di Caterina Falomo
Massimo Donà è docente di Estetica all'Accademia di Belle Arti di Venezia. Ha di recente pubblicato il saggio «Il fare perfetto» compreso nel libro ARTE TRAGEDIA TECNICA - Cortina Editore, Milano 2000 (libro che contiene anche un altro saggio, «Salvezza che cade», dedicato alla «questione della Tecnica in Heidegger», scritto da Massimo Cacciari). Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il "bello"...o di un accadimento (Venezia 1983) e Sull'assoluto (Torino 1992).
Sulla differenza tra «arte» e «techne»...
CATERINA FALOMO: Nell'analisi della differenza che esiste tra il fare della techne e il fare dell'arte Lei arriva alla conclusione che il fare dell'arte è sostanzialmente libero di esistere (dal momento che il suo unico vincolo è l'esistere) mentre la techne vive nella "speranza" ma allo stesso tempo si scontra con il continuo fallimento del fare. Eppure è proprio da quel fallimento che ha origine l'evoluzione della tecnica. Possiamo quindi considerare positivo il suo limite intrinseco?
MASSIMO DONÀ: Prima di precisare, sia pur approssimativamente, la differenza tra il fare della techne e il fare dell'arte, è necessario dire qualcosa intorno alla natura della tecnica.
Si tratta di comprendere che la techne allude sì ad una forma del fare destinata al fallimento continuo se non altro in quanto in essa si esperisce limpossibilità di raggiungere il fine propostosi , ma nello stesso tempo apre, per il medesimo motivo, anche alla possibilità di un vero e proprio sviluppo infinito, di una crescita infinita.
E necessario dunque chiarire le ragioni di questo destinale fallimento, ossia del suo (della tecnica) non poter mai raggiungere il proprio scopo; dovuto appunto alla forma stessa con cui la tecnica nasce nellorizzonte della grecità antica. Basti dire che in quegli inizi già si delinea lidea di tecnica che poi finirà per accompagnare luomo occidentale sino ai nostri giorni si pensi ad esempio alla figura di Prometeo colui che vede-prima. Il fuoco che Prometeo dona agli uomini rende possibile un fare costitutivamente pre-visionale. Il suo è un vero e proprio "vedere-prima".
Ma cosa implica la struttura di una tale forma del fare? Innanzitutto che si possa e si debba vedere prima ciò che accadrà poi; sì che sia possibile produrre nel poi quello stesso che si è appunto già visto nellorizzonte di un prima proprio per ciò costitutivamente pre-visionale.
Insomma, la tecnica implica un vero e proprio "vedere prima" quello che accadrà poi: e daltro canto, solo perché lo si vede prima, diventa possibile proporsi di produrlo. Il fuoco che Prometeo ruba agli Dei è dunque proprio la possibilità resa perfetta e potente dalla sapienza calcolante e dalle varie strumentazioni che contribuiscono a far essere "nel poi" quanto si era visto "nel prima" di realizzare una visione (eidein) originaria.
Ma, il punto fondamentale è il seguente: quel che si è visto prima si costituisce per la struttura stessa allinterno della quale un tale concetto nasce come un "universale" (Platone direbbe: un eidos). Ciò che il technites vede "prima" è qualcosa che, costituendosi come una visione originariamente soggettiva, non può darsi se non come un universale. Il soggetto, infatti, vede con il Nous; e dunque vede idee egli concepisce, e dunque fa riferimento a concetti ma il concetto è sempre un universale. In questo senso Platone poteva parlare della visione vera della cosa come di una visione fondamentalmente "eidetica", ossia come una visione dellidea. "Teoria" da theorein allude dunque ad un "vedere" lidea, luniversalità.
Qual è, dunque, lo scarto fondamentale tra il vedere prima e il poi, quello in cui il veduto verrà per lappunto realizzato grazie al fare tecnico ?
Lo scarto è dovuto al fatto che, mentre ciò che viene visto "prima" è una verità universale, il nostro volerla produrre concretamente, nellesperienza sensibile, il nostro farla essere nel poi in cui si risolve il fare tecnico, è costretto ad inverarsi in un prodotto che sarà inevitabilmente "particolare", "singolare" e "individuale". E quindi necessariamente "limitato". La tecnica non può che risolversi in un prodotto particolare ed individuale in un realmente esistente. Da ciò linevitabile tradimento dello scopo verso cui il fare avrebbe voluto muoversi.
Come dire: io vorrei produrre qualcosa che valga come la perfetta realizzazione della visione originaria sempre "universale" (quello che noi chiamiamo "il senso della cosa") , ma il movente del mio fare (la causa finale, avrebbe detto Aristotele), proprio perché valevole come luniversalità soggettiva che sempre e solamente posso vedere, sarà sempre di là da venire rispetto ad ogni reale oggetto prodotto ossia sarà un fine sempre di là da venire. Certo, la speranza è quella di poter alla fine raggiungere lo scopo, ma daltro canto è evidente: in quanto vivo in un mondo fenomenico fatto di enti particolari ed individuali, potrò raggiungere lo scopo sempre e solamente all'infinito. Ed è naturale che sia così, perché la visone iniziale del soggetto è una visione che appartiene ad un ente che come verrà precisato dalla modernità e da tutto lidealismo è per natura infinito. Se dunque io sono infinito, lo stesso fine verso cui pro-cede il mio fare tecnico sarà infinito.
Ma è proprio questo che, oltre a destinare al fallimento ogni specifica forma del fare, rende possibile uno sviluppo e un incremento infiniti della potenza del mio fare e quindi la sua progressione infinita.
Perciò quello stesso che dice "il limite" dice anche il privilegio della tecnica. Perché è per esso che posso accrescere allinfinito la potenza realizzativa della tecnica; per questo potrò dire di non aver mai finito o esaurito le possibilità a mia disposizione e di poter sempre ancora accrescere la potenza e il dominio sul mondo.
Cè dunque anche una valenza positiva dellirrisolvibilità del progetto tecnico sì che positività e negatività, riuscita e fallimento debbano essere tenute sempre insieme come inscindibili. Pena, il non riuscire a comprendere affatto la natura della tecnica.
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