: «Poiché nuove frequenze e nuovi ritmi dovranno essere indicati sulla partitura, la notazione attuale si rivelerà inadeguata. La nuova notazione sarà probabilmente di tipo sismografico. Come nel Medio Evo, siamo di fronte ad un problema di identità; quello di trovare simboli grafici per trasporre le idee del compositore in suoni».[1] Sempre Varèse lascia intravedere nei suoi scritti un modello di notazione che rimanda alle scritture ideografiche utilizzate originalmente per la voce prima dello sviluppo della scrittura.

Il problema della scrittura investe rapidamente, nella musica del nostro tempo, il rapporto tra autore ed interprete nella prassi esecutiva della partitura. È giusto chiedersi oggi se, alla luce della sistemazione dodecafonica di Schoenberg, che evidentemente coinvolgeva anche le forme di scrittura della partitura, quella notazione allora utilizzata potesse garantire a Schoenberg una corretta esecuzione di ciò che lui aveva pensato. Anche se egli stesso riteneva di avere trovato una forma di organizzazione del suono tale da permettergli una perfetta realizzazione delle sue volontà, oggi è legittimo chiedersi se quella notazione glielo permettesse realmente. In quegli stessi anni, attraverso strade diverse, Edgard Varèse e Arthur Honegger arrivarono a prevedere una meccanizzazione dei sistemi di produzione del suono e il primo in particolare portò avanti l'ipotesi che fu già di Ferruccio Busoni, di poter disporre di un universo di sonorità che va ben oltre quello della suddivisione tradizionale dell'ottava. "Altro" e "oltre" sono le parole che sintetizzano la ricerca delle avanguardie artistiche sul suono e sul segno di quegli anni.

Le scoperte legate alla produzione del suono per via elettromecanica ed elettronica, la sistematizzazione dell'uso di nuove sonorità (oggetti sonori, strumenti concreti) introdotta dai futuristi e poi divenuta patrimonio meno effimero dell'avanguardia del secondo dopoguerra, l'introduzione di elementi dirompenti provenienti dalla musica popolare (Debussy, Ravel, Bartók, Kodaly), il rapporto con la danza e con la nuova arte cinematografica, hanno aperto la strada nella musica al rapporto con fenomeni esterni, legati alla visualizzazione del gesto interpretativo, sia in relazione alla fenomenologia dell'evento sonoro, sia alle diverse modalità della prassi esecutiva.

Per quanto riguarda l'interazione tra scrittura ed esecuzione in opere come Momente di Karlheinz Stockhausen e Sonant di Mauricio Kagel, in diverse composizioni di Cornelius Cardew e Sylvano Bussotti, nelle Variazioni di Domenico Guaccero, in Aventures e Nouvelle Aventures di György Ligeti, nelle partiture grafiche di John Cage e Earle Brown, la musica scritta assume una propria autonomia di forma grafica, che può persino prescindere dalla sua rappresentazione sonora. December 52 di Earle Brown, una delle prime partiture grafiche, consiste di un foglio bianco sul quale sono iscritti rettangoli neri di differente dimensione e lunghezza.

Dall'osservazione di queste figure si deduce che non appaiono mai nella pagina due elementi della stessa dimensione, né due spazi vuoti uguali tra di essi. Ciascuna ha dunque una propria individualità e si manifesta in un contesto con un proprio "peso". Che cosa se ne può dedurre a proposito di un'esecuzione musicale? Si tratta di tradurre acusticamente l'impressione che producono sull'occhio i grafismi e la loro disposizione sulla pagina? Nessuna direzione particolare sembra favorita, nessun punto di riferimento sembra indicare una direzione o un'altra. È per questo che Earle Brown parlava di "esecuzione composta" anziché di "composizione eseguita".

Tra i riferimenti di Earle Brown, troviamo due importantissimi artisti visivi: Jackson Pollock e Alexander Calder. Del primo, Brown diceva: «quello che Pollock ha creato durante gli ultimi dieci anni della sua vita, ha rivoluzionato completamente il mio modo di pensare la musica e mi ha fatto scoprire le forme aleatorie, spingendomi a realizzare Available forms». A proposito di  Calder, in relazione a Available forms II, Brown diceva: «I suoi  mobiles mi hanno permesso di osservare le variazioni libere che si determinano, i cambiamenti variabili all'infinito ...». Ancora a Earle Brown è legato il termine sinergia, a sottolineare come questo tipo di operazioni implichino «l'azione congiunta di tutti gli organi di un sistema».

