La Critica

C'erano una volta i paesi dell'Est

di Patrizia Mania

In poco più di un decennio, tra l’inizio degli ’80 e i primi ’90, si è consumata la fine dei regimi socialisti dell’orbita sovietica. Uno dopo l’altro, in un macroscopico effetto domino, tutti i colossi della contrapposizione dell’est all’ovest sono crollati. Gli effetti immediati di una tale rivoluzione hanno riempito le pagine dei giornali dell’epoca con inchieste dossier sulla cronaca dei fatti poi travasata in storia. Ripensare oggi con il distacco ulteriore di un decennio a questa lunga travagliata vicenda è un modo per comprendere meglio la composita realtà a cui direttamente o indirettamente è stato dato vita. Di certo è che non si è passati incolumi da questo processo. L’ansia dell’est di adeguarsi ai modelli occidentali ha prodotto sul lungo corso esiti culturali, sociali, psicologici, forse insospettabili, senz’altro ad oggi ancora conseguenti. La consapevolezza di una non ovviabile questione di raffronto con il mondo occidentale, con tutte le idiosincrasie possibili, è, mi sembra, un tema particolarmente frequentato da certo realismo del cinema. Ciò è evidente nel cinema rumeno, si pensi ad esempio al film di Porumboiu A est di Bucarest, ma anche nel film Il segreto di Esma diretto da Jasmila Zbanic, vincitore dell'Orso d'oro al Festival di Berlino 2006.

E nell’arte? Quali sono gli indici di trattenimento di questa esperienza di collusione?

Ad accelerare la spinta verso un rapido aggiornamento alla realtà fuori dalla simulazione, imperante nel clima dell’ultimo postmoderno, è proprio la pressione esercitata dall’apertura dei confini con l’est europeo. Le stesse controverse vicende che avevano visto contrapporsi al realismo di stampo socialista le nuove istanze linguistiche derivate dalle sperimentazioni avanguardiste in occidente - in primis la performance – si combinano con i nuovi vissuti generando modalità espressive per lo più improntate all’urgenza del comunicare il proprio stato d’animo, spesso di totale consapevole e rabbiosa inadeguatezza. Nel 1996 a Berlino la performance di Oleg Kulig I Love Europa but Europa doesn’t love me stigmatizza in toni esasperatamente drammatici la situazione. Kulig, completamente nudo vestito solo di un collare si mette a quattro zampe a simulare un cane. La citazione del titolo della performance di Joseph Beuys I Like America and America Likes Me svoltasi nel maggio 1974 non è certamente accidentale.

Il problema della discriminazione, dell’assenza, dell’invisibilità, dell’identità, attraversa tutta la vicenda dell’arte dell’est Europa.

Un senso complessivo di confusione sembra albergare nell’era postsocialista nelle generazioni provenienti dall’est il cui paradigma è il forte ancoramento alla realtà, dunque, alla sua crudezza, alla sua desolante crudele banalità.

In quell’ Europa altra c’è anche stata la questione dei Balcani e della tormentata guerra. Nessun altro luogo in Europa ha visto nei secoli costruirsi una realtà così eterogenea, difficoltosamente amalgamata e poi scissa in un doloroso elenco di vite umane perdute. Latenti conflitti etnici e religiosi sotto la spinta incalzante degli eventi storici sono poi sfociati in quella terribile guerra che nel contempo ha anche minato l’avvio proprio di un’identità europea votata alla tolleranza e costretta viceversa a fare precocemente i conti con l’ipotesi della sua stessa sostenibilità.

C’è una performance realizzata nel 2000 dall’artista serbo Balint Szombathy in collaborazione con Milan Mumin Waver: Hommage to the last video Artwork nella quale è stata assortita una sequenza di immagini tratta da opere d’arte video estranee per così dire alla storia dell’arte dell’est europeo (da Nam June Paik a Wolf Vostell). Ad ogni fermo immagine Szombathy beve un bicchierino di vodka proprio in omaggio a quella storia. Secondo Marina Grznic «in tal modo Szombathy sembra voler reinventare la storia e il contesto che gli (ci) appartengono»[1].

La consapevolezza di una distanza e un’estraneità si accompagna inesorabilmente alla questione dell’identità e conseguentemente dell’individuazione dei margini entro cui collocare gli stessi processi e lavori artistici.

