È intorno a noi, spesso la creiamo e altrettanto spesso ne siamo influenzati. È l'atmosfera. Ma che cosa è? Appare come qualcosa di non definito, di vago. Ma è proprio a partire dal carattere di vaghezza intorno al concetto di "atmosfera" che Tonino Griffero avvia la sua indagine. Tonino Griffero è professore ordinario di Estetica presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata ed è direttore dal 2005 del master in "Comunicazione estetica e museale". Inoltre, dal 2007 della collana editoriale Oltre lo sguardo. Itinerari di filosofia e dal 2010 della collana Percezioni. Estetica & Fenomenologia. Griffero si è dedicato inizialmente all'ermeneutica giuridica di Betti, poi all'estetica di Schelling, fino a giungere ad una riflessione approfondita sul tema delle "atmosfere". Il concetto di "atmosfera" è stato introdotto prima in Germania grazie alla neofenomenologia di Hermann Schimitz e, in seguito, alle ricerche di Gernot Böhme, fino a diventare oggetto, in Italia, dell'analisi dettagliata e personale che Griffero ha proposto in Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali (Laterza 2010).
La ricerca che lei sviluppa in campo filosofico è molto originale. Grazie allo studio fatto prima da Hermann Schimitz e da Gernot Böhme, lei propone una descrizione, dal punto di vista fenomenologico ed estetologico, delle atmosfere definite come qualità emozionali specifiche di uno «spazio vissuto». Da dove nasce l'esigenza di indagare un campo che è difficile anche definire sul piano teorico?
Nasce dall'esigenza di ripensare l'estetica non (soltanto) come filosofia dell'arte, come vuole un luogo comune impostosi nell'età postkantiana, ma anche, se non anzitutto, come teoria della conoscenza sensibile o della percezione (in senso lato e non solo ottico), ossia come teoria finalmente all'altezza di quell'esteticità diffusa (design, urbanistica, cosmetica) che del nostro tempo, vera e propria economia della messa-in-scena, è una cifra innegabile. Ma nasce anche dalla rivalutazione, non necessariamente funzionale al piano cognitivo, della vita emozionale, finalmente emancipata dalla sua presunta relatività soggettiva. Il nostro incontro col "fuori" (qualunque cosa voglia dire) ci "capita" infatti in termini di prime impressioni emozionali, che, diffuse nello spazio che circonda il nostro corpo, per questa loro peculiare spazialità (pregeometrica, predimensionale) risultano irriducibili al nostro stato d'animo privato. Si tratta di impressioni pregnanti e prelinguistiche, di atmosfere tanto esterne e quasi-oggettive - ecco perché, da un punto di vista ontologico, ne ho altrove parlato come di quasi-cose (cfr. T. Griffero, Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, Bruno Mondadori, Milano 2013) - da afferrare colui che vi si imbatte e tanto discrepanti da resistere a ogni suo tentativo di correzione proiettiva. E qui estetica e fenomenologia - o meglio, "nuova fenomenologia" (cfr. H. Schmitz, Nuova fenomenologia. Un'introduzione, Marinotti, Milano 2011) - felicemente convergono, promuovendo così un'idea di filosofia come riflessione su come ci si trova (ci si sente) qui e ora che finora si è preferito lasciare alla fantasia poetica e alle biografie private, ritenendo erroneamente scientifico solo ciò che si adegua ai parametri delle scienze naturali.
Secondo lei, l'esperienza vissuta è un'esperienza vaga nella quale bisogna imparare a «stare nella maniera giusta». Come si può imparare a stare, quindi a vivere, entro l'atmosfera se essa è, come la definisce Schimitz, quella «occupazione sconfinata di uno spazio privo di superfici»? Considerando che noi possiamo essere condizionati da un'atmosfera che, essendo uno spazio emozionale, ci suggerisce una determinata percezione e quest'ultima, in quanto tale, è una conoscenza vera del "hic et nunc". Dunque, nell'atmosfera, possiamo conoscere il vero?
Ovviamente la verità a cui qui si fa riferimento non ha nulla di epistemologico o di "esperto". Le atmosfere sono vere per me nel senso che indubbiamente le proviamo quando ci assalgono e che solo entro certi limiti qualche conoscenza integrativa può modificare l'impressione che esse esercitano su di noi. Sono stati d'animo spazialmente diffusi e solo relativamente penetrabili dal punto di vista cognitivo: così come percepiamo il movimento del Sole pur sapendo che è invece la Terra a ruotare, così pure un tramonto resta, come prima impressione s'intende, malinconico anche quando sappiamo che quella sua qualità specifica dipende magari solo dall'inquinamento! In questo senso, la mia percezione atmosferica può sì modificarsi nel tempo (le atmosfere possono dunque avere una "storia"...), ma, appunto solo e sempre in un secondo tempo, e comunque sempre solo sulla scorta della prima impressione, di per sé del tutto precognitiva. Ciò presuppone, ovviamente, la valorizzazione di un sapere "ingenuo" per il quale vero è anzitutto quello che proviamo e che come esperienza diretta entra quindi a costituire la nostra identità e non, piuttosto, ciò che si rivela adeguato solo a un'esperienza manipolata e soprattutto statisticamente-prognosticamente garantita come quella fisicalistica e di laboratorio cui ci ha abituato il riduzionismo naturalistico.