Sarebbero molte altre le esperienze da ricordare. Basti pensare a quelle dei già citati John Cage (Variazioni, Cartridge Music ecc...) e Sylvano Bussotti (Rara, La Passion Selon Sade), di Morton Feldman (The King of Denmark, Intersection III), Francis Miroglio, Vittorio Gelmetti, Anestis Logothetis, Roman Haubenstock-Ramati, etc. E ancora molto importanti, per quel processo sinergico nel senso in cui lo pensava Earle Brown, sono le rappresentazioni grafiche di Iannis Xenakis, per i suoi rapporti con l'architettura e per il successivo sviluppo nei Polytopes, spazi progettati di suoni, luci laser e flash elettronici. Xenakis ha cominciato a lavorare sui Polytopes dagli anni Sessanta; una prima manifestazione concreta della sua ricerca fu l'impressionante Polytope II, realizzato a Cluny nel 1972. Questo spettacolo audiovisivo venne presentato in un vasto e complesso spazio architettonico che gli dette una dimensione cosmica. Sulla stessa linea il compositore/architetto greco realizzò nel 1978 il Diatope, sulla spianata prospiciente il Centro Pompidou di Parigi, utilizzando musica strumentale, concreta ed elettronica. Gli elementi visivi comprendevano milleseicento flash elettronici e quattro laser, oltre a quattrocento specchi e altri materiali che riflettevano la luce. L'insieme delle risorse tecniche di questo ambizioso progetto era gestito dal calcolatore. La connotazione "cosmica" era sottolineata da tutta una serie di galassie, create dai flash elettronici.

2. Composizione di suoni e immagini.

Con il cinema surrealista e in particolare con i film del pittore dadaista e regista di film sperimentali Hans Richter, si sviluppano le prime interessanti forme di composizione e di interazione tra suoni e immagini. In The Dreams that money can buy (1945-47), realizzato in collaborazione con Man Ray, Duchamp, Calder, Max Ernst e Fenand Léger le musiche di John Cage, Darius Milhaud e Edgard Varèse entrano in autentiche strutture pittoriche, che attraverso la cinematografia acquistano la dimensione di articolazione spazio-temporale che è propria della musica. Questa relazione era già stata studiata in maniera approfondita nella collaborazione tra Ejzenštejn e Prokof'ev, che ricorsero addirittura a forme di rappresentazione grafica del rapporto tra immagine e musica in determinate sequenze. Celebre è quella della Battaglia sul ghiaccio nel film Aleksandr Nevskij (1938), in cui la costruzione filmica e quella musicale sono talmente interrelazionate, da costituire una vera, unica opera di suoni e immagini. Per parte sua Schoenberg, nella Begleitmusik zu einer Lichtspielszene op.34 realizza nel 1929-30 una musica che, seguendo lo schema classico della scansione scenica nella proiezione del film muto, può far presagire sequenze di immagini.

Nel campo cinematografico si potrebbero fare molti altri esempi della ricerca di una coerente sinergia espressiva fra immagini e musica, orientata verso le nuove forme di linguaggio intermediali, dove gli autori hanno cercato di superare i tradizionali concetti di colonna sonora, musica d'accompagnamento o musica applicata. Al di fuori dell'ambito cinematografico è interessante soffermarsi su due esperienze in particolare, che riguardano l'interazione fra immagine e suono: quella del rapporto fra arti visive ed eventi sonori ad esse collegate e quella dell'happening, quest'ultima autentico ponte con le attuali tendenze intermediali.