La questione della definizione del limite è stata costantemente al centro dell’interesse del gruppo IRWIN. In particolare nell’intervento denominato NSK State in Time ciò che fondamentalmente veniva ritenuto obsoleto era il concetto stesso di frontiera e di stato. Allora si procedette creando delle Ambasciate di stato fittizie. La prima ad essere istituita è stata la NSK Embassy Moscow all’indirizzo Leninsky Prospekt 12, appartamento 24 nel maggio – giugno 1992. All’esterno, sulla facciata del palazzo una scritta ne indicava la presenza [2].

In area polacca la figura controversa di Katharzina Korzyra, menzione d’onore per il video Men’s Bathhouse alla Biennale di Venezia del 1999, si impone fin da subito per l’approccio provocatorio di un lavoro in bilico tra voyeurismo e mistificazione della realtà. Nel 1993 Piramida zwierzat (Piramide di animali) segna la sua prima acquisizione di notorietà in un paese come la Polonia fino a quel momento non particolarmente sensibile alle problematiche dell’arte contemporanea più recente. Si trattava di una installazione composta da animali impagliati disposti gli uni sugli altri a formare una piramide. L’ispirazione alla favola dei fratelli Grimm sui musicisti della città di Brema rispetto alla quale nella sequenza al posto dell’asino c’è un cavallo ma che per il resto – cane, gatto, gallina – corrisponde esattamente al testo. Il sublime della morte veniva così composto in una piramide che per la natura della sua composizione e le potenzialità semantiche che nascondeva suscitò grande scalpore sia negli ambienti accademici polacchi che presso le associazioni animaliste che accusarono l’artista di uccidere degli animali per scopi meramente decorativi. L’opera apriva il campo a discussioni sia sul piano della morale che vi era sottesa sia su quali fossero o dovessero essere i limiti stessi della definizione dell’arte. Nelle opere realizzate successivamente Kozyra non ha contraddetto queste premesse; al contrario ha approfondito ulteriormente questa linea di trasgressione e provocazione del senso comune cercando di violare i tabù imposti dal condiviso sentire.

L’attrito che si è generato nella ribalta di alcune esperienze artistiche provenienti dall’Est sul più ampio intreccio dell’arte europea dell’ultima generazione ha a mio avviso frenato certi sviluppi di maniera della stessa, fino a quel momento avulsa dal confronto diretto con l’Est. Ciò si è prodotto senza particolari clamori nell’ultimo decennio del Novecento, proprio quando per altre vie si auspicava e promuoveva l’apertura all’altro. L’orizzonte dell’arte contemporanea diveniva il mondo, un grandangolo che ha finito per trascurare lo sguardo su quanto era più vicino, metabolizzandolo acriticamente. La funzione di deterrente rispetto ad una linea di eccessivo distacco dalla realtà l’ha svolta proprio ed innegabilmente quest’arte. L’Est "fatto proprio", come un ready made pronto all’uso, ha così indebolito il suo stesso potenziale eversivo e critico. Una attenta rilettura di queste problematiche ne riconoscerebbe il peso e l’identità. Aprirebbe il varco ad una riflessione solo parzialmente svolta.

Recentemente è stato realizzato un archivio nel web concepito come mappatura dell’universo dell’arte dell’Est dove non solo i singoli artisti ma tutti, anche i movimenti, hanno trovato il luogo dove prendere posto per una ricognizione innanzi tutto storica. Si tratta del sito www.eastartmap.org nato nel 2004 come progetto del gruppo sloveno IRWIN (Miran Mohar, Andrej Savski, Borut Volglenik) [3]. Proprio il gruppo che ha individuato la questione dell’identità come prioritaria.

Sottotitolo del progetto è la frase: «History is not given». Una lacuna, una rimozione di realtà molteplici e fin troppo prossime e vicine a noi che ragioni, in primo luogo ancora ideologiche, hanno impedito di adeguatamente colmare e superare.

Roma, 4 Novembre 2006


Note

[1] Marina Grznic, «Incontro con i Balcani. La radicalizzazione delle posizioni», in, Arte in Europa - 1990 - 2000, a cura di Gianfranco Maraniello, Milano, Skira editore, 2002, pag.117.

[2] Ambasciate NSK ne sono state create tante: Mosca (1992), Gand (1993), Berlino (1993) e presto nacquero pure i consolati: Firenze (1993), Umag (1994).

[3] Il progetto è nato nell’ambito di Relations promosso dalla German Federal Cultural Foundation con il sostegno di Culture 2000.