Sviluppando alcune tesi sull'arte che risalgono a pensatori come Hegel e Benjamin, c'è chi, come il teorico francese Yves Michaud, giunge a considerare l'intero scenario dell'arte contemporanea come una situazione in cui gli oggetti si "vaporizzano" (L'arte allo stato gassoso, 2003), nel senso che tutta l'attenzione estetica si sposterebbe oggi dalle concrete "proprietà" delle opere agli aspetti, appunto, "atmosferici". Quindi, se questa diagnosi teorica è condivisibile, la sua approfondita riflessione sul tema delle atmosfere potrebbe costituire anche un importante strumento per la comprensione dei fenomeni dell'arte contemporanea. Lei come interpreta oggi tali fenomeni alla luce della sua riflessione ontologica?
Non vi è dubbio che, se appare sempre un po' sottodimensionata rispetto al vasto e stratificato valore culturale dell'arte tradizionale, la riflessione atmosferologica sembra invece particolarmente adatta all'arte contemporanea. Adeguata a istallazioni e spettacoli spesso provocatori e che esigono anzitutto il nostro coinvolgimento corporeo e affettivo, a "opere", inoltre, che sono arte quasi esclusivamente se siamo in grado di contestualizzarle entro la giusta atmosfera (museo, critica, sala da concerto, ecc.). Che puntino all'immateriale e al virtuale (col caso limite dell'arte concettuale) o al materico e sostanziale (col caso estremo della land art), le opere contemporanee si comprendono infatti sempre meno su base retinica e storico-culturale, affidandosi piuttosto al coinvolgimento psicofisico, talvolta perfino elementare, del fruitore. Contando, in altri termini, appunto su impressioni emozionali che, invitandoci a sentire in questo o quel mondo, fungono da atmosfere spaziali. Ma in ciò l'opera d'arte non è che l'estensione, intensificata e qualitativamente differenziata, degli inviti (affordances) che ci vengono da tutte le cose, nel senso che come un recipiente d'acqua invita chi ha sete a bere, così un'istallazione (ma anche un paesaggio) invita chi la contempla - o meglio, la percorre, la tocca, ne sente intermodalmente l'influenza - a entrare in questo o quello stato d'animo, cioè nell'atmosfera che essa irradia nel proprio spazio circostante e la cui efficacia dipende appunto dal grado di coinvolgimento che esercita sul corpo vivente (non solo fisico) del fruitore.
Lei scrive che l'atmosfera è un «sentimento relativamente oggettivo (e intersoggettivo) incontrato nello spazio esterno» che impegna diverse professioni, come la scenografia, l'arredamento d'interno, l'allestimento musicale, ecc. Ora, quanto noi veniamo influenzati dall'atmosfera e quando, alle volte, siamo noi stessi generatori di spazi emozionali?
L'atmosfera per me prototipica, quella dunque da cui sono partito nel mio lavoro complessivo (cfr. T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Laterza 2010), è senza dubbio quella che, inattesa e in conflitto col nostro stato d'animo pregresso, ci cattura dall'esterno e con la sua autorevolezza ci impone di sentire le cose nel "suo" modo. Ma esistono anche atmosfere che rileviamo con sicurezza, pur senza però provarle (per le più diverse ragioni), e perfino atmosfere che siamo in grado di modificare con la nostra presenza. E naturalmente - ciò che Gernot Böhme (Atmosfere, estasi, messe in scena. L'estetica come teoria generale della percezione, Marinotti 2010) chiama il "lavoro estetico" - atmosfere che siamo noi stessi a generare, ora inconsapevolmente (si pensi all'atmosfera di vergogna che irradiamo sugli astanti compiendo qualcosa di illecito), ora consapevolmente (si pensi a quando esercitiamo la nostra forza persuasiva su chi di noi si fida, alla pedagogia, al discorso elettorale, ecc.) e addirittura professionalmente: è appunto questo il caso di tutte le attività volte a generare un'apparenza (nel senso neutro del termine) capace di esercitare un'influenza sociale, che sia l'arredamento del nostro salotto o la luminotecnica adottata in una discoteca che voglia essere all'avanguardia. Quindi subiamo le atmosfere, emblematicamente quelle climatiche (tutti sappiamo che cosa significa una "frizzante aria primaverile" o una "nebbiosa sera autunnale"), ma in società siamo pure sempre più spesso chiamati a produrle. Proprio indagando come esse ci si presentano e con quali meccanismi le si possa efficacemente generare diventiamo forse anche capaci di sfuggire a quelle con cui più spesso di quanto non si creda - e più spesso di quanto non accada con strumenti solo razionali - la società cerca di manipolare i nostri stati emotivi e quindi anche le nostre azioni.
Roma, Febbraio 2013