«Se ogni operazione è sempre formativa, nel senso che non riesce ad essere se stessa senza il formare, e non si può pensare o agire se non formando, invece l'operazione artistica è formazione, nel senso che si propone intenzionalmente di formare, e in essa il pensare e l'agire intervengono esclusivamente per renderle possibile di non essere che formazione» ( Luigi Pareyson, 1954)
Il rapporto "arte/formazione", qui anche inteso in quel senso specifico che chiama direttamente in causa la didattica delle 'discipline artistiche' contemporanee, sarà uno dei temi chiave dei contributi teorici che abbiamo in programma di ospitare nella rivista prossimamente (a partire dal presente mese di ottobre 2004). Sappiamo che la formazione di chi è interessato alle discipline artistiche avviene, in genere, sia sul piano teorico dei discorsi, sia su quello pratico degli esempi. Nella bottega artigiana si apprende qualcosa di un mestiere perlopiù seguendo l'esempio di un maestro. L'allievo trova così una figura ispiratrice o un'immagine rassicurante in cui può, in qualche misura, identificarsi.
Un "metodo" di apprendimento che ha funzionato per secoli, almeno fino alla nascita delle prime istituzioni accademiche. Ma per accedere alle moderne professioni "liberali" gli esempi, per quanto paradigmatici e motivanti, non bastano. Tra le doti richieste, si può presumere che ci sia oggi anche il formarsi nel singolo "apprendista" di un'autonoma coscienza critica sorretta da un adeguato ventaglio di esperienze non episodiche relative al settore operativo prescelto. Nonché da un corpus d'informazioni specialistiche e di conoscenze teoriche non certo riducibili alla sfera empirica e aneddotica del personale rapporto d'identificazione con un maestro.
Non modelli né mode da seguire, dunque: quel che alla moderna figura dell'artista sembra essere più o meno tacitamente richiesta è proprio una capacità di proporre alternative all'esistente. Si rende perciò necessario un consapevole distacco propositivo da tutto ciò che nell'arte è stato già esperito e storicizzato. Non si cerca quindi, in primis, una particolare attitudine o abilità nel realizzare bene determinati oggetti — un "bene" che non potrebbe a rigore ottenersi, nel caso specifico, dalla semplice applicazione di regole già date — bensì una qualche efficacia "creativa" nel sollecitare, per così dire, la formazione di nuovi sguardi sul mondo. Ora, appare evidente quanto il tema della formazione artistica si annodi qui strettamente con quello di un'arte della formazione.
Qualcuno può proporsi di formare diversamente uno sguardo — uno sguardo che per ciascun soggetto appartenente ad una data cultura si può in qualche misura supporre "già dischiuso" sulle cose del mondo — solo sulla base di una preliminare credenza nella reale formabilità di tale sguardo. Si può certo sostenere che esistano alcuni mestieri votati per paradossale costituzione allo scacco: «Governare, educare e fare lo psicoanalista», secondo una nota battuta di Freud, saranno pure, per molti versi, «mestieri impossibili», ma il grande medico viennese doveva pur crederci almeno un po' nell'efficacia dello strumento terapeutico da lui stesso inventato. D'altronde, a quanto ci risulta, nessun paziente lo ha mai denunciato per truffa.
Sappiamo bensì che anche l'angoscia generata dagli aspetti più inquietanti della modernità ha trovato potenti "rimedi estetici" nell'arte proposta dalle avanguardie del secolo scorso. Già nel libro Lo Spleen di Parigi, come sappiamo, Baudelaire reinquadrava così l'esperienza solitaria del poeta vagabondo che si "perde" tra le anonime moltitudini metropolitane: «Godere della folla è un'arte». Con questa particolare vocazione per il sublime, quale tipica risorsa "perturbante" dell'arte contemporanea, non c'è angoscia che non possa all'occorrenza convertirsi nell'estasi laica di un "godimento" sempre situabile «al di là del principio del piacere».
