Quando portai a Kafka una di queste serie di fotografie gli dissi allegramente: "Per un paio di corone ci si può far fotografare da ogni angolazione. Questo apparecchio è un Conosci-Te-Stesso meccanico".
"Di' piuttosto un Non-Conosci-Te-Stesso", disse Kafka con un sorrisetto.
Io protestai. "Cosa intendi dire? La macchina non può mentire".
"Chi te l'ha detto?" Kafka
piegò la testa su una spalla. "La fotografia concentra la nostra
attenzione sulla superficie. Di conseguenza abbuia la vita nascosta che
balugina attraverso i contorni delle cose come un gioco di luci e ombre.
E questa non si può coglierla neanche con il più penetrante
degli obiettivi. Si può solo cercarla a tastoni... Questa macchina
automatica non moltiplica gli occhi degli uomini, dà soltanto una
visione a volo d'uccello incredibilmente semplificata"».
«Una fotografia è
considerata dimostrazione incontestabile che una data cosa è effettivamente
accaduta. Può deformare, ma si presume sempre che esista, o sia esistito,
qualcosa che assomiglia a ciò che si vede nella foto. Quali che siano
i limiti (per dilettantismo) o le pretensioni (per ambizioni artistiche)
del singolo fotografo, una fotografia - qualunque fotografia - sembra avere
con la realtà visibile un rapporto più puro, e quindi più
preciso, di altri oggetti mimetici».
Certo, come sosteneva Kafka, quella porzione di realtà impressa non rappresenta comunque la realtà che per sua natura si presenta sotto infiniti ulteriori aspetti che non potrebbero entrare oggi nemmeno in una videocamera. A dire che la complessità del reale è tale per cui una fotografia non è che una infinitesima parte di essa, una porzione di reale quasi insignificante.
Lasciando stare i problemi filosofici, per quanto interessanti, la fotografia è comunque rimasta legata per anni e lo è spesso anche ora, ad un concetto di verità oggettiva, per cui se un evento, un fatto di questo mondo è documentato da fotografie, allora vuol dire che esiste, che è esistito, che si voglia o meno ci dobbiamo credere.
Ancora oggi, purtroppo si tende a ragionare in questa maniera: ancora oggi, pur sapendo che con il computer si può manipolare più o meno tutto, si pensa che ogni cosa che vediamo, qualsiasi immagine del mondo sia vera, oggettiva, indubbia, ovvia, genuina, pura, etc. Eppure chi si occupa di media ben sa che ciò non è possibile.
L'attenzione che il nostro mondo ha per le immagini per ragioni pratiche ci ha allontanato dal pensiero del rapporto che esse hanno con la realtà: effettivamente non potremmo fermarci ogni momento a chiederci se tale immagine è vera o falsa, di conseguenza le riteniamo tutte vere, magari lasciando in qualche angolo del nostro cervello il sentimento del dubbio.
Il fatto di cui si vuole ora parlare riguarda una foto ritoccata al computer apparsa su «Il Manifesto» il 10 ottobre 2000. Si trattò di una foto di un palestinese che - apparentemente - si riparava la testa sullo sfondo di altri dimostranti che lanciavano sassi: poiché conteneva delle antiestetiche gambe tagliate in primo piano, i suoi grafici decisero di eliminarle. La stessa foto fu pubblicata lo stesso giorno anche su «La Repubblica» e su «Il Corriere della sera», per cui fu una passeggiata per «Striscia la notizia» smascherare il misfatto. Si confrontino qua sotto le due fotografie, quella ritoccata a sinistra e quella originale a destra.
Eppure le principali testate giornalistiche del mondo hanno in proposito un codice, scritto o talvolta soltanto perpetuato dalla tradizione orale e dalla consuetudine, che prevede l'inviolabilità dell'immagine.
L'agenzia Associated Press (da cui sia «Il Manifesto» che «La Repubblica» e «Il Corriere della sera» hanno acquistato l'immagine) ha un codice etico scritto che assicura i suoi clienti (oltre 1.500 giornali di tutto il mondo) che le immagini fornite non sono state alterate in alcun modo, se non per migliorarne unicamente alcuni aspetti tecnici: contrasto, luminosità, incisione. Il codice dell'AP così dice: "The content of a photograph will NEVER be changed or manipulated in any way" ("Il contenuto di una fotografia non sarà MAI cambiato o manipolato in alcun modo"). AP estende anche ai propri clienti la condizione di non manipolare le immagini e si riserva il diritto di interrompere la fornitura di immagini alle testate che violino questa clausola contrattuale.
