La Critica

«Una ‘cultura altra’ non è un ready-made»

Intervista a Emilio Garroni

di Enrico Cocuccioni e Riccardo Santilli

 

Emilio Garroni è Professore di Estetica dal 1964 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università «La Sapienza» di Roma. Tra i suoi libri ricordiamo: La crisi semantica delle arti, Officina, Roma, 1964; Semiotica ed estetica, Laterza, Bari, 1968; Progetto di semiotica, Laterza, Roma-Bari, 1973; Pinocchio uno e bino, Laterza, Roma-Bari, 1975; Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla "Critica del Giudizio", Bulzoni, Roma, 1976; Ricognizione della semiotica, Officina Edizioni, Roma, 1977; Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari, 1986; Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano, 1992; Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari, l994. Ha curato con Hansmichael Hohenegger una nuova edizione italiana della Critica della facoltà di giudizio di Immanuel Kant, Einaudi, Torino 1999. È inoltre autore delle voci Creatività, Spazialità, I paradossi dell'esperienza dell'Enciclopedia Einaudi, Torino, l978 e sgg., di parecchi saggi e articoli di semiotica e di estetica, nonché di alcuni libri di narrativa.

 

Partiamo dalle distinte posizioni di Sklovskij e di Jakobson circa il concetto di "straniamento" in relazione ai procedimenti dell’arte e del linguaggio poetico. La prima citazione è d’obbligo, anche se è tratta da un testo del ’17 ormai molto noto forse proprio grazie a quella sua tipica suggestione da ‘manifesto poetico’ pressoché estranea al rigore del saggio teorico:

«Ed ecco che per restituire il senso della vita, per "sentire" gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell'arte è di trasmettere l'impressione dell'oggetto, come "visione" e non come "riconoscimento"; procedimento dell'arte è il procedimento dello "straniamento" degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell'arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato; l'arte è una maniera di "sentire" il divenire dell'oggetto, mentre il "già compiuto" non ha importanza nell’arte». (Viktor Sklovskij, brano tratto da «L’arte come procedimento», un testo del 1917 ora raccolto anche nel libro, a cura di Tzvetan Todorov, I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Einaudi, Torino 1968, p.82)

La posizione di Jakobson, qui estrapolata dal suo testo introduttivo, pubblicato nel ’65, al già citato libro di Todorov, risulta molto ‘critica’ nei confronti della formula sklovskiana:

«E si sarebbe in torto se si identificasse la scoperta, cioè l’essenza del pensiero "formalista", con le insulsaggini intorno al segreto professionale dell’arte, che consisterebbe nel mostrare le cose estraniandole dal loro automatismo e rendendole sorprendenti (ostranenie), mentre in effetti si tratta di un mutamento sostanziale del rapporto tra significante e significato, tra segno e concetto, che avviene all’interno del linguaggio poetico» (Roman Jakobson, «Verso una scienza dell’arte poetica», 1965)

ENRICO COCUCCIONI: Professor Garroni, vorrei anzitutto rivolgerle una domanda sul tema del significato e del ruolo della nozione di ‘straniamento’ nelle poetiche delle avanguardie artistiche. Nozione chiave alla quale si richiamano le mie due precedenti citazioni tratte dalla famosa raccolta di testi dei «formalisti russi» curata da Todorov. C’è un capitolo del suo libro Senso e paradosso che s’intitola così: «I parlanti non sono macchine, né i poeti creatori: automatizzazione e deautomatizzazione». Il riferimento è innanzi tutto a Kant, il quale, affermando che i comuni parlanti non sono macchine, pone evidentemente in gioco una condizione generale, tale da rendere in linea di principio improponibile, ad esempio, la formula sklovskiana di un’arte intesa come tipico procedimento "straniante" che consentirebbe di passare dal riconoscimento del già-noto ad una sorta di "Visione" inedita del "qualcosa" in oggetto.

Prendere sul serio questo slogan avanguardistico sarebbe un po’ come accogliere la pretesa di aver trovato la formula magica che spieghi in concreto la differenza tra un cosiddetto uso "artistico" del linguaggio rispetto ad un uso più comune e "ordinario" del medesimo, supposto riducibile esclusivamente all’ottusità del mero automatismo, alla banalità di quegli stereotipi di cui talora abusiamo nella conversazione quotidiana. Se davvero soltanto l’arte garantisse questa possibilità di estraniarsi dall’ovvio, di prendere le distanze dalle nostre abitudini percettive, dovremmo per ciò stesso assegnare ai poeti, o agli artisti in genere, una sorta di monopolio dello stupore. Persino di quello stupore, per così dire filosofico, entro la cui tonalità emotiva, secondo una nota analisi heideggeriana del thaumàzein greco, «il più abituale diviene il più inconsueto».

