Le avanguardie artistiche del secolo scorso ci avevano abituati all'ipotesi che l'arte fosse in qualche modo portatrice di un pensiero critico. E della conseguente capacità operativa di ricercare alternative all'esistente. Ciò comportava l'intenzione esplicita di mantenere una sostanziale autonomia propositiva rispetto alle preferenze "estetiche" più diffuse, alle concezioni "accademiche" dell'arte, nonché alle stesse esigenze d'immagine delle istituzioni politiche dominanti. Un atteggiamento, dunque, che fosse in qualche misura distinguibile dalle tattiche culturali puramente retoriche, celebrative, propagandistiche, ossia basate sulla mera "estetizzazione della politica" o del mercato.
Ma oggi la situazione appare ben diversa. Non è affatto chiaro se, nelle strategie dell'arte odierna e nel contesto del mercato globale, si possano ancora trovare istanze critiche consapevoli, proposte concrete di visioni culturali "alternative" più o meno credibili. Nei confronti delle incessanti novità tecnologiche, ad esempio, la tendenza alla polarizzazione sommaria delle posizioni sembra prevalere sull'analisi approfondita delle complesse implicazioni culturali, ambientali ed esistenziali di tali trasformazioni. Il dibattito spesso tende dunque a ridursi ad una polemica superficiale: una sterile discussione tra chi è mosso da entusiasmi apologetici e chi evoca invece scenari apocalittici. Esiste tuttavia la possibilità che nell'uso concreto dei diversi media tecnologici siano in qualche modo incluse delle strategie critiche, sia pure non già nella forma tradizionale del saggio o del manifesto teorico, bensì in quella di un'attitudine concettuale e performativa diversamente specificata. Strategie residuali, forse, ma non per questo prive, a mio avviso, di una qualche positiva incidenza nel panorama culturale odierno.
Si tratta dunque di progettare eventi che non solo prevedano una "drammaturgia", una "scrittura scenica", la partecipazione attiva di un "pubblico", ma che soprattutto accolgano al loro interno una esplicita dimensione autoriflessiva, i presupposti conoscitivi di una non superficiale consapevolezza delle caratteristiche salienti dei media utilizzati, nonché un "indice critico" puntato sulla realtà sociale ed esistenziale del proprio tempo.
Un esempio lampante della necessità particolarmente sentita dagli artisti contemporanei di coniugare la rappresentazione tecnologica – per così dire "automatica" – del reale, con una esplicita dimensione drammaturgica e performativa, lo troviamo oggi con rinnovate modalità espressive nell'ambito dei linguaggi fotografici. Come osserva Michel Poivert (La fotografia contemporanea, Einaudi 2011), «Gli artisti manifestano da oltre una generazione una passione per i rapporti tra teatralità e fotografia, come dimostra il modo in cui la messa in scena, il personaggio e l'ambientazione prendono parte al valore espressivo delle immagini» (p. 209). L'autore così chiarisce il suo concetto di immagine-performance: «Fare di un'immagine una performance non vuol dire registrare una performance ma, nel senso dell'esecuzione linguistica che associa una parola a un atto, significa effettuare un'immagine come si effettua un gesto. L'immagine diventa performance nel momento in cui diventa l'unica finalità di quanto viene mostrato: la messa in scena fa l'immagine, la posa è stabilita per l'immagine. In tal senso, quest'ultima, come ogni creazione, non è determinata da un valore d'uso. La sua teatralità non ha la vocazione di produrre un messaggio, ma di aprire il senso» (p. 213).
Impossibile non vedere questi fotodrammi in azione, queste ombre e queste luci tipicamente "teatrali" della fotografia contemporanea: il non prestare attenzione, nel quadro delle molteplici adozioni attuali del mezzo fotografico in campo artistico, a questo specifico aspetto della "messa in scena", della "regia dello sguardo", dell'evento spettacolare coniugato talora con una evidente vocazione "neo-pittorialistica" (favorita, tra l'altro, anche dall'uso delle tecniche digitali di elaborazione grafica delle immagini), impedirebbe di cogliere, a mio avviso, proprio i tratti più innovativi e qualificanti di molte ricerche visive odierne. Anche nell'orizzonte delle visioni fotografiche più diffuse non troviamo all'opera soltanto forme di stereotipato – e talora, forse, fin troppo "spensierato" – estetismo, ma anche atteggiamenti ben più anticonvenzionali e criticamente incisivi. Come scrive, a questo proposito, il fotografo e teorico della fotografia David Bate nelle note conclusive del suo saggio (Il primo libro di fotografia, Einaudi 2011), «...in un mondo multipolare, il flusso e il riflusso delle immagini sono parte dei mutamenti impressi alla forma delle strutture di potere del mondo. La fotografia è uno dei mezzi attraverso i quali tali strutture vengono rappresentate, e anche un mezzo attraverso il quale criticarle» (p. 239).
Per comprendere il senso più generale dell'ipotetico orizzonte culturale "mediaturgico" qui evocato, di particolare interesse si rivela il recente libro di Anna Maria Monteverdi dedicato a quegli eventi performativi che intrattengono feconde relazioni con i nuovi media (Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e digitalità, Franco Angeli 2011). Come osserva l'autrice del libro – riferendosi, in particolare, allo spettacolo Continuous city nonché, più in generale, all'attuale lavoro sia in campo teorico che drammaturgico della regista Marianne Weems – «Quello che è interessante negli spettacoli di Marianne Weems è la straordinaria capacità di teatralizzare alcuni concetti finora trattati in saggi di sociologia dei media o al cinema: il nuovo spazio pubblico, il panottico, la soggettività connettiva, la cultura della "virtualità reale" (De Kerchove), la nuova socialità elettronica. Concetti chiave come quello di dislocazione e deterritorializzazione, così come quelli di presenza e ubiquità prendono la forma di una mediaturgy che pone i protagonisti come "vettori" di un contenuto che altro non è, in sintesi, che la grande rete mondiale» (p. 223).
Muovendo da premesse teoriche che nascono anche dalla rilettura di alcuni testi famosi di personaggi chiave della cultura del '900 come Walter Benjamin, Bertolt Brecht e Marshall McLuhan, c'è poi chi propone una singolare definizione della mediaturgy intesa come una "critica etnografico-surrealista dei media" basata essenzialmente su metodologie di "appropriazione e remix". Il promotore di questo approccio è un autore americano, Holland Wilde, con esperienze operative nel campo del TV Design ma interessato anche allo sviluppo di una riflessione teorica condotta in vista di una esemplare "verifica pubblica" dei suoi risultati, basata soprattutto sullo studio analitico dei linguaggi mediatici, dove però lo sguardo intellettuale (il taglio, per così dire, puramente "culturologico") non è mai disgiunto da una concreta procedura ideativa – una sorta di riscrittura drammaturgica, appunto – che si esplica, in sintesi, nella decostruzione e nel "rimontaggio" dei documenti audiovisivi esaminati. Alcuni esempi si possono vedere nel sito mediaturg.org.
Roma, Gennaio 2012