Seguendo un processo analogo a quello dei compositori che hanno voluto dare una forma visiva autonoma alle proprie partiture, anche autori di immagini hanno utilizzato elementi di partiture sonore all'interno delle loro costruzioni. Frammenti di partitura li troviamo, senza alcuna necessità di ulteriore interpretazione sonora, nei collages di Robert Motherwell, Jiri Kolar, Ladislav Novak. L'artista greco, naturalizzato italiano, Iannis Kounellis, ha messo lui stesso frequentemente in scena le sue pitture in associazione ad esecuzioni musicali o azioni di danza, procedendo ad esempio all'ingrandimento della partitura, che ricopre generalmente in maniera graduale in modo che una parte si trovi occultata. Un altro autore che ha frequentemente utilizzato il termine di musica visiva è Luciano Ori. Le sue partiture-collages non rappresentano la trascrizione visiva di impressioni ricevute dall'ascolto di una musica, né una qualunque interpretazione di essa. «La trasgressione del genere musicale è totale – scriveva Ori – perché la musica visiva si configura come una musica altra. È sufficiente guardarla per ascoltarla e ascoltarla per guardarla»,[2] in modo tale che cercare di interpretarla è semplicemente riduttivo.

È stata l'evoluzione dei mezzi elettromeccanici ad affascinare sempre di più gli artisti e ad avvicinarli ai fenomeni di riproduzione sonora. Nel 1924 Lazlo Moholy Nagy pubblica sulla rivista Der Sturm l'articolo: La nuova creazione nella musica: le possibiltà del fonografo. Nello stesso anno Kurt Schwitters registra un estratto della sua Ursonate come allegato del n. 13 della rivista Merz Grammophonplatte. A partire dagli anni Cinquanta numerosi dischi sono realizzati da esponenti delle arti plastiche. Si ricordano in particolare Yves Klein (La musica del vuoto 1959), Jean Dubuffet (le sue Esperienze musicali sono del 1961), quindi Karel Appel, Henning Christiansen, Camille Bryen, Joseph Beuys, Bernar Venet, Tom Phillips, Wolf Vostell, Hermann Nitsch, Milan Grygar, George Brecht, talvolta anche in collaborazione con dei compositori.

Da queste esperienze nascono anche le "sculture sonore", installazioni che costituiscono il maggior momento di sintesi fra musica e arti plastiche. Harry Partch, poliedrico compositore statunitense, può essere considerato il fondatore del movimento delle sculture sonore, che devono condurre ad un'integrazione delle qualità visive ed acustiche di un oggetto sonoro inventato. Ritenendo la musica europea "incorporea", Partch sentiva l'esigenza di una musica che si indirizzasse simultaneamente verso l'occhio; musica, parole, danza, liuteria strumentale, si devono fondere in una perfetta unità di intenzione. A partire dagli anni Quaranta, lo scultore Harry Bertoia ha realizzato oltre un centinaio di Sounding brasses, assemblaggi di tubi di diverse dimensioni in grado di produrre vibrazioni sia acustiche che visive.

Il movimento delle sculture sonore ha uno dei suoi più interessanti rappresentanti nello svizzero Jean Tinguely, i cui primi lavori acustici (Le mie stelle, Concerto per sette pitture), risalgono al 1958. Certe sue opere contenevano strumenti a percussione. Successivamente, nell'Omaggio a New York, Tinguely realizzò installazioni con strumenti che si autodistruggevano, con un clamore tale, che portò nel 1963, in occasione della sua mostra a Tokyo, il compositore Toshi Ichiyanagi a realizzare una composizione a partire da queste sonorità. Il Giappone aveva visto la formazione a Tokyo del gruppo Ongaku e del Sogetsu Art Center, con Kuniharu Akiyama, Toshi Ichiyanagi, Joji Yuasa, Takahisa Kosugi e Chieko Shiomi, nei primi anni Sessanta.