In realtà, come Lei argomenta a fondo nel suo testo, siamo tutti perlopiù immersi nel paradosso fondante di un’esperienza in atto che presume sempre una qualche nostra immedesimazione in qualcosa di determinato e, insieme, un qualche straniamento rispetto al già-noto, in vista di una comprensione della stessa situazione in cui siamo e dalla quale, d’altronde, non potremmo comunque uscire del tutto per osservarla da un improbabile non-luogo esterno. Ma, se questo è vero per l’esperienza in genere, allora persino lo sforzo di comprensione del filosofo, analogamente all’impegno creativo dell’artista, sarebbe solo un modo come un altro – esemplare, forse, ma in ogni caso non esclusivo o specifico – di "abitare" all’interno di questo comune spazio paradossale…

EMILIO GARRONI: Il passo di Jakobson che lei ha ricordato intende opporsi ad accezioni e interpretazioni riduttive della nozione di "straniamento", tale da avvicinarla un po’ troppo allo slogan seicentesco «del poeta il fin è la meraviglia». Le cose non stanno proprio così, ovviamente. Lo stesso pensiero di Jakobson si è formato dapprima nell’ambiente dei formalisti. Ma è innegabile che tra Jakobson e Sklovskij ci sono differenze non insignificanti. Sklovskij, per così dire, era uno scrittore di battaglia, amante delle spericolatezze, la cui teoria era condizionata da una forte inclinazione, appunto, all’ideologia dell’avanguardia. Infatti, se per un verso non possiamo dimenticare che la nozione di straniamento fu introdotta dai Formalisti russi e ripresa poi dagli strutturalisti praghesi, sostanzialmente, sebbene con altra terminologia, tra gli anni’10-’20-’30 anche e proprio per definire una nozione di ‘stile’ più adeguata alla letteratura in generale, precedenti importanti per lo stesso Jakobson, per altro verso è però vero che essa si costituì sull'occasione determinante della letteratura e dell'arte moderna. È una nozione di stile che affida la propria definizione all’innovazione rispetto al già detto, a ciò che è consueto. E questo è già abbastanza parziale, perché a guardare il panorama espressivo, artistico, linguistico in generale – da quando esiste una cultura umana – non sempre le cose vanno così.

Non sempre, voglio dire, il momento innovativo è così forte. C’è sempre, sì, in qualche modo, anche nell’antichità, la coscienza che la pura e semplice ripetizione non conta nulla, che una qualche piccola innovazione è necessaria. Perfino – mi diceva un mio amico antropologo, Giancarlo Scoditti, che ha studiato a fondo l’arte di Kitawa – perfino nell’arte di Kitawa, che è a livelli ‘primitivi’ (‘primitivi’ non è un giudizio di valore, è una nozione tecnica che dobbiamo usare in qualche modo per caratterizzare queste culture), è presente questa esigenza di una innovazione, sia pure entro limiti molto stretti, mentre lo schema di base dell’oggetto che va realizzato è molto forte. E tuttavia questa qualche libertà dell’artista viene affermata, sia pure in forma debole. Quindi si tratta di un’esigenza molto diffusa. Ma c’è modo e modo di affermarla. Nel nostro tempo, l’idea dell’innovazione, della sperimentazione, si afferma invece in forma forte anche in funzione di un’opposizione radicale all’arte tradizionale e viene in primissimo piano.

Ora, per comprendere l’aspetto meno unilaterale del significato di ‘straniamento’ per i formalisti russi, o di ‘attualizzazione’ per i praghesi, bisogna riprendere proprio le parole di Jakobson, quando dice che nel caso della funzione poetica «il messaggio si fa cosa»: non passa inosservato – dicono i formalisti russi – come invece nel linguaggio comunicativo. In altri termini, non bisogna pensare che l’automatizzazione del linguaggio sia senz’altro e solo una banalizzazione del linguaggio. Il linguaggio scientifico è un linguaggio certamente non fortemente attualizzante o straniante. E tuttavia attraverso il linguaggio scientifico raggiungiamo conoscenze nuove, capaci di trasformare radicalmente la nostra cultura. Allora, il ‘passare inosservato’ va inteso soprattutto nel senso che ciò che conta è il significato; mentre invece nel linguaggio poetico conta, sì, il significato ma in quanto incorporato nei mezzi linguistici. C’è appunto una sorta di "reificazione" del linguaggio, come dice Jakobson. E ciò conferisce al messaggio poetico una vivezza, una icasticità, una ‘presenza’, oltre che un sovrappiù di senso, la cosiddetta polisemia o ambiguità jakobsoniana, che è tuttavia presente in ogni uso linguistico, anche se non in modo dominante. Perfino il linguaggio comune non è necessariamente ‘banale’. E’ banale, quando lo è, anche e proprio per i significati banali che veicola. E tuttavia lo scienziato non deve far ricorso… anzi, in generale, non fa ricorso, a procedimenti stranianti o a usi originali della lingua.