L'episodio non è ovviamente il solo nel campo del fotogiornalismo: negli USA, per citare un fatto molto noto, ha fatto storia il caso delle Piramidi di Giza avvicinate con il computer per permettere l'impaginazione di una copertina del «National Geographic» nel lontano 1982. Bill Allen, vicedirettore della testata, ricorda che per molti anni dopo l'incidente è stato costretto a rispondere in pubblico alla impertinente e provocatoria domanda: "Avete smesso di spostare piramidi?".
Per non parlare poi delle foto
della famiglia reale inglese con il volto del principe William ritoccato per
correggere uno sguardo triste e "poco regale". In occasione di ognuno di questi
"casi giornalistici" sono seguiti dibattiti accesi e pubbliche prese di posizione(2).
E il problema rimane tuttora aperto, tanto che Franco Carlini così
scrisse in un articolo apparso su «Il Manifesto» del 15
ottobre 2000:
La nostra tesi è
questa: l'epoca digitale obbliga chi scrive con le immagini a nuovi codici
e dovrebbe spingere chi le legge ad assumere verso di esse un diverso
atteggiamento mentale».
A)- Con l'innovazione del digitale cadono due caratteri fondamentali della fotografia classica, così come la si era sempre intesa: la sua immutabilità e il suo essere d'autore. Entra in discussione dunque il concetto stesso di originale e di autentico e una stessa opera fotografica si troverà a essere figlia di diversi autori: chi ha scattato, chi ha trasformato, chi ha tagliato per impaginare.
B)- La manipolazione in sé non sarebbe un fatto negativo per la correttezza dell'informazione, se essa si limitasse alla variazione dei colori e dei loro rapporti, alla resa quindi di un'immagine migliore dal punto di vista della sua "resa visiva".
C)- Eppure la manipolazione delle immagini di attualità è purtroppo un costume diffusissimo sulla stampa italiana, tanto diffuso che ormai non ci si rende conto di quello che significa dal punto di vista dell'informazione.
D)- In relazione a quest'ultimo punto, possiamo dire che, se è inevitabile al giorno d'oggi l'alterazione della nostra percezione del mondo, l'importante è che questo processo di artificializzazione sia noto e pubblico e che dunque chi guarda sia pienamente informato delle trasformazioni. L'importante è essere consapevoli che le immagini cui ci troviamo di fronte quotidianamente non sono per forza pure e sincere nei confronti della realtà. Se ogni cosa può essere vera, è vero anche il suo contrario. Il guaio non è la manipolazione, ma il far finta che sia vera.
L'era dei media ci dovrebbe insegnare prima di tutto a dubitare e poi a guardare.
Venezia, 28 Marzo 2001
Note
(1) Cfr. Roberta Valtorta, Milano, 8 ottobre 1999 (scritto per il convegno «Horror vacui», Torino, Artissima, 9 ottobre 1999).
(2)
Di seguito, la risposta de «Il Manifesto» alle accuse
di manipolazione (11 ottobre 2000): «Qualcuno ha protestato, "Striscia"
ci ha presi in giro: avete manipolato la foto di ieri in prima pagina?
Sì, l'abbiamo manipolata. Non si dovrebbe fare, in realtà
volevamo procedere a uno scontorno, cioè evidenziare il particolare
che ci interessava. Non l'abbiamo fatto per motivi di tempo, ma l'idea
che volevamo comunicare era quella: un palestinese con una fionda in mano
che si ripara dai proiettili. L'immagine delle gambe dell'altro palestinese
l'abbiamo cancellata non solo perché rovinava a nostro giudizio
una bella foto ma anche perché non aggiungeva nulla al fatto. Non
certo perché ci vergognamo dei palestinesi che tirano le pietre.
Anzi: pubblichiamo da anni le loro foto, scriviamo da sempre che fanno
bene a ribellarsi». Cfr.
anche il testo di Marco Capovilla nel sito http://www.fotoinfo.net/clip/capovilla.htm
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