Un godimento che non trae origine, dunque, da un sentimento gratificante di "pienezza". Il suo innesco, infatti, a quanto pare non deriva da un successo performativo nella soluzione di un problema. La sua causa principale non si risolve quasi mai nella "parata fallica" delle mere esibizioni di potenza (come in quella tipica sindrome ottocentesca da 'Esposizione Universale' delle meraviglie della tecnica, per intenderci), o nella contemplazione narcisistica della presunta centralità di un Io «padrone in casa propria», ma anzi trova sovente nella "dispersione", nella "catastrofe", nella "caduta", nello "svuotamento", nella "demolizione dell'Io", le proprie occasioni scatenanti privilegiate.
Non è improbabile che anche quei non-luoghi ipermoderni descritti da Marc Augé, o quelle città-panico evocate nelle recenti analisi della condizione urbana da Paul Virilio, siano già divenute, per l'arte odierna, da semplici categorie sociologiche negative, anche possibili chiavi di lettura "estetica" della realtà in cui viviamo. Rispetto al tema della formazione artistica in senso stretto, una delle domande culturalmente cruciali riguarda oggi le modalità di inclusione dei linguaggi audiovisivi o multimediali anche nell'ambito delle discipline di base che configurano il campo tradizionale delle arti plastiche e del relativo impianto accademico "generalista" che tale formazione prevede da lungo tempo nei nostri ordinamenti didattici.
La questione, insomma, non riguarda solo il tema dell'aggiornamento professionale in questo o quel settore specifico. Non basta, ovviamente, aggiornare i programmi didattici solo in vista di qualche vera o presunta necessità contingente dell'odierno mercato delle specializzazioni tecnico-prefessionali, annettendo magari al piano di studio qualche singola materia specialistica come, ad esempio, la "videografica", il "web design", la "modellazione 3D" o la "fotoillustrazione digitale", accanto alle materie di base più "classiche" come la pittura, la scultura o la scenografia. Possiamo dunque porre oggi la seguente questione 'strategica': si tratta solo di aggiungere al background "umanistico" tradizionale l'addestramento all'uso di determinati programmi informatici o non, piuttosto, della necessità di una più generale riformulazione di tutti i saperi accademici alla luce di quanto è stato elaborato dalle stesse avanguardie artistiche del Novecento? Senza un adeguato bagaglio teorico, e qualche atto critico-artistico ritenuto esemplare o "fondante" da un'intera comunità di studiosi, come può una nuova disciplina costituirsi propriamente come tale?
Sul piano delle strategie formative bisogna dunque rendersi conto che le stesse arti plastiche tradizionali si sono costituite "ufficialmente" come ambito disciplinare pressoché unitario, o supposto tale, solo a partire da determinate circostanze storico-culturali. Sappiamo infatti che le arti definite come "discipline del disegno" (architettura, scultura e pittura) sono state per così dire "istituite" a Firenze da Giorgio Vasari poco meno di 5 secoli fa. Il che non significa, ovviamente, ritenere tale istituzione arbitraria o del tutto svincolata dalle necessità oggettive del proprio tempo.
Possiamo chiederci allora se nell'attuale orizzonte della "sintesi digitale" dei linguaggi espressivi non sia venuto il momento di includere a pieno titolo anche il "disegno audiovisivo"[1] tra le arti vasariane del 'disegno', soprattutto tenendo conto del fondamentale apporto — anche teorico — che il secolo appena trascorso ci ha offerto, ad esempio, col proporre il cinema o il video quali nuove forme d'arte. Si tratta, evidentemente, di arti non soltanto "visive", in quanto basate sulle molteplici potenzialità narrative, progettuali, coreografiche, poetiche, performative e drammaturgiche di quella formatività multisensoriale che oggi può trovare nella diffusione delle tecniche digitali il suo ulteriore momento di espansione creativa.
Roma, 8 ottobre 2004