Come possiamo comprendere, adesso, in un’altra dimensione, questo problema? Lei ricordava ciò che ho scritto in Senso e paradosso, sul "paradosso fondante" della filosofia, proprio della filosofia in senso stretto. E tuttavia, essendo proprio della filosofia, non è estraneo neppure al discorso comune. Perché è proprio della filosofia, cioè dominante e caratterizzante nella filosofia? Perché la filosofia è un discorso non su oggetti determinati, ma su un oggetto in generale, che è cosa molto strana: non parliamo più delle cose – di queste cose – ma delle cose in genere che possono essere date nell’esperienza, quindi, in qualche modo, della totalità dell’esperienza. C’è dunque un elemento di indeterminatezza che non permette al linguaggio della filosofia di spacciarsi, ad esempio, per conoscenza. La filosofia non è conoscenza: è comprensione, forse, della possibilità di una conoscenza, ma certamente non è conoscenza. E allora si trova a dover dire qualcosa sul ‘qualcosa in generale’ e nello stesso tempo questo qualcosa in generale le sfugge continuamente di mano. Sta parlando infatti di una totalità in cui è inclusa la filosofia stessa, e ciò non può non indurla in difficoltà e, appunto, in paradossi. E tuttavia il paradosso, pur essendo proprio della filosofia nel senso che nella filosofia si mostra, viene avanti in primo piano, non può non essere proprio di tutti gli uomini e i parlanti, nel senso che ogni parola che pronunciamo fa riferimento anche ad una totalità di cui non possiamo dire nulla: in tanto qualcosa di determinato si mostra, in quanto si distingue precisamente da un ‘resto’ che integra il qualcosa in una totalità. Ma allora tale resto non può non far parte del linguaggio stesso.

Io credo che si possa esprimere la cosa dicendo che il linguaggio – mi riferisco qui ad un saggio breve ma assai stringente di Tullio De Mauro, Minisemantica, che ho studiato a mia volta in uno scritto che è stato pubblicato in un libro in suo onore, dove ho cercato di interpretare in riferimento anche a Kant la tesi demauriana della indeterminatezza semantica – che il linguaggio, dicevo, in tanto può essere pensato come tale, in quanto non è soltanto linguaggio su cose determinate. Il linguaggio non si riferisce univocamente e biunivocamente, nella sua costituzione di fondo, agli oggetti determinati dell’esperienza, che possono essere eletti a oggetti del parlare solo a meno di restrizioni e convenzioni, ma include in sé un’essenziale componente di indeterminata riferibilità, un’indeterminatezza di fondo appunto o un’indeterminata totalità, per cui il linguaggio muta, cambia ed è in grado sempre di dire cose diverse o addirittura nuove.

Ora, ciò che chiamiamo ‘straniamento’ è precisamente un cambiamento reso possibile da quella componente d’indeterminatezza che è sempre presente nel nostro linguaggio. Il linguaggio non è mai talmente univoco e talmente ultimativo, tale da non poter aggiungere o cambiare nulla al già detto. E, se ciò riguarda lo stesso linguaggio comune, non può non riguardare in forma tecnicamente elaborata e in questo senso specifica anche l’esperienza poetica o artistica in genere. Anche nell’esperienza artistica, naturalmente, si deve avere di mira l’oggetto determinato da formare, in relazione a un contesto determinato e a una determinata significazione, ma sempre anche in relazione al formabile, al contestualizzabile e al significabile in generale. E quindi la pura e semplice ripetizione del già detto o fatto sarebbe una sorta di contraddizione. E’ possibile, sì, una quasi-ripetizione, una ‘replica’, ma anche le repliche, sappiamo, presentano modificazioni rispetto al modello di cui sono replica.

Certo, negli imitatori tali modificazioni possono essere dovute semplicemente allo scarto casuale e inevitabile che il replicare, in quanto anch’esso modo di formare, di parlare e di esprimersi, comporta. Invece l’artista che usa i suoi mezzi espressivi con acume e consapevolezza deve tener conto dell’inevitabilità della modificazione, guidarla e controllarla. E un qualche straniamento, in questo senso un po’ diverso da quello dei formalisti russi, tale però da recuperare anche le loro buone ragioni, non può non essere messo in opera.

ENRICO COCUCCIONI: Vorrei ora chiederle qualcosa su un argomento che non riguarda direttamente le procedure espressive, ma che si ricollega pur sempre al tema dello "straniero" in quanto soggetto che appartiene ad una cultura diversa dalla nostra. Una questione che potrebbe risultare di un certo interesse anche in riferimento a certe ‘poetiche’ contemporanee che sembrano affermarsi in una dimensione multiculturale. Intendo riferirmi, più precisamente, alla sua analisi dell’aporia tipica del pensiero antropologico (che troviamo affrontata in Senso e paradosso, ma un accenno a questo tema si trova anche nel libro Estetica. Uno sguardo-attraverso) dove mette in questione i luoghi comuni relativi all’intenzione dichiarata di voler superare ogni etnocentrismo nell’affrontare il dialogo multiculturale, posto che ciò sia augurabile oltre che praticabile. A quali condizioni è possibile per noi una effettiva comprensione delle cosiddette "culture altre"?