Con Takis il progetto sonoro diventa inseparabile dal progetto plastico. Dopo una collaborazione con Earle Brown, Takis cominciò a realizzare dal 1965 una serie di sculture basate su sistemi elettromeccanici e pendoli ed alcuni ambienti musicali elettroacustici. Nello stesso tempo nascevano le attività "rituali" di La Monte Young e Marian Zazeela (il cui sodalizio artistico si è accompagnato a quello nella vita), con il Theatre of Eternal Music, che in un primo tempo comprendeva anche John Cage, Tony Conrad e Angus MacLise. Nonostante La Monte Young e Marian Zazeela abbiano dato vita assieme ad un gran numero di progetti - nei quali le composizioni di lunga durata di Young, basate sull'ascolto ripetuto di precise strutture intervallari e sull'interferenza tra diversi sistemi di intonazione – erano completamente immerse nel raffinato lavoro sui cromatismi della luce di Marian Zazeela,  tuttavia le loro opere più conosciute sono The Well-Tuned Piano (cominciato da Young nel 1964) e giunto ad una durata complessiva di oltre sette ore e Dream House (1969), spazio di suoni e luci pensato per la durata di settimane, mesi e persino anni. Questo progetto si è trasformato in un'installazione permanente, che ha avuto luogo a New York in Harrison Street per la durata di sei anni, dal 1979 al 1985, interrotta a causa di improvvisi problemi finanziari interni alla Dia Art Foundation, che supportava l'iniziativa.

Il gruppo statunitense Pulsa era particolarmente attivo durante tutti gli ultimi anni Sessanta, con azioni sceniche ambientali di luci e suoni come il Boston Public Garden Demostration (1968), che utilizzava 55 luci stroboscopiche disposte sott'acqua nel grande lago del parco. Sulla superficie dell'acqua erano disposti 52 altoparlanti multiplanari controllati, assieme alle luci, da computer e nastri magnetici preregistrati. Al centro di questo progetto era il Hybrid Digital/Analog Audio Synthesizer, un sintetizzatore progettato e realizzato in unico esemplare dal gruppo Pulsa, che lo utilizzò in altri eventi successivi. Nel 1962 si formava il collettivo Usco, un insieme di artisti e ingegneri che si dedicavano alla realizzazione di happening, azioni e interventi anonimi.

All'inizio degli anni Cinquanta si svilupparono, in particolare negli U.S.A., pratiche artistiche che pensarono di liberarsi una volta per tutte dell'ambizione di instaurare rapporti di causa-effetto entro i diversi modi delle attività messe a confronto. Piuttosto che una messa in parallelo degli elementi utilizzati nei diversi campi artistici, si dovrebbe parlare di una interpenetrazione che permette di accordare a ciascun dominio preso in esame una relativa autonomia di funzionamento.

Nel 1952 John Cage al Black Mountain College, prese l'iniziativa di un'azione musicale che viene considerata come l'antecedente dell'happening. Dopo una conferenza sul Buddhismo Zen e una lettura di Meister Eckhardt, eseguì una versione di Imaginary Landscape n.4 per postazioni radiofoniche. Simultaneamente Robert Rauschenberg diffondeva dei vecchi dischi e David Tudor suonava il pianoforte preparato. Quindi Merce Cunningham e altri danzatori intervenivano nell'evento. Teli bianchi di Rauschenberg erano appesi alle pareti. Nessuna gerarchia si imponeva tra gli elementi, visivi e sonori, che non erano destinati a incontrarsi che fugacemente lo spazio di un istante. Ma il termine happening applicato a questo genere di eventi, sembra che sia legato all'artista americano Allan Kaprow. I primi happening datavano al 1957, in occasione dei suoi interventi-collage alla mostra di George Segal nel New Jersey. Successivamente Kaprow sostituì dagli anni Settanta il termine happening con il termine activity.

Nel 1961 viene fondato il gruppo/movimento Fluxus, da George Maciunas. Fluxus, sviluppatosi sopratutto negli USA e in Germania, è stato il primo movimento d'avanguardia ad essere molto coinvolto nella musica. Tra i suoi membri vi erano La Monte Young, Nam June Paik e Benjamin Patterson. Molte iniziative provenivano dalla classe di John Cage presso la New School for Social Research, alla fine degli anni Cinquanta. Altre iniziative si tenevano nel loft di Yoko Ono, al tempo sposata con il compositore giapponese Toshi Ichiyanagi, e presso la A.G. Gallery di George Maciunas.

La maggior parte degli eventi di Fluxus, in particolare quelli di George Brecht, si collocano dentro diversi modi di comunicazione, come poesia, rappresentazione teatrale ed esecuzione musicale, tra l'arte e la vita quotidiana. Tra le figure centrali del movimento in Germania troviamo, oltre al già citato Paik, che costituiva la vera figura di congiunzione del movimento tra i due continenti, Joseph Beuys e Wolf Vostell. La loro ricerca fuori dalle categorie artistiche tradizionali si incontra ugualmente in Spagna, nella produzione del gruppo Zaj, costituito da Juan Hidalgo, con la partecipazione di Walter Marchetti e Esther Ferrer, nelle performance del compositore e artista catalano Carles Santos e ancora nei libri-partitura di Tom Phillips, nelle partiture della Scratch Orchestra di Cornelius Cardew, in alcuni lavori di Dieter Schnebel e nel Teatrino di Giuseppe Chiari.

Sempre in questo contesto si sono affermate diverse realizzazioni di poesia sonora e  poesia visiva o concreta e la videopoesia (di cui sono esponenti autori come Bernhard Heidsieck, Gerhard Rühm, Henri Chopin, Gianni Toti). Con Nam June Paik si amplifica il fenomeno di attenzione di questi movimenti alla realtà dei mass-media. La videoarte nasce di fatto oltre 30 anni fa, a Wuppertal, con l'inaugurazione nella galleria Parnass della Exposition of Music/Electronic Television di Paik. Fu proprio Paik, in occasione della sua prima mostra newyorkese alla Galleria Bonin nel 1965 che volle parlare di "arte elettronica", invece che di "videoarte", dando origine ad uno dei fenomeni più interessanti del nostro tempo, in cui interagiscono tutte le forme espressive legate allo sviluppo delle tecnologie e al loro rapporto con l'espressione attraverso i nuovi media.

3. Il suono nell'arte elettronica.

L'immagine elettronica ha avuto da sempre un rapporto molto stretto con il suono. Sembra quasi nascere da esso, costituirne l'elemento complementare. Può sembrare un caso, ma tre tra i più grandi videoartisti viventi, provengono dall'esperienza musicale: Nam June Paik, Robert Cahen e Bill Viola. La loro produzione riflette il suono e sul suono in maniera molto diretta. Non solo in forma esplicita, collegandosi direttamente ad alcuni grandi compositori (Paik-Cage, Cahen-Boulez, Viola-Varése), ma anche in forma autobiografica, o di ricerca di un linguaggio espressivo autonomo. Basta attraversare un'installazione di Paik, "ascoltare" un video di Cahen, come Hong Kong Song, ad esempio, o entrare in un video-ambiente pensato e realizzato da Viola, come Going forth by day, per rendersene conto.

Nel primo, troviamo esplicitate nel suono le forme caotiche della contemporaneità, le sovrapposizioni di segnali, le diverse provenienze dei generi e degli stili senza più tratti distintivi, ma parti integranti di quel caos sonoro e visivo al quale la vita delle metropoli non riesce più a sottrarsi. Salvo poi, e anche in questo sta il fascino della poetica dei contrasti di Paik, stemperare questa caoticità nella complessa semplicità del silenzio, o nel tempo che trascorre tra il ripetersi di un semplice intervallo di due note, che possono servire come centro dominante di una parte della giornata. È ancora più emozionante oggi rivedere l'Omaggio a Cage di Paik, pensando a quell'anello di complicità che legava i due artisti nel costruire una partitura che ha come luogo privilegiato non solo il tempo, asse in cui è sempre stata letta la funzione destrutturante dell'intervento cageano, ma sopratutto lo spazio e dunque l'immagine di esso.

Da quell'idea di spazio sonoro partono, ad esempio, le immagini di Cahen, fondamentalmente sonore, girate ad Hong Kong, che restituiscono un paesaggio urbano con tutta la sua connotazione di veloci impressioni e di continuità timbriche. Ma Cahen non si ferma davanti alla contemplazione del suono; lo modifica, lo elabora, lo costruisce egli stesso, infine lo cerca. Cerca quel suono che solo l'immagine può portare con sé quasi come forma di testamento obbligato; non è mai, non lo è neanche per Nam June Paik o per Bill Viola, un accompagnamento, neanche in una complessa costruzione video come Going forth by day, videoinstallazione liberamente ispirata al ciclo giottesco della Cappella degli Scrovegni di Padova, con i suoni naturali come unico contrappunto alle immagini, a formare una sinfonia di accadimenti nel tempo di una metafisica quotidianità. Oppure le immagini e i suoni del deserto in un video come Chott-El-Djerid, girato nel Sahara, che rimandano ai deserti sonori di Varèse.

Cade l'uso ormai superato (e stigmatizzato in senso negativo già da Adorno e Eisler nei loro scritti sulla musica per film) della Begleitmusik (musica d'accompagnamento), per dare luogo ad un'espressione sintetica e sinergica definita dalla ricerca all'interno dei molteplici parametri di una forma che si sviluppa attraverso suoni e visioni. E in questo contesto vi sono anche le collaborazioni fra autori provenienti dai territori del suono e dell'immagine.

È il caso, emblematico, di Woody e Steina Wasulka. «Ho scoperto che negli Stati Uniti esiste una cultura industriale alternativa, che s'affida alla genialità individuale, quasi come nell'arte. Gli inventori-programmatori in elettronica hanno saputo difendere la loro indipendenza all'interno del sistema. Divenuti artisti a pieno titolo, essi utilizzano gli utensili elettronici che hanno creato». Sono le parole con cui Woody Vasulka racconta la propria esperienza di artista, rigorosamente indipendente. Assieme alla moglie Steina, ha dato vita ad una delle più straordinarie esperienze dell'arte contemporanea. Cecoslovacco, cineasta e video-maker, lui, islandese, violinista, lei, entrambi innamorati della tecnica e delle nuove possibilità offerte dalle tecnologie per il suono e l'immagine, si sono stabiliti negli Stati Uniti nel 1965. Da lì non sono tornati più indietro, formando una coppia affiatatissima in una vita che è andata sempre più confondendosi con il lavoro di continua sperimentazione artistica.

Nel 1971 i Vasulka hanno fondato "The Kitchen", storico spazio dell'avanguardia newyorkese, ancora oggi molto attivo nelle proposte di "nuova musica" (Rhys Chatham, John Zorn) e nella video-performing art, ricavato dalle cucine del vecchio Broadway Central Hotel. Esponenti di primo piano del video indipendendente, hanno vissuto da protagonisti le tappe fondamentali di quella che si potrebbe definire l'età dell'"euforia del radicalismo": un'esperienza esistenzialmente americana, immersa nella controcultura underground del Rock, della Beat Generation, della Pop Art, della musica d'avanguardia e dei movimenti di liberazione delle minoranze oppresse.

Alcune loro videoinstallazioni possono essere considerate come dei prototipi del rapporto tra suono e immagini nello spazio. Matrix, degli anni Settanta, dove il suono  diventa segno e ritmo visivo attraverso i monitor; le ricerche sui meccanismi cinetici e sul feedback, sulla possibilità di riprendere ciò che simultaneamente si vede, sono alla base di All Visions, del 1975, in cui due telecamere sono poste in rotazione davanti ad una sfera specchiante; The West, degli anni Ottanta, dedicata alla metamorfosi del paesaggio del Nuovo Messico (dove i due artisti si sono stabiliti) nell'era della sperimentazione tecnologica sul territorio; Tokyo 4, in cui la ritualità dei gesti e degli automatismi meccanici che li racchiudono si unisce alla diversa ritualità della coreografia di un gruppo di teatro-danza giapponese; Phyroglyphs, del 1995, dove Steina introduce l'elemento del fuoco come strumento alchemico di metamorfosi, riconducendo la sua ricerca agli aspetti da cui era partita negli anni Settanta, con la sua audio-video performance Violin Power. Se nell'installazione più recente è il fuoco a simboleggiare la forza di trasmutazione di un materiale nell'altro, allora era il violino a rappresentare la necessità di trasformare un linguaggio in un altro, a costringere la telecamera a farsi suono, a cambiare la sua natura di macchina descrittiva per divenire lo strumento espressivo di un mondo sonoro interiore.

Tra le esperienze più interessanti che, partendo da un uso alternativo del video, spaziano verso la musica, le installazioni intermediali, il teatro sonoro e il teatro musicale, troviamo quelle del gruppo milanese Studio Azzurro (Paolo Rosa, Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi): con Giorgio Battistelli (Il Combattimento di Ettore e Achille e l'Opera Kepler's Traum - Il sogno di Keplero, introducono il tema dell'intermedialità nel teatro musicale conteporaneo; con Peter Gordon (Il Nuotatore), con Giorgio Barberio Corsetti (tra le altre: Vedute, musica di Piero Milesi; Prologo a Diario Segreto Contraffatto, musica di Daniel Bacalov; Correva come un lungo segno bianco, musica di Roberto Musci e Giovanni Venosta; L'osservatorio nucleare del Sig. Nanof, musica di Piero Milesi; La camera astratta), con Daniele Abbado (Aleksandr Nevskij Video, rilettura elettronica delle immagini di Ejzenštejn sulla musica della Cantata per soli, coro e orchestra di Prokof'ev, l'opera Che: cambiare la prosa del mondo, con la musica di Mauro Bagella-Francesco Galante-Giovanna Marini-Serena Tamburini-Nicola Sani, su testi di Luigi Pestalozza). Tra i lavori da me realizzati, quelli con il pittore e videoartista  Mario Sasso, tra cui il video Footprint (Prix Ars Electronica Linz 1990), le installazioni Le città continue/La stanza di Vertov, Omaggio a Giacomo Leopardi, La Torre delle Trilogie (Premio Guggenheim 1998), l'opera intermediale Frammenti sull'Apocalisse (Prix Italia 1994), progetto scenico e regia di Daniele Abbado, testo di Roberto Andò, con la collaborazione per la realizzazione video e multimediale di Luca Scarzella e Cinzia Rizzo e per le proiezioni sceniche di Mario Sasso; con Michelangelo Antonioni per il cortometraggio di immagini e suoni Noto-Mandorli-Vulcano-Stromboli-Carnevale (1992); con la Compagnia Corte Sconta di Milano e il regista Kiko Stella per la realizzazione di Spargimento (1997), opera per musica e danza su testi di Erri De Luca.

Nel campo del rapporto tra musica e computer grafica tra le esperienze più interessanti in Italia sono state quelle sviluppate da Adriano Abbado, che possiede una doppia formazione di compositore e computer artista, Pietro Grossi, che è stato anche uno dei pionieri in assoluto della computer music e Ida Gerosa, il cui lavoro sull'immagine ha sempre cercato profonde radici nell'uso di sonorità di ricerca e sperimentali; in campo internazionale da John Whitney, Ed Emshwiller e Morton Subotnik, Tamas Walizky, Joan La Barbara, Tod Machover, compositore e autore di una  "hyper-opera". Tra le molte altre esperienze da ricordare: l'uso della musica e dei suoni concreti nelle video installazioni di Marie-Jo La Fontaine (Larmes d'acier, Jeder Engel ist schrecklich) e di Joan Jonas, il rapporto di Fabrizio Plessi con la liquidità visiva e sonora (Plessi è autore tra l'altro delle scenografie elettroniche di diverse opere legate alla danza, come La caduta di Icaro con la musica di Michael Nyman e le coreografie di Frederick Flammand e Sciame, con la musica di Luca Spagnoletti e le coreografie di Enzo Cosimi), le installazioni per suoni e oggetti nello spazio di Brian Eno (tra cui una delle più interessanti per l'uso del suono nello spazio è The future will be like perfume), le relazioni con il suono di Bob Wilson, le interpolazioni tra il linguaggio video e quello musicale di Klaus vom Bruch, le musiche di Bill Frisell per le immagini di Buster Keaton, gli spazi entro cui si sono progettati i percorsi sonori tra oggetti di uso quotidiano di Christina Kubisch, il rapporto tra esecuzione e immagine elettronica nel pianoforte di Daniele Lombardi,  l'uso del video in senso non documentaristico per raccontare la creazione sonora nelle impressioni di Edna Politi sugli infiniti possibili di Luigi Nono (il video Les Quatuor des possibles).

Sono solo alcune tracce delle tendenze e dei percorsi più interessanti che cercano nella nostra memoria i tratti per definire un orizzonte progressivo, consapevole, critico, dell'espressione artistica intermediale.


Note

[1] E. Varèse, Écrits, ed. Christian Bourgois, Paris 1983, p.93.

[2] Jean-Yves Bosseur, Le sonore et le visuel, ed. Dis Voir, Parigi 1992