Sappiamo inoltre che da molti anni, soprattutto nell’area del pensiero francese (penso ad esempio a Lévinas, Derrida, Ricoeur ecc.), il tema dell’alterità, o dell’altro che abita il «proprio», o del «sè come un altro», sembra essere un motivo ricorrente per diversi autori. Una ulteriore riflessione sul "paradosso fondante", da Lei evidenziato e preso in esame, può dunque aiutarci a comprendere questa tematica eterologica, nei suoi molteplici risvolti etico-politici oltre che antropologici in senso stretto.

EMILIO GARRONI: Sì, certamente il tema dell’altro è un tema centrale per Lévinas in particolare, anche se in lui è affrontato da un punto di vista strettamente filosofico, senza mettere in questione il fatto che l’altro appartenga a una cultura altra. Voglio dire che l’altro si rivela nell’ambito di un pensiero individuale che è pur sempre un pensiero che appartiene a una data cultura. I problemi antropologici nascono non nel riconoscimento o non-riconoscimento dell’altro – in realtà un riconoscimento è inevitabile in tutte le singole culture, assolutamente in tutte – ma quando l’altro appartiene a una cultura altra. Il problema non è dunque solo il riconoscimento dell’altro in quanto tale, ma dell’altro in quanto appartiene a una cultura altra.

Si tratta di una questione che si è posta, precisamente, in tempi relativamente recenti, quando il pensiero antropologico si è reso conto che l’antropologia ha sempre sofferto di un vizio etnocentrico. La stessa espressione "primitivo" che abbiamo usato prima in senso non limitativo, in fondo nasce da lì, cioè da una cultura antropologica etnocentrica, per cui noi saremmo gli ‘evoluti’ e gli altri, i popoli diversi, sarebbero ‘primitivi’. Ottimo. Ma quale è stata la risposta? È stata di solito banalissima: all’etnocentrismo si è sostituito un policulturalismo, ma nella forma del relativismo. Ma un relativismo antropologico è altrettanto etnocentrico, nel senso che, mettendo sullo stesso piano tutte le culture ("una cultura vale l’altra"), attua una svalutazione di tutte le culture, presa ciascuna per sé.

Ogni cultura altra viene con ciò declassata a semplice variante della cultura in genere e non credo che un appartenente a una cultura altra accetterebbe questa etichetta relativistica senza sentirsi sottovalutato in favore di un relativismo altrettanto etnocentrico, cioè il nostro relativismo. Una genuina opposizione non si stabilisce tra ‘etnocentrismo’ e ‘policentrismo relativistico’, ma piuttosto tra "etnocentrismo dogmatico" ed "etnocentrismo critico", per riprendere qui una felice espressione di De Martino. De Martino si rendeva conto che, pur avendo superato il vecchio etnocentrismo ‘coloniale’, non possiamo non essere in qualche modo etnocentrici, nel senso di radicati in una cultura, anche e proprio in quanto antropologi. L’antropologo infatti non è uno studioso senza cultura: appartiene a una cultura e si avvicina a culture altre. E allora deve comprenderle, non guardandole con sufficienza sulla base del principo "la mia cultura è superiore a ogni altra", o concedendo loro una patente di apparente parità sulla base del principio "una cultura, compresa la mia, vale l’altra", ma comprendendole davvero ed eventualmente anche discutendole.

Naturalmente discuterne con ‘civiltà’, senza arroganza e chiusure. Ma discuterne, sì. Ora, proprio il policulturalismo effettivo e vissuto non prevede forse, se non è un semplice pasticcio, un qualche etnocentrismo critico? Io credo di sì. Perché, quando si mischiano elementi di culture diverse, si costituisce un’altra cultura non meccanicamente, per aggiunte, sottrazioni e sovrapposizioni, ma attraverso un dialogo e una discussione. Non si accetta tutto, qualunque cosa sia, come se fosse un reperto, o un ready made, ma piuttosto si assorbono elementi di altre culture. Forse per formare una cultura universale? Chi lo sa? La prospettiva è forse un po’ troppo ottimistica. Ma non è impossibile che un giorno una cosa del genere, magari a un livello assai più basso di quello idealmente sperabile, si realizzi.

RICCARDO SANTILLI: Si dovrebbe forse fare un passo indietro e rimettere in questione la possibilità stessa di un dialogo tra due linguaggi differenti…

EMILIO GARRONI: Il dialogo è sempre possibile. Tuttavia il dialogo è difficile in certi casi, quando semplicemente non lo si vuole. Abbiamo esempi sott’occhio tutti i giorni: ci sono culture, specialmente quelle fondamentaliste, che non accettano minimamente il dialogo. Bene, bisogna provarci lo stesso. Voglio dire, se le parole di un linguaggio non sono comprensibili da un altro che non conosca questo linguaggio, bisognerà in qualche modo cominciare a parlare un linguaggio comune…

RICCARDO SANTILLI: «Di ciò di cui non si può parlare…»

EMILIO GARRONI: «Bisogna tacere»?

RICCARDO SANTILLI: No, in qualche modo, bisogna parlarne…

EMILIO GARRONI: Ecco, bisogna parlarne.

RICCARDO SANTILLI: Mi viene in mente che lo stesso Kant, nel secondo momento della Critica, proprio quando cerca di legittimare il giudizio di gusto, parte dalla comunicabilità stessa…

EMILIO GARRONI: Certo, questo è il principio di fondo. Io sono un‘illuminista’ nel senso di Kant e quindi credo che la comprensione, la conoscenza, la cultura stessa, siano essenzialmente intersoggettive e perciò almeno potenzialmente aperte anche alle ‘culture altre’, e quindi al dialogo, alla discussione e così via. Naturalmente ci sono spesso ostacoli materiali, ma tali ostacoli possono pur sempre essere storicamente, via via e almeno in parte, superati.

RICCARDO SANTILLI: L’innovatività, lo sperimentalismo, il multiculturalismo artistico, sono tra gli aspetti più eclatanti dell’arte del 900, tuttavia, sussumere la molteplicità di queste esperienze, nella classe delle opere d’arte risulta essere un’operazione difficile e rischiosa. Questa operazione presuppone un circolo estetico "arte–estetica" perfettamente funzionante. Ma abbiamo ancora a che fare con un circolo estetico perfettamente funzionante?

D’altra parte, il circolo estetico non è pensabile a partire da "fatti culturali" sparsi tra altri "fatti culturali" raggruppabili in base ad una o più qualità comuni, ma come un intreccio (in senso wittgensteiniano) di somiglianze e differenze, in cui la lunghezza e la resistenza dell’"intreccio" stesso, non è data da un filo rosso che lo percorre nella sua interezza, ma dal sovrapporsi di "fibra con fibra". Tuttavia, questa prospettiva non è affatto rassicurante. Il «sovrapporsi di fibra con fibra» non dà alcuna garanzia da possibili derive o smarrimenti, resta allora il problema, almeno credo, di delimitare in qualche modo la nostra area di ricerca, se un’area di ricerca è data, anche perché, come osservava Wittgenstein citando Frege: «un’area che non si può delimitare non è neppure un’area».

EMILIO GARRONI: La risposta è semplicissima: non possiamo delimitarla. L’intreccio è precisamente qualcosa che prevede l’incontro tra certi materiali storici e un certo tipo di riflessione, per esempio la riflessione estetica. L’estetica, finché questo circolo funziona, e ha funzionato per due o tre secoli, ha una sua fisionomia, sa più o meno di che cosa si occupa. Non ha un oggetto definibile neanche in questo caso: è pur sempre un intreccio di somiglianze e differenze, una famiglia e non mai una classe di oggetti. Quello che sta succedendo adesso, però, non sappiamo a che cosa porterà. Può portare anche alla scomparsa del circolo stesso.

Può portare cioè a un aumento tale di differenze per cui può non avere più significato stabilire una connessione con la tradizione artistica e con la riflessione estetica pregressa. In questo caso, se la riflessione estetica resta, può restare non in funzione o sull’occasione esemplare dell’arte: l’arte è stata uno spunto per la riflessione estetica (mi riferisco alla riflessione estetica più seria, quella kantiana in particolare, almeno come io mi sforzo d’interpretarla), nel senso che essa istituisce un principio che è innanzi tutto un principio conoscitivo. Un principio che rende possibile la conoscenza. La costruzione di una conoscenza.

Un principio estetico è, in questo senso, un principio trascendentale, quindi non soggetto alle mutazioni storiche, e pur sempre, sia chiaro, nella misura in cui noi comprendiamo in un circolo storico. Insomma, ogni sforzo di comprensione si dà per ciò che è: uno sforzo di comprensione a partire da una contingenza. Dovremo trasformarlo, se sarà necessario. Ma non sto facendo una professione di storicismo, non voglio dire affatto che ogni tempo ha la sua comprensione, legata alla contingenza del momento. Noi comprendiamo via via ciò che comprendiamo nell’ambito di una contingenza, andando in ogni caso al di là di essa. E ricomprendiamo la nostra comprensione, trasformandola, non semplicemente perché la contingenza è cambiata, ma perché la nuova contingenza ci suggerisce la che la nostra comprensione era inadeguata. Infatti non c’è alcuna garanzia che il nostro comprendere sia quello giusto e definitivo.

RICCARDO SANTILLI: Mi chiedo a questo punto come sia possibile una comprensione? La comprensione può darsi forse all’interno di quella circolarità introdotta da Kant nello schematismo, penso allo schematismo trascendentale e allo schematismo empirico? Lo schema intermedio tra il concetto e il caso concreto, può essere dato a partire da un "sentire", da un’esperienza estetica che riesca ad accordare, senza una regola, ma attraverso una giusta proporzione, le facoltà conoscitive, l’immaginazione e l’intelletto?

EMILIO GARRONI: Per quanto riguarda lo schematismo trascendentale, credo che si tratti non propriamente di un circolo, ma piuttosto di un’interdipendenza rispetto alle categorie. Lo schematismo trascendentale è il tentativo da parte di Kant di stabilire le presupposizioni trascendentali, in termini di schemi puri, paralleli ai concetti puri, perché una conoscenza sia possibile. Per esempio, a livello di concetti puri, noi, della ‘causa’, non abbiamo alcuna esperienza diretta, non la percepiamo, e tuttavia, quando siamo di fronte a fenomeni, cerchiamo di collegarli tra di loro secondo un rapporto necessario, cioè causalmente. Che significa questo? Che la causa non ci è data attraverso l’esperienza sensibile, ma è appunto una presupposizione necessaria che noi facciamo e non possiamo non fare.

Qualcosa di analogo accade nel caso dello schema puro della causalità, che non potrebbe riferirsi ai fenomeni intuiti senza la mediazione di uno schema. Il ‘circolo’ emerge nettamente, invece, e in forma assai complessa, nel caso dello schematismo empirico: dipende dal concetto, che è la sua regola intellettuale, ed è tuttavia un prodotto dell’immaginazione. Se nel primo caso schema e concetto si richiedono a vicenda in una presupposizione trascendentale, nel secondo caso essi debbono essere formati circolarmente in un’esperienza. Ebbene, nella prima Critica la questione è appena sfiorata. Nella terza Critica, invece, essa viene affrontata attraverso la nozione di ‘libero schematismo’, vale a dire del rapporto di tutta l’immaginazione e dell’intera facoltà intellettuale, che comporta, per così dire, una presa di coscienza anche immaginativa, percettiva del mondo, in linea di principio sfrangiata da tutte le parti, entro cui possiamo costruire distinzioni concettuali e, insieme, schemi empirici di concetti empirici.

RICCARDO SANTILLI: È questa dunque l’unica bussola, l’unico criterio di orientamento all’interno di quell’area indeterminata di cui si diceva prima?

EMILIO GARRONI: Penso di sì.

RICCARDO SANTILLI: Prima Lei diceva una cosa che trovo molto interessante, ossia che l’estetica ha avuto per oggetto l’arte o comunque per secoli ha funzionato partendo proprio dall’arte…

EMILIO GARRONI: Io preferisco dire ‘referente’ più che ‘oggetto’

RICCARDO SANTILLI: …d’accordo, quindi questa affermazione lascia anche pensare che l’estetica possa svilupparsi avendo non più come referente privilegiato l’arte ma, ad esempio, il ‘sentire’?

EMILIO GARRONI: Senza dubbio, se accadesse una cosa del genere, e non è escluso che accada, dovremmo rinunciare a quel referente esemplare e parlare di estetica nel senso di una teoria della percezione, di una teoria della costruzione dell’esperienza, della conoscenza empirica, e così via, in base a un principio che non è intellettuale ed è invece estetico. E’ certo infatti che c’è qualche cosa di non intellettuale, un sentire, nella costruzione intellettuale dell’esperienza.

RICCARDO SANTILLI: Le ho fatto questa domanda perché sto leggendo un autore che cronologicamente viene prima di Kant (1782) Friedrich Christoph Oetinger (1702 – 1782), in particolare un suo saggio dal titolo Pensieri sul sentire e sul conoscere (1775). Fatte le debite distinzioni da Kant, è però interessante osservare che già qui, in questo piccolo libro, in una forma talvolta misticheggiante, l’estetica è pensata come una dottrina, o riflessione sul conoscere e sul sentire, soprattutto sul sentimento come condizione prima del conoscere. Mi chiedo allora se l’estetica non abbia fatto un lungo giro per ritornare forse, oggi, a Kant e a questa corrente tedesca che rifletteva sul sentimento.

EMILIO GARRONI: Forse sì. Ma è Leibniz all’origine della posizione da lei ricordata: l’idea che la conoscenza oscura e la conoscenza confusa siano fenomenologicamente primarie rispetto alla conoscenza distinta. Forse Leibniz non pensava a una fenomenologia in senso stretto, ma qualcosa del genere però sì. Anche lì, la conoscenza oscura e la conoscenza confusa che cosa sono se non l’anticipazione dell’‘immaginazione libera’ di Kant, in cui possiamo poi introdurre distinzioni? Vede, quindi, che la parte filosoficamente più interessante dell’estetica è proprio questa. Non è la filosofia dell’arte. Anzi, non esiste neppure, non può esistere una filosofia dell’arte, ma al massimo una teoria o quasi-teoria dell’arte. Esiste invece un’estetica, in quanto filosofia non-speciale, che, partendo dall’arte (appunto, non oggetto ma referente di questa riflessione), riesce a esplicitare un principio non intellettuale, ma estetico, di cui l’intelletto non può fare a meno se vuole costruire una conoscenza.

ENRICO COCUCCIONI: Provando a mettersi nei panni di chi ancora oggi voglia riferire il proprio interesse conoscitivo privilegiato all’ambito artistico, c’è da chiedersi se esista effettivamente un destino comune tra un pensiero critico e un’arte intesa in senso ‘moderno’ (ovvero che già nel suo modo di proporsi solleciti una continua ‘messa in questione’ del proprio statuto teorico, ad esempio affermadosi e negandosi come ‘arte’ nello stesso tempo). E se, dunque, rinunciando ad un pensiero critico, gli ambiti operativi che si presentano ancora come ‘artistici’ in senso stretto, possano alla lunga risultare sostenibili, anche rispetto ad una ‘generalizzazione dell’esteticità’ che sembra in atto ormai da tempo. Forse potrebbe esserci anche un tentativo… Se, ad esempio, proviamo ad interpretare come un ‘sintomo’ questa stessa rivista che stiamo facendo, «lacritica.net»: è il sintomo, evidentemente, di questo bisogno di ricollegarsi alle fonti della moderna filosofia critica intesa, appunto, nella sua matrice kantiana.

La mia domanda trae ulteriore spunto dalla nuova traduzione della Critica della facoltà di giudizio di Kant, da Lei curata per Einaudi insieme a Hansmichael Hohenegger (Torino,1999). Si tratta ora della quarta oltre che della più recente versione italiana. Lei ha dunque dedicato molti anni ad uno studio particolarmente approfondito di questo capolavoro del pensiero critico kantiano. Sappiamo che la terza Critica è un’opera non facile e spesso fraintesa. Lei ne ha messo in luce le numerose implicazioni che vanno dall’epistemologia all’etica. Qual è, insomma, tentando di riassumere per noi il discorso in poche battute, l’aspetto ancora attuale di questo pensiero?

EMILIO GARRONI: Il pensiero dei classici può sempre essere attuale e degno di essere ripreso e compreso. L’oggi non esclude tassativamente lo ieri, o almeno non lo esclude necessariamente e sempre. Solo uno storicismo banale può pensarlo. In realtà non esiste neanche uno storicismo un po’ meno banale, cioè uno storicismo che pensi la storia come una sorta di disegno rigoroso delle vicende progressive, non soltanto politiche, culturali, ma più specificamente intellettuali e umane, che noi dovremmo ripercorrere pensando che le tappe passate siano ormai irrevocabilmente passate e inglobate nel presente. Niente è una tappa e tutto può essere un punto di partenza o d’arrivo, pur senza essere mai un punto di partenza assoluto o un punto d’arrivo definitivo. In questo senso i cosiddetti ‘classici’ possono essere attuali, non perché siano i presupposti del presente o precorrano il presente, ma perché hanno compreso cose che dobbiamo comprendere e ricomprendere noi stessi nel presente. Là dove troviamo spunti di riflessione che sono ancora validi oggi siamo tenuti a riprenderli e svilupparli. Per me uno di questi classici è Kant.

Non posso dire in particolare perché proprio Kant. Il discorso sarebbe troppo lungo. Ma ho tentato di farlo in molti miei saggi. Ripeto: la coscienza dell’essere legati alla contingenza non significa in alcun modo professione di storicismo, se non in senso molto specifico, che non è più storicistico, ma è piuttosto storico. Voglio dire che la coscienza della contingenza non significa che noi stiamo nel nostro tempo e soltanto nel nostro tempo. Stiamo nel nostro tempo, ma anche in altri tempi. E’ proprio questo stare qui e nello stesso tempo altrove che ci abilita a servirci di tutti i materiali possibili. Quindi Kant, certo, perché no? Ma anche altri, non soltanto Kant. Io non sono un ‘kantiano fissato’ che pensi che soltanto Kant sia esistito nella storia del pensiero. Il contrario, invece, cioè l’accettare pienamente solo i problemi dell’attualità, cioè i problemi che presuntivamente sarebbero solo dell’attualità, significa ‘schiacciarsi’ sull’esistente, e quindi non capire più niente.

ENRICO COCUCCIONI: Sì, c’è ad esempio, da parte di alcuni critici d’arte, una esigenza di scrollarsi di dosso, in un certo senso, una visione divenuta ormai quasi caricaturale della ‘condizione postmoderna’. Ad esempio, una concezione della ‘fine della storia’ che poi, in fondo, è abbastanza paradossale, poiché quando si parla di ‘fine’ c’è sempre il sospetto che si voglia affermare una visione escatologica tendente ad escludere a priori qualsiasi ulteriore possibilità di sviluppi futuri, i quali invece non è detto che siano così irreversibili o prevedibili…

EMILIO GARRONI: Forse la storia è davvero finita, ma solo nel senso che una storia storicistica non è mai cominciata. Allora, la fine della storia non è neanche escatologia, è semplicemente l’accertamento di qualcosa che c’è già da sempre, cioè la storia come vicende umane nel mondo che si realizzano in un insieme di percorsi variamente intrecciati, ora sovrapposti, ora disgiunti, ora riecheggianti in altri percorsi, ora ritornati su se stessi, tali cioè da mangiarsi la coda. Se invece per storia intendiamo appunto tali vicende umane nel mondo, quindi anche le connotazioni culturali che queste vicende assumono, la storia non finisce mai.

ENRICO COCUCCIONI: C’è un altro tema ricorrente nel ‘dibattito sul postmoderno’ che una volta Filiberto Menna riassunse con un’espressione ironica, parlando di ‘lassismo critico’ (il riferimento era soprattuto ad alcune affermazioni di Lyotard circa il ruolo della performatività come criterio supremo di valutazione anche dei prodotti culturali). Ai nostri giorni, un esempio quasi caricaturale di questo modo di valutare gli effetti pragmatici di un messaggio lo troviamo in campo televisivo, dove il mero indice d’ascolto di un programma ne determina in modo pressoché meccanico la sorte al di là di qualsiasi altra considerazione più ‘analitica’. Ora, per un pensiero critico, forse l’unica possibilità di continuare a proporre qualcosa di non riducibile a tale criterio puramente quantitativo, è quella di riprendere il filo di un discorso basato su una diversa lettura, meno superficiale o frettolosa che in passato, proprio della terza Critica kantiana.

Mi riferisco qui, in particolare, a quelle interpretazioni che tendevano ad accreditare una certa idea del ‘formalismo’, dell’estetismo, del gioco disimpegnato, la cui successiva fortuna sarebbe da far risalire alle tesi esposte in quell’opera. Penso, per esempio, ad alcune considerazioni che si trovano in Poesia e ontologia, di Gianni Vattimo, o nel libro di Giorgio Agamben L’uomo senza contenuto, e che potrebbero essere facilmente fraintese o intese in questo senso riduttivo. Si tratta spesso di un Kant letto attraverso Nietzsche, il quale a sua volta lo leggeva attraverso l’ottica di Schopenhauer. Anche in tempi più recenti, tali ‘luoghi comuni’ non sembrano neppure tener conto della ‘correzione del tiro’ da parte di Heidegger, il quale nel libro che raccoglie le sue famose lezioni su Nietzsche sottolineava bensì che il "disinteresse" in Kant è ben altra cosa rispetto…

EMILIO GARRONI: Anche un ‘contenutista’ come Hegel se ne era accorto, che il disinteresse in Kant era un’altra cosa…

ENRICO COCUCCIONI: Proprio per questo, viene qui in primo piano la connessione tra etica ed estetica… Nel Tractatus c’è una piccola frase, un’espressione laconica di Wittgenstein messa tra parentesi…

RICCARDO SATILLI: «Etica ed estetica sono uno»

EMILIO GARRONI: È molto sibillina quella frase, però…

ENRICO COCUCCIONI: E nella frase precedente si afferma che l’etica è trascendentale…

EMILIO GARRONI: Anche questa frase non ha spiegazioni analitiche, però si capisce che cosa ha in mente Wittgenstein. Solo che non vuole e non può dire di più e più analiticamente per ragioni propriamente critiche. Infatti l’etica non riguarda stati di cose. Però il Wittgenstein del Tractatus dice non che un’etica non è possibile, ma, appunto, solo che di un’etica e di fatti etici non può darsi una conoscenza. Infatti l’etica non parla di stati di cose ma di stati che dovranno-essere e non sono.

RICCARDO SANTILLI: A mio modo di vedere uno dei punti in cui la Critica della facoltà di giudizio apre una voragine che forse Kant non si sentiva di portare avanti è il fatto che, in fondo, il fare senso coincide in alcune parti con un dover-essere del senso.

EMILIO GARRONI: E’ vero, ci sono solo accenni in Kant, ma si tratta di accenni assai pregnanti. Il paragrafo 22 è abbastanza esplicito: Kant parla del «senso comune» come qualcosa che, forse, dipende da un principio più alto della ragione, cioè dalla ‘Ragione pratica’.

RICCARDO SANTILLI: E in parte anche da una facoltà da acquisire, da affinare…

EMILIO GARRONI: E quindi da realizzare.

RICCARDO SANTILLI: Ritengo che un altro punto dell’estetica, oltre a quello di darsi un referente che non sia l’arte ma sia appunto il sentire e il conoscere, sia proprio quello di delimitare, in una maniera ancora da definire, i rapporti tra senso e dover essere del senso, la possibilità di una comprensione e il dovere di una comprensione in alcuni casi. Questa è un’altra grande attesa, intesa come ad-tendere, ovvero ‘tendere-verso’, in quanto tensione che orienta l’estetica contemporanea…

EMILIO GARRONI: Certo che il senso non è una cosa pacifica. Non è una condizione che noi abbiamo già a disposizione, ma dobbiamo istituirla continuamente. Però questo dover istituirla è un principio. Non è un’esigenza di rassicurazione nostra: «la mia vita non può essere insensata, deve poter avere in qualche modo un senso»… No, il fatto è che non può non avere un senso, che deve avere un senso. E tuttavia non c’è niente di garantito.

Roma 14 marzo